Piangere non serve...

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Dr.ssa Angela Pileci Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo

Il titolo di questa news si riferisce alla reazione dell’atleta, e in particolare del runner, in seguito ad un infortunio.

Gli infortuni per l’atleta possono essere devastanti da un punto di vista emotivo. Tuttavia le recenti acquisizioni ci dicono che chi è capace di gestire bene queste emozioni guarisce prima.

Sappiamo che sperimentare emozioni come tristezza, rabbia, disperazione è normale e perfino salutare. “Il senso di perdita che un atleta avverte quando subisce un infortunio può essere considerato simile a quello che caratterizza altri tipi di lutto o sofferenze della nostra vita. Si avverte una grande mancanza” sostiene Diana Wiese-Bjornstal, professore associato del Minnesota ed esperta di psicologia dell’infortunio.

Ad esempio, Michelle Frey, dopo aver corso la maratona in 2:35’ nel 2006 fu reclutata da un team prestigioso e le fu offerto un contratto di sponsorizzazione. La Frey passò i due anni successivi a prepararsi per il Trials olimpici statunitensi di maratona del 2008, in cui sperava di qualificarsi per i Giochi di Pechino. Un anno prima della gara iniziò però ad avvertire un dolore alla pianta del piede sinistro, ma fece finta di niente e continuò a correre. In ritardo quindi, e in modo disordinato, si mosse poi per curare questo dolore.

 

La strategia migliore è quella di avere un atteggiamento risoluto: riconoscendo gli stadi del lutto e agendo attivamente per superarli uno dopo l’altro, la ripresa è più veloce.

 

Fase 1: La negazione, “meglio far finta di niente”. Capita molto spesso che i runners facciano finta di niente quando avvertono un dolore, ad esempio alla pianta del piede, ignorando i segnali di allarme del corpo e arrivando anche a zoppicare durante l’allenamento. Durante la fase di negazione i runners sanno di essere infortunati, ma non lo ammettono.

Negando l’infortunio, il problema rischia di esacerbarsi

 

Fase 2: La rabbia, “non è giusto!”. Può essere davvero difficile digerire il fatto di non poter raggiungere i propri obiettivi nei tempi prefissati o non poterli raggiungere affatto. L’atleta si domanda “Perché proprio a me? Perché proprio adesso, prima della gara più importante della mia vita?” Vivere questo senso di ingiustizia alimenta la rabbia e ci si sente traditi dal proprio corpo, e dall’allenamento.

Avere un atteggiamento positivo può essere il miglior modo. Molti studi dimostrano che l’atleta infortunato che pensa in positivo e che si pone degli obiettivi per la riabilitazione ha recuperi eccezionali. Quindi essere arrabbiati per qualche giorno è fisiologico, ma poi bisogna guardare avanti. L’atleta deve porsi traguardi per il recupero in modo da poter apprezzare via via anche i piccoli successi.

 

Fase 3: La negoziazione, “per favore, lasciami correre”. Terminata la fase di negazione e consapevoli di quanto è accaduto, l’atleta può reagire in maniera esagerata. Pensa: “Farò più riabilitazione, eseguirò più esercizi e più spesso e tornerò a correre come prima”. La Wiese-Bjornstal spiega che non sempre è meglio fare di più. Ad esempio Michelle Frey si è mossa in modo disordinato, consultando diversi medici per avere più pareri. Alla fine era nel panico!

Bisogna seguire quanto prescritto per la fisioterapia esattamente come si farebbe con un programma di allenamento: svolgere la riabilitazione in modo corretto permette alla fine di essere un atleta migliore.

 

Fase 4: la depressione, “tutto è perduto”. Uno studio della Wiese-Bjornstal dimostra che atleti con infortuni seri, che comportano lunghi periodi di interruzione dell’allenamento, sono anche quelli più soggetti alla depressione. L’entusiasmo che si ha all’inizio delle cure, col tempo tende inevitabilmente a sparire. Manca la carica che deriva dalle endorfine prodotte con la corsa e ci si sente tagliati fuori dal proprio sport e dalla comunità dei runners.

E’ consigliabile riempire il tempo dedicato in precedenza alla corsa con altre discipline che possano aiutare a colmare il vuoto lasciato dalla corsa e a far passare il tempo.

 

Fase 5: l’accettazione, “funziona!”. Questa fase subentra quando, seguendo il programma di riabilitazione, l’atleta comincia a vedere dei progressi. Si è ormai passati all’accettazione dell’infortunio e alla consapevolezza che si potrà nuovamente tornare a correre. Arrivare a comprendere e superare tutto questo è fondamentale ai fini di una pronta guarigione. Studi fatti in merito dimostrano una relazione molto stretta tra stress e infortunio. L’ansia può causare tensione muscolare e abbassare le funzioni immunitarie, ritardando il recupero. In questa fase sarà solo l’atteggiamento psicologico dell’atleta a incoraggiare la guarigione.

 

Dopo aver tribolato e attraversato tutte le fasi che ho descritto, Michelle Frey ha imparato a confrontarsi con l’infortunio, riconoscendo che accettarlo prevede una guarigione più rapida. Attraversare queste fasi di elaborazione è stata però una dura lezione per lei: pur avendo il decimo posto tra le iscritte al Trials 2008, alla fine si è classificata 85esima. Il suo sguardo è ora rivolto ai Trials olimpici del 2012. Ascoltando il proprio corpo e affrontando senza perder tempo eventuali problemi fisici spera di poter evitare, la prossima volta, il patema dell’infortunio.

 

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Data pubblicazione: 30 ottobre 2011

4 commenti

#1
Dr. Giuseppe Santonocito
Dr. Giuseppe Santonocito

Dipende da quanto l'atleta aveva investito nel suo essere atleta.

Nel caso di atleti professionisti può essere che una parte consistente dell'identità sia agganciata all'agonismo: non potendolo più svolgere, a tutti gli effetti se ne va l'identità dell'individuo. Ma anche nel caso di atleti non professionisti che sentono con grande partecipazione il loro sport, può manifestarsi un "lutto" in seguito a incidente.

D'altra parte un professionista ben pagato e senza dipendenza economica, costretto a dover interrompere l'attività sportiva professionale, può farsene una ragione.

Insomma, dipende molto da quanto la persona riuscisse già prima a vedere se stessa non solo come atleta, ma anche qualcos'altro. Diversamente l'incidente lo forzerà a dover effettuare il riassetto.

Comunque bell'articolo.

Ciao



#2
Dr.ssa Angela Pileci
Dr.ssa Angela Pileci

Ottime osservazioni!

Nella mia esperienza ho sempre visto che l'atleta professionista sta fermo pochissimo tempo per ovvie ragioni.

In altre realtà, invece, in cui il gioco avviene a livello dilettantistico, l'infortunio è comunque vissuto come un lutto.

Anzi, proprio perchè l'atleta è in un certo senso maggiormente motivato e va a giocare o a correre perchè appassionato di quello sport e non per soldi, non poter giocare rappresenta un motivo di sconforto.

Spero di poter pubblicare a breve i risultati di un'esperienza con giovanissimi atleti brianzoli, con i quali è stato implementato il progetto dal titolo "Lo sport invisibile"
(https://www.medicitalia.it/blog/psicologia/1448-allenare-il-corpo-e-la-mente.html)

#3
Dr. Giuseppe Santonocito
Dr. Giuseppe Santonocito

Sì, è comprensibile: la motivazione interna (passione personale) è più coinvolgente e sentita di quella esterna (denaro, fama ecc.). Il professionista strapagato può sempre finire per dire a me stesso: "Ma che mi preoccupo a fare? Mica finirò sotto un ponte".

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