Emozioni, Depressione e Cibo

Diceva Voltaire: “Nulla sarebbe più faticoso di mangiare e bere se Dio, oltre che una necessità, non ne avesse fatto un piacere”. In effetti, da sempre il cibo ha rappresentato per l’uomo non solo un’esigenza fondamentale per il soddisfacimento dei bisogni energetici dell’organismo, ma anche uno dei piaceri basilari della vita. Troppo spesso, anche se sazi, andiamo alla ricerca di cibi allettanti e appetitosi, obbedendo a un impulso, a volte irrefrenabile, proveniente dalle regioni del cervello che mediano l'esperienza del piacere con il preciso scopo di nutrire le emozioni piuttosto che il corpo. Il cibo diventa, così, una vera e propria droga che consente di soddisfare quella che è stata opportunamente definita “fame edonica” e concedere un almeno momentaneo sollievo dagli stress e dalle ansie della vita quotidiana.

“Lascia che il tuo cibo sia la tua medicina e che la tua medicina sia il tuo cibo”, sosteneva Ippocrate, fondatore della medicina moderna. In effetti, lo stress e gli stati emotivi a esso legati (tristezza, collera, paura), condizionano profondamente il comportamento alimentare, in particolare la quantità e la qualità del cibo che mangiamo. Nei momenti difficili e negativi della vita, il 40% circa degli individui mangia meno e il 40% di più (a volte troppo e in modo incontrollato!) mentre solo il 20% non muta le proprie abitudini alimentari. Comunque, indipendentemente dalla quantità di cibo assunta, tutte le persone stressate, depresse e ansiose tendono a spostare le loro preferenze verso alimenti gratificanti, gustosi e ipercalorici, ricchi di zuccheri, sale e grassi, definiti anche comfort foods.

Perché questa scelta quasi obbligata? Ricerche condotte sia sugli uomini che sugli animali hanno dimostrato che questi cibi stimolano direttamente l’attività delle aree cerebrali che controllano l’umore, l’ansia, e la sensazione di piacere, aiutando così a superare la demoralizzazione, l’ansia e il pessimismo che accompagnano spesso i momenti di stress. Comunque, se è vero che l’assunzione sporadica di comfort foods nei momenti difficili aiuta a restituire il benessere, il loro consumo prolungato nel tempo, secondario allo stress cronico, si può associare a gravi conseguenze. Generalmente, infatti, se non riusciamo a procurarci il nostro cibo preferito, proveremo solo fastidio e dispiacere. Invece, per alcuni individui geneticamente predisposti, i cibi ipercalorici, assunti per vincere lo stress e l’ansia, diventano una droga, creano una vera e propria dipendenza e, a causa di un processo di assuefazione all’effimero benessere da essi procurati, devono essere assunti in quantità sempre maggiori per ottenere il loro effetto rilassante.

Questi individui sono incapaci di fare a meno dei loro alimenti preferiti e, se non possono averli, vanno incontro a sintomi di astinenza: malessere generale, ansia, cefalea, astenia, torpore. Naturalmente, molti rischiano l’obesità e il disturbo di cui soffrono, chiamato “disturbo d’alimentazione incontrollata” (DAI), è stato oggetto negli ultimi anni di intense ricerche. Si calcola che in Italia colpisca 1.300.000 persone, in una fascia d’età compresa fra la tarda adolescenza e i 40 anni. Il DAI è caratterizzato da abbuffate incontrollabili e compulsive, scatenate da stress, ansia e depressione, durante le quali si “ingurgitano” in poche ore grandi quantità di cibo, fino a sentirsi scoppiare e senza riuscire nemmeno a gustare quel che viene mangiato. Le abbuffate sono consumate in solitudine, spesso di nascosto, con vergogna ed enormi sensi di colpa e, se frequenti, conducono inevitabilmente all’obesità.

L’industria alimentare è ben conscia della diffusa debolezza verso i comfort foods che, nel caso del DAI raggiunge il suo picco, e ha inondato il mercato di alimenti facilmente reperibili, a basso costo, ricchi di grassi (spesso di qualità scadente, come l’ormai onnipresente olio di palma), zuccheri e sale. Snack, patatine, bevande gassate zuccherate ci fanno l’occhiolino tutti i giorni dagli scaffali dei supermercati e dagli schermi televisivi. Fra il 1970 e il 2000, è stato calcolato un aumento del 42% pro capite nel consumo dei grassi, a causa della loro presenza nei cibi industriali, e del 162% nel consumo dei formaggi, contro un misero 20% di incremento per frutta e verdura. Le calorie ingerite con singolo pasto consumato nei fast food (hamburger, patatine, soda e dessert) sono superiori al fabbisogno energetico quotidiano! Inoltre, dall’inizio del XX secolo a oggi, grazie all’ automatizzazione, all’urbanizzazione e ai computer, si è progressivamente ridotto il dispendio energetico derivante dall’attività fisica. In questo contesto, l’obesità nel mondo industrializzato può essere quasi considerata un “comportamento normale” in un ambiente “obesogenico” che stimola il consumo di cibo e riduce il dispendio energetico, per cui non c’è da meravigliarsi se il numero di persone obese in tutto il pianeta stia superando quello delle persone denutrite.

Nel 2008, in tutto il mondo, 1,4 miliardi di persone erano in sovrappeso e l’obesità colpiva 200 milioni di uomini e 300 milioni di donne. Si stima che nel 2015 gli obesi diventeranno 700 milioni e, nei soli Stati Uniti, le malattie connesse all’obesità (diabete e disturbi cardiovascolari, per citare solo le principali) uccideranno 300.000 persone ogni anno. Infine, non bisogna dimenticare che, se la depressione, come abbiamo visto, si può associare all’obesità, è anche vero che il rischio di depressione e ansia aumenta significativamente nelle persone sovrappeso, in un circolo vizioso di cui è difficile intravedere un’uscita.

Davanti alla diffusione epidemica dell’obesità, alle complesse interrelazioni fra mente e cibo e ai gravi rischi per la salute legati agli eccessi alimentari, la sfida del XXI secolo non è solo comprendere e combattere le conseguenze del peso eccessivo come è stato fatto finora, ma prevenire la sua insorgenza. In questa prospettiva, L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la lotta al diabete e all’obesità come una priorità e sta organizzando campagne di educazione alimentare soprattutto nelle scuole, dal momento che 17% dei bambini e degli adolescenti sotto i 18 anni è in sovrappeso.

Tuttavia, l’obiettivo principale è riuscire a capire perché il cervello ci inviti e, in casi patologici, ci obblighi a mangiare ben oltre il naturale soddisfacimento del nostro fabbisogno energetico. La completa risoluzione del problema è ancora lontana, ma molti passi sono stati già compiuti e sono già disponibili valide strategie sia farmacologiche che psicoterapiche per affrontarlo.

Alessandro Rotondo

Specialista in psichiatria

Professore a contratto Università di Pisa

Data pubblicazione: 08 dicembre 2017

3 commenti

#1
Utente 442XXX
Utente 442XXX

Grazie professore per la sua chiara ed esaustiva esposizione.....il fatto è che la maggior parte degli psicofarmaci induce a mangiare, almeno a me succede questo e quindi si crea un circolo vizioso!

#2
Dr. Alessandro Rotondo
Dr. Alessandro Rotondo

Gentile Lettore,
innanzitutto, grazie per il Suo apprezzamento.
E' vero: molti farmaci utilizzati per la depressione, l'ansia, le psicosi inducono un aumento dell'appetito. Tuttavia, spesso si dimentica che, nella maggior parte dei casi, l'inappetenza è un sintomo dell'ansia e della depressione e l'appetito aumenta solo dopo il (e A CAUSA DEL) miglioramento clinico, al di là dell'azione di stimolo dell'appetito farmaco-indotta. Nel 30-40% dei pazienti ansiosi e depressi si osserva, al contrario, iperfagia, che rappresenta una modalità impulsiva di ottenere un temporaneo sollievo dal disagio psichico. In questi casi, quando la terapia farmacologica ottiene il miglioramento delle condizioni cliniche, si osserva spesso un maggior controllo alimentare e del peso corporeo
I miei più cordiali saluti

Alessandro Rotondo

#3
Utente 271XXX
Utente 271XXX

Molto interessante e condivisibile.
Dopo separazione e con qualche preoccupazione di salute sto affrontando un periodo di vaga depressione.
Sto verificando su di me l'incapacità di controllare un certo abuso di prodotti dolciari nonostante già nel momento di desiderio e anche finchè li assumo rifletto che non dovrei farlo ma proseguo nella convinzione di riuscire a fermarmi quasi subito e invece poi finisco per abusarne. A posteriori poi avverto il senso di colpa per non essere riuscito a controllarmi. Direi che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria dipendenza.
Fortunatamente sono tutt'altro che in sovrappeso e sia il colesterolo che la glicemia sono comodamente nei limiti, però anche se sono del tutto consapevole che questa non sia una buona abitudine ci casco regolarmente.
Aiuta invece la stagione estiva: l'uscita più frequente di casa distrae l'interesse ed assume più rilevanza "l'obbligo" di tenersi in forma.
Mi riconosco nelle cose che afferma.
Grazie per la riflessione.

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