Fare pace con il passato

cristinapolese
Dr.ssa Cristina Polese Psicologo, Psicoterapeuta

Vi propongo questo articolo molto interessante, scritto da Kai Baumann e Michael Linden, che mette in luce  alcune particolari manifestazioni  cliniche conseguenti, in molti casi, il verificarsi di situazioni stressanti o avversative sul lavoro o la perdita del lavoro stesso.

Mi è capitato spesso di riscontrare questo quadro clinico in pazienti che hanno subito un licenziamento dal posto di lavoro o si sono sentiti costretti a dare le dimissioni a causa dell’eccessivo stress accumulato.

Mi sembra interessante sottolineare l’importanza del sentimento prevalente vissuto da questi pazienti: la rabbia per l’ingiustizia subita e il desiderio di vendetta. Tali sentimenti ostacolano il percorso verso il superamento della situazione problematica e il raggiungimento di un nuovo equilibrio e benessere e pertanto costituiscono il primo problema da affrontare con l’aiuto dello psicoterapueta.

Buona lettura!

Alcuni ricercatori hanno individuato un nuovo disturbo psichico, provocato soprattutto da licenziamenti e tensioni sul lavoro: il disturbo post traumatico da amarezza. Per risolverlo si sta rivelando utile l’”esercizio della saggezza”, che aiuta a superare i torti subiti.

La sig.ra K. Ha lavorato per molti anni in una boutique. Un giorno vennero riscontrate alcune irregolarità nei rendimenti contabili, e i sospetti caddero su di lei e su alcuni suoi colleghi. Più avanti, la direzione commerciale appurò che K. Non era responsabile dei problemi contabili, ma la donna fu comunque trasferita in un’altra filiale. “Così potremo controllarla meglio”, disse un suo superiore. K. Visse il trasferimento come un’ingiustizia e un’offesa. Cominciò a sentirsi  sempre più abbattuta e stanca, tanto che alla fine non riusciva più nemmeno ad alzarsi dal letto per andare a lavorare. La sola vista del marchio aziendale provocava in lei un senso di inquietudine, tremori e sudorazione.

Gli avvenimenti spiacevoli possono scatenare reazioni diverse: dolore e abbattimento, paure e incubi, rabbia e amarezza. Nella maggior parte dei casi gli individui riescono a superare i traumi grandi e piccoli. Quando però, dopo mesi o anni una persona non riesce ancora a venirne fuori, psichiatri e psicoterapeuti riscontrano di solito una depressione o un disturbo dell’adattamento. Questi pazienti sembrano spesso affetti da depressione, ma se facciamo loro qualche domanda sull’esperienza che hanno vissuto il quadro che emerge è un altro: a prevalere infatti non sono disperazione e senso di inutilità, bensì amarezza, rabbia e fastidio.

Queste persone non riescono a dimenticare le ingiustizie e le offese subite, né a trarne qualcosa di positivo. Non riescono a lasciarsi alle spalle ciò che è accaduto. Compaiono allora sintomi fisici, come dolori o disturbi del sonno; i pazienti si lamentano sempre delle stesse cose, annegano la frustrazione nell’alcool o vengono tormentati da pensieri suicidari. Prima o poi anche la famiglia e gli amici finiscono per perdere la pazienza, e loro reagiscono chiudendosi sempre di più in se stessi.

DESIDERIO DI VENDETTA

Riscontrando questa sintomatologia, Michael Linden ha coniato nel 2003 il termine “disturbo post-traumatico da amarezza”. Il nostro team, della clinica berlinese Charité, ha studiato il modo in cui questo quadro si differenzia dagli altri disturbi psichici e con quali metodi può essere trattato.

Gli psicologi studiano il senso di amarezza da pochi anni. L’amarezza che intendiamo comunemente è caratterizzata da uno stato d’animo triste e cupo, legato a pessimismo, rancore e un atteggiamento rigido e moralista in cui si alimentano desideri di vendetta. Hansjorg Znoj, psicologo dell’Università di Berna, ha descritto l’amarezza come un sentimento misto, composto da rabbia e delusione, che può insorgere quando si vivono situazioni che vengono percepite come ingiuste.

I pazienti reagiscono dapprima ribellandosi alla situazione in maniera aggressiva, ma con il tempo si rassegnano finendo per chiudersi in se stessi. Cercando i colpevoli della loro sofferenza soltanto nell’ambiente che li circonda, evitano di osservare la situazione dal punto di vista degli altri e di mettere in dubbio i propri giudizi. L’amarezza blocca dunque quei ragionamenti che potrebbero aiutare a superare la situazione.

Il concetto di “disturbo post-traumatico da amarezza” si ricollega al disturbo post-traumatico da stress (DPTS). Entrambi indicano quadri patologici che affondano le proprie radici in un evento negativo. Noi, tuttavia, li distinguiamo per due  motivi: in primo luogo hanno alla base due diversi tipi di eventi. Il DPTS, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), insorge come conseguenza di un “evento straordinariamente minaccioso o di dimensioni catastrofiche, e provoca nella quasi totalità dei soggetti una profonda disperazione”: parliamo di guerre, torture, violenze, catastrofi naturali.

L’amarezza, invece, può essere causata da eventi relativamente comuni. Nel 2004 il nostro gruppo ha scoperto che l’amarezza cronica nasce, in circa due casi su tre, in relazione alla vita professionale: il 38 per cento dei pazienti a cui abbiamo diagnosticato un disturbo post traumatico da amarezza aveva perso il  posto di lavoro. Il 24 per cento soffriva di conflitti nell’ambiente di lavoro. La perdita di una persona cara o i problemi familiari affliggeva soltanto il 14 per cento dei pazienti.

Il secondo motivo per cui consideriamo l’amarezza cronica come un quadro patologico autonomo è dato dai sintomi caratteristici. E’ vero che anche i pazienti affetti da amarezza presentano i tipici ricordi spiacevoli del DPTS. E, come i depressi, lamentano malumore, apatia, e sintomi fisici aspecifici, come disturbi del sonno, e inappetenza. Per quanto riguarda i sentimenti, però, dominano rancore, rabbia e delusione.

IL PESO DELLA RESILIENZA

Nel 2009 abbiamo stilato un questionario diagnostico per classificare il grado di amarezza. Il paziente deve indicare in che misura concorda con 19 diverse affermazioni; dall’analisi delle sue risposte è possibile accertare il grado di amarezza e l’intensità dei suoi sentimenti, oltre che i pensieri e i comportamenti associati. I pazienti che, in base alla nostra esperienza clinica, presentavano una sindrome da amarezza raggiungevano, su una scala da 0 a 4, un valore medio di 2,64, mentre i pazienti affetti da altri disturbi si fermavano in media a 1,95.

Una prima indicazione sulla diffusione del disturbo è data da una ricerca non rappresentativa condotta su 158 pendolari. Uno su due, negli ultimi tempi, si era sentito trattato ingiustamente, ma solo il 2-3 per cento affermava che dopo quell’evento la sua qualità della vita era notevolmente peggiorata.

Perché l’amarezza duratura colpisce solo alcuni individui mentre altri riescono prima o poi a lasciarsi alle spalle un evento spiacevole, o addirittura a non percepirlo più come un problema? Evidentemente il disturbo dipende più dal vissuto e dal giudizio soggettivo che dall’evento oggettivo. Per esempio un trasferimento di lavoro, pur con tutti gli inconvenienti che inevitabilmente comporta, può essere interpretato sia come una misura per salvare l’azienda sia come una manifestazione di scarsa stima nei propri confronti.

Alla base del modo in cui riusciamo a valutare e gestire le fonti di stress ci sono due elementi: la vulnerabilità, ossia la sensibilità verso lo stress, e la resilienza, una sorta di resistenza psicologica. Quest’ultima attitudine si serve di una serie di risorse che facilitano il superamento dei fattori si stress.

Un fenomeno complesso, che combina numerose strategie di superamento, è la saggezza. Lo psicologo Paul Baltes, a suo tempo direttore del Max-Plank-Insitut per lo sviluppo umano di Berlino, l’ha definita come “esperienza nel rapporto con i problemi difficili della vita”.

DISTURBO DA AMAREZZA: CRITERI DI DIAGNOSI

Condizioni necessarie

1)      Un evento negativo prima dell’insorgenza del disturbo
2)      Il malessere è conseguenza diretta di ciò che è accaduto
3)      Al pensiero dell’evento negativo il paziente prova senso di ingiustizia, amarezza, agitazione emotiva
4)      Assenza, nell’anno che ha preceduto l’evento negativo, di disturbi psichici che possano giustificare i sintomi

Altri sintomi

5)      Il paziente si sente impotente e si considera una vittima
6)      Sensi di colpa per non aver impedito l’evento negativo o per non aver reagito diversamente
7)      Ricordi compulsivi, legati alla volontà di non dimenticare l’evento
8)      Indifferenza nei confronti del proprio benessere e dell’eventuale guarigione
9)      Malumore, senso di abbattimento o aggressività
10)   Pensieri suicidi
11)   Sintomi fisici aspecifici, come inappetenza, disturbi del sonno e dolori
12)   Timore nei confronti di luoghi, persone o cose legate all’evento
13)   Riduzione dell’iniziativa personale, senso di repulsione
14)   Normalizzazione delle reazioni emotive dopo attività di distrazione; piacere al pensiero di vendicarsi

La sintomatologia persiste per almeno sei mesi

Il paziente vede compromesse le sue attività quotidiane

SUPERARE IL TRAUMA

Partendo da diversi approcci teorici, abbiamo individuato dieci capacità legate alla saggezza, che possono aiutare a superare, o almeno ad accettare, problemi e conflitti difficili da gestire:

IL SISTEMA IMMUNITARIO DELLA PSICHE: LE 10 COMPETENZE DELLA SAGGEZZA

1)      Conoscenza di fatti e problemi. Comprende:

- conoscenza generale, per esempio di motivi, emozioni e comportamenti;
- conoscenza specifica di eventi sociali, per esempio un incontro;
- di presentazione e delle modalità di funzionamento delle istituzioni;
- conoscenza dei comportamenti, per esempio delle più comuni strategie di superamento dei conflitti.

2)      Contestualismo: la capacità di riconoscere legami temporali e tematici tra i diversi ambiti ed esperienze della vita.

3)      Relativismo dei valori: il rispetto, nel giudizio di pensieri e comportamenti altrui, della storia personale e dei valori di questi ultimi.

4)      Capacità di tollerare l’insicurezza: permette di sopportare l’insicurezza e riuscire comunque ad agire o prendere decisioni.

Ai soggetti affetti da disturbo post-traumatico da amarezza mancano queste risorse, come abbiamo constatato in uno studio del 2007. Avevamo chiesto a 50 pazienti con sindrome da amarezza e a 50 con altri disturbi diagnosticati di rispondere ad alcune domande, ad esempio :”Come reagiresti se perdessi la tua posizione di dirigente di un’associazione a favore di un concorrente più popolare?”. In dilemmi fittizzi come questo gli “amareggiati”, in otto competenze su dieci, riportavano risultati notevolmente peggiori rispetto ai pazienti con altri disturbi psichici. Nelle restanti due, ossia l’”empatia” e il “relativismo dei valori”, i loro risultati erano appena inferiori agli altri. A rivelarsi con particolare chiarezza erano le carenze nella gestione dei propri problemi personali. In questo ambito la differenza, rispetto a tutte le altre competenze legate alla saggezza, su una scala da 0 a 4 ammontava a circa 1 punto.

A differenza dei soggetti colpiti da disturbo di amarezza, per la capacità di risolvere problemi del gruppo di controllo non era indifferente che i soggetti dovessero confrontarsi con un contrattempo personale o generale. Ciò indica che i pazienti con disturbo da amarezza non sono per definizione meno ”saggi” degli altri. Il trauma, invece, blocca l’accesso a quelle competenze, impedendo a sua volta il processo di superamento. A confermare questa teoria è anche il fatto che un breve ciclo di esercizi mirati è sufficiente a permettere ai soggetti di allinearsi al livello generale: è evidente che i pazienti non hanno nulla di nuovo da imparare, ma devono soltanto ripristinare competenze già esistenti. Tanto che i valori di tutte le capacità relative alla gestione del problema personale salgono di oltre mezzo punto su quattro.

TORNARE ALLA VITA

Ma come sono articolati questi esercizi? Mirano fondamentalmente a modificare le convinzioni e le concezioni di base dl paziente in modo che riesca a superare l’esperienza negativa. Tuttavia, i pazienti di questo tipo si sentono vittime e all’inizio non sono disponibili a lavorare su se stessi. Si aspettano invece che sia l’avversario a cedere. Se lo psicoterapeuta vuole conquistare la fiducia del proprio paziente deve dunque ammettere il torto subito da quest’ultimo.

Soltanto dopo potrà tentare di trovare un nuovo obiettivo insieme al paziente, permettendogli di superare l’evento e di riacquistare la serenità. I pazienti “amareggiati” vogliono sempre imporre le proprie ragioni. Ma quando per esempio, hanno subito un tradimento o hanno perso il lavoro, le conseguenze sono irreparabili. In questi casi la lotta “amareggiata” volta ad affermare le proprie ragioni impedisce la riconquista del benessere. Per trasmettere questa convinzione, lo psicoterapeuta analizza insieme al paziente l’evento traumatico. Che cos’è stato, precisamente, a scatenare determinati sentimenti? E di quali sentimenti si tratta? Quali conseguenze a lungo termine ha avuto? Il paziente deve capire che la causa dello stress non è semplicemente l’evento in sé, ma le conseguenze che ha determinato.

La signora K., per esempio, soffre non tanto per il trasferimento, quanto per il valore che gli attribuisce. Invece di peggiorare le conseguenze sviluppando desideri di vendetta, la signora K. Potrà considerare il trasferimento come una sfida, o addirittura come un’opportunità di crescita e concentrarsi su quello che le offre il nuovo posto di lavoro.

Per modificare idee e punti id vista in questo senso è necessario un percorso un po’ più complicato: i pazienti devono dapprima individuare “prototipi” di soluzioni pensate per altri casi. Allo scopo viene proposto uno scenario di fantasia, per esempio la perdita di un impiego, per motivi di salute, dopo 25 anni di lavoro svolto. A questo punto lo psicoterapeuta chiede quali potrebbero essere i consigli che persone diverse potrebbero dare al soggetto in questione. Questo genere di esercizi aiutano ad assumere nuovi punti di vista in grado di ridurre lo stress.

Il cambio di prospettiva favorisce anche la capacità di immedesimarsi nell’autore del torto, nei suoi sentimenti e anche nei suoi motivi e bisogni oggettivi. Quel che si vuole ottenere è la consapevolezza che il comportamento altrui non va addebitato a se stessi e perciò non va considerato come un affronto personale. In un’altra tecnica, detta della ricerca del modello, il paziente deve scegliere un personaggio esemplare che ha gestito un problema simile al suo. Come si è evoluta la sua situazione, e che cosa dovrebbe fare il paziente per ottenere gli stessi risultati? Il personaggio esemplare non deve necessariamente essere un conoscente, può anche essere un personaggio pubblico o addirittura una figura inventata. Nella seconda fase del percorso il paziente dovrà cercare di pensare invece a una persona di cui non vorrebbe mai assumere l’atteggiamento, una persona vendicativa, per esempio, oppure un alcolista e concentrarsi sui modi per evitare l’imitazione.

Gli esercizi richiedono una grande sensibilità da parte del terapeuta, dal momento che i pazienti si considerano vittime e la loro battaglia interiore contro il torto subito li penalizza. Per permettere a questi individui di continuare a vivere, c’è una sola possibilità: aiutarli a dimenticare il passato e a proiettarsi verso il futuro.

Tratto da Mente & Cervello N.77, ANNO IX, MAGGIO 2011

Data pubblicazione: 15 luglio 2011

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