Il concetto di responsabilità nel processo di cambiamento della persona tossicodipendente

francescacarubbi
Dr.ssa Francesca Carubbi Psicologo, Psicoterapeuta

Per l'Approccio Centrato sulla Persona, essere persona responsabile significa comportarsi in modo riflessivo ed equilibrato, tenendo sempre consapevolmente presente i pericoli e i danni che i propri atti o le proprie decisioni potrebbero comportare per sé e per gli altri, e cercando di evitare ogni comportamento dannoso. Ciò può avvenire solo nel momento in cui l’individuo può essere libero di vivere la sua esperienza, momento per momento, senza distorcerla, dando fiducia alla propria valutazione organismica (al proprio locus di valutazione interno), cosicché possa sviluppare, grazie alla tendenza attualizzante, le sue potenzialità innate e soddisfare, in modo maturo, i suoi bisogni. Ma affinché tale tendenza possa divenire operativa, necessita che l’ambiente svolga un ruolo positivo (Vaccari, Zucconi, 1997). Se questo è carente, le conseguenze sono il fallimento verso l’acquisizione di maturità da parte del soggetto e l’instaurarsi di disagi e sofferenze, tra cui la situazione del tossicodipendente, la cui qualità di soggetto è altamente compromessa, in quanto egli divide con i portatori di malattie mentali una condizione di minore libertà, di riduzione delle opzioni di vita e di incapacità di far fronte alle proprie responsabilità (ibidem). Una piena integrazione della personalità, allora, è strettamente legata ad un insieme di fattori, familiari e sociali.  Nel paragrafo precedente, abbiamo visto come all’interno della famiglia vi possano  essere in potenza i primi germi verso l’entrata nella devianza della progenie. In questo senso, abbiamo parlato di “trasmissione intergenerazionale della carenza”, declinatisi in tre diversi percorsi di disaccudimento. Tuttavia, in accordo alla nostra visione bio – psico – sociale, occorre chiedersi il motivo, per cui, da un punto di vista sociale, solo una piccola parte di popolazione dinanzi alla disponibilità di sostanze decida di non diventarne dipendente. Prendendo in prestito dagli studi di Cirillo il termine “trasmissione intergenerazionale”, e presupponendo che l’uso di sostanze è un comportamento appreso, si può considerare come la trasmissione di esso non derivi unicamente da una “trasmissione culturale”, di tipo orizzontale (Cavalli – Sforza, 1996),  attraverso il gruppo dei pari, ma anche da una trasmissione verticale tra individui appartenenti a generazioni differenti. In questo senso, gli individui che scelgono di non utilizzare sostanze proverrebbero da famiglie che hanno trasmesso la superfluità dell’uso della sostanza stessa, in termini di vantaggio per l’economia psichica. Ma per chi diventa tossicodipendente? Che processo si può ipotizzare?  La maggioranza dei tossicodipendenti, pur non rientrando in un’unica entità nosografica, soffre di un sottofondo depressivo, precedente l’abuso. Spesso, viene riferito come senso di noia, di sfiducia verso il futuro, per cui il tossicodipendente non riesce a prefissarsi degli obiettivi e non riesce a provare piacere nel realizzarli durante il quotidiano. Inoltre, altra caratteristica che si può riscontare nel vissuto della persona dipendente è la sua scarsa autostima. Queste basi psicologiche (depressione e scarsa autostima), unite a basse strategie di coping, fanno sì che il futuro tossicodipendente frequenti coetanei che condividano con lui gli stessi problemi e, attraverso un contagio emotivo, il ragazzo subisca un vero e proprio crollo esistenziale: tutta la sua vita inizia a roteare intorno al procacciamento della droga che diviene, a causa della dipendenza biologica, l’unico oggetto del desiderio (in questo senso, la dipendenza psicologica sarebbe precedente a quella biologica). In questo vuoto esistenziale, sempre più aggravato dalla dipendenza stessa, il sintomo tossico manico deve essere visto come il tentativo umano non già di autodistruggersi ma di sopravvivere e di continuare a crescere, pur trovandosi in condizioni avverse tutt’altro che facilitanti (Borgioni, 2007). Ed è proprio l’assenza di un clima socio – familiare facilitante la causa di questi vissuti intrisi di sofferenza. Infatti, il ruolo educativo diviene facilitante solo se consta di tre elementi: accettazione positiva incondizionata, empatia e congruenza. Se accettazione positiva incondizionata ed empatia riguardano una profonda comprensione, amore e valorizzazione del bambino (caratteristiche classicamente attribuite al “ruolo materno”), d’altro canto la congruenza permette l’incarnarsi del “ruolo paterno”, ossia quello che risponde alla trasmissione della regola e dei comportamenti responsabili: la responsabilità è, letteralmente, la capacità di rispondere delle proprie azioni. Quando questa capacità è matura, si risponde a sé stessi, ma si comincia con i richiami che vengono dagli altri. Perché il bambino impari a rispondere bisogna chiamarlo, e spetta soprattutto al padre farlo, perché la madre ha un rapporto primario con l’infante, che non parla e non risponde se non all’interno di una corrispondenza amorosa. Il passaggio dalla corrispondenza alla responsabilità è governato dal padre, o da chi gli subentra nel ruolo (Carere – Comes, 1998) . Se, tuttavia, il genitore attua uno stile educativo incoerente, per il fatto che egli stesso non è cosciente degli errori comunicativi che commette, non sarà capace di assumersi la sua parte di responsabilità ma, al contrario, la attribuirà totalmente al figlio, perdendo di empatia ed accettazione, e provocando, da un lato, un forte vissuto depressivo nel giovane, in quanto non si sente compreso e, dall’altro, una progressiva svalorizzazione del proprio sé, con conseguente perdita di autostima. Inoltre,  se un genitore “premia” il figlio, attraverso una ricompensa, per un comportamento precedentemente sbagliato (ad esempio, rientrare in casa a notte tarda) e, allo stesso tempo, lo attacca violentemente per un desiderio normale (voler stare con gli amici fino a tardi), egli trasmetterà il valore secondo cui la gratificazione non è raggiungibile attraverso la messa in atto di un comportamento adeguato e responsabile, bensì di una gratificazione fine a sé stessa, come quella che diverrà l’uso di sostanze (Vaccari, Zucconi, 1997). Allora, se è vero che il tossicodipendente non usa le regole sociali per acquisire e mantenere diritti e doveri, è altrettanto ipotizzabile che nessuno gli ha trasmesso lo “script” giusto, poiché l’uso delle regole sociali fa parte dell’introiezione di valori e questa non può avvenire se la persona che dovrebbe educare si comporta essa stessa fuori dalle regole.

 

 Allora, occorre considerare lo stile relazionale che si instaura, all’interno del rapporto terapeutico, tra la persona tossicodipendente e l’operatore di riferimento. Come sostengono Vaccari e Zucconi (1997), il senso comune assegna ai tossicodipendenti un’etichetta anche troppo precisa, e chiunque venga in contatto con loro (in primis gli operatori sociali e sanitari) si trova di fronte a problemi e modalità relazionali assolutamente tipiche e riconoscibili. Il tossicodipendente viene avvertito come una persona inaffidabile, spesso mendace, con una spiccata tendenza alla manipolazione, un individuo non pienamente responsabile, che obbliga continuamente gli altri a scegliere se considerarlo un colpevole o una vittima. La persona tossicodipendente, spesso, a causa di una bassa tolleranza alla frustrazione e ad un senso di sé precario, fragile e non definito (Falso Sé), quindi di forte incongruenza, oscilla da un’immagine di sé vittimistica (“ce l’hanno tutti con me; “non riuscirò mai a farcela, è tutto inutile”; “non ho speranze per il futuro, sono solo un tossico”), a quella del “Dio in terra”, per cui “tutto è possibile” e “sicuramente posso farcela senza nessun aiuto ma solo con il mio autocontrollo”, attuando, in entrambi casi, comportamenti seduttivi e manipolatori per portare l’interlocutore a sé, affinché questi divenga agli occhi del tossicodipendente un guaritore onnipotente e suo alleato, per poi venir considerato, in una danza borderline, una persona incapace e svalutata nel suo lavoro di aiuto. Occorre chiedersi, tuttavia, quanto lo stesso operatore, avvicinandosi all’incontro con il tossicodipendente, possa essere anch’egli responsabile di suddetti meccanismi. In questo senso, nel caso che, il tossicomane venga avvertito come colpevole, nei suoi confronti viene assunta una posizione rigida e punitiva, nel caso di vittima si tende verso un’altrettanta eccessiva tolleranza, con la conseguente mancanza di equilibrio nella valutazione della responsabilità personale, che rende così difficile la gestione dei problemi della tossicodipendenza (Vaccari, Zucconi, 1997). Nel parlare, quindi, della relazione terapeutica con il tossicomane, non posso non iniziare dall’ incontro tra il terapeuta che offre il suo lavoro di cura e il tossicodipendente che chiede aiuto, spesso in modo urgente.

Come sostiene Massimo Borgioni (2007, pp. 52 – 53), infatti,  “L’intervento dell’operatore/professionista verrà invocato, forse, come l’unica ed ultima ancora di salvezza in una rete di supporto ormai desertificata dalla droga e la richiesta di aiuto tornerà ad assumere tutte le caratteristiche della drammaticità e dell’urgenza […]. Questa situazione non la si osserva soltanto nel rapporto che il tossicodipendente instaura con gli operatori e i professionisti della salute mentale, ma in tutte le situazioni significative (parentali, amicali, familiari e sentimentali), ove decida di chiedere aiuto”. Da ciò si deduce come per il terapeuta sia importante avere consapevolezza e attenzione nell’evitare di “nutrire” il proprio narcisismo e la visione messianica che il cliente può avere di lui (Kernberg, 1975). In questo senso, il potere onnipotente che, spesso, si attribuisce il terapeuta deriva dalle sue vicende del passato. Come sostiene Alice Miller (1996), il terapeuta a sua volta, è stato “usato” da genitori che soffrivano di carenze affettive, divenendo un bambino dotato, ovvero sviluppando una sensibilità tutta particolare per i segnali inconsci dei bisogni altrui. In questo senso, se il terapeuta non è cosciente delle sue ferite narcisistiche e, se non ha mai elaborato la propria disperazione e la relativa rabbia impotente, legata alla deprivazione affettiva, rischia di trasferire sui pazienti la situazione inconscia della propria infanzia (Miller, 1996): il terapeuta “isolato” in una condizione narcisistica sarà più incline a essere più compiacente, tenderà a evitare di frustrare il paziente per non rincorrere all’eventualità che emergano verso di lui sentimenti negativi, a volte mascherati dietro l’espressione di positività. La negatività, non compresa e non accettata dal terapeuta per se stesso, difficilmente verrà favorita nel paziente (Moselli, Tremante, 2008). Egli lo stimolerà a “raccontare di più le cose positive piuttosto che orientarlo a relazionarsi con le problematiche conflittuali; facendo ciò creerà il contesto per un’impasse mutualmente gratificante” (Weiner, 1987, p. 216): così, il professionista che appariva così competente e umano non possiede più agli occhi del cliente tossicodipendente l’apprezzamento e l’autorevolezza di un tempo ed il tossicomane, attraverso la ricaduta, si mostra fedele alla sua identità tossica (Borgioni, 2007). La ricaduta segnerà anche l’inevitabile “fuga” della persona tossicodipendente, perché egli sentirà che non esiste uno spazio per parlare dei propri sentimenti di vergogna e di sconfitta, per il fatto che la relazione salvifica ha concentrato i suoi sforzi solo sullo scopo guaritivo, alimentando, allo stesso tempo, aspettative positive riguardo il comportamento sintomatico. Allo stesso tempo, l’operatore vivrà un vero e proprio pericolo di “burn – out”, soprattutto in quei casi contrassegnati dal ritorno dell’utente, dopo il suo abbandono delle sedute: proverà sentimenti di sfiducia e, allo stesso tempo, aumenterà anche il suo senso di controllo e cercherà di verificare l’attendibilità della volontà di cura del tossicodipendente attraverso un eccessivo controllo .

Un atteggiamento congruente, al contrario, presuppone che il professionista accetti la propria impotenza e abbandoni l’idea che lui stesso possiede questo potere onnipotente di cambiamento. Essere consapevoli che il rischio salvifico sia presente dentro di sé, è un primo passo per avvicinarsi a questo tipo di relazione con aspettative realistiche: più il terapeuta fa i conti con la propria fallibilità, più la sua ferita narcisistica sarà meno dolorosa da elaborare. E più riuscirà a trasmettere al cliente che la responsabilità del cambiamento è nelle sue mani: “la potenzialità terapeutica maggiore sta nella capacità del terapeuta di non assumersi la responsabilità del progresso del cliente. Resistere alla tentazione di agire la sindrome del “guaritore onnipotente” è qui della massima importanza. Sostenere il processo del cliente e conoscere il livello a cui sta riorganizzando la sua struttura, sono gli strumenti migliori che abbiamo per aiutarlo ad attraversare questi periodi”. (Maley M.J., 2008). La spinta salvifica e la conseguente perdita di empatia all’interno della relazione, declinatesi in consigli, persuasioni, interpretazioni, infatti, potrebbe spingere la persona verso direzioni che ancora non vuole o non è in grado di intraprendere, denegando i vissuti di paura ed inadeguatezza, e, nei casi più gravi, forzando difese e resistenze che, per la persona tossicodipendente, risultano necessarie per la propria salvaguardia psichica e il cui abbassamento potrebbe provocare, quindi, uno scompenso psicologico altamente pericoloso. Come sostiene Rogers, in Terapia Centrata sul Cliente (1951) è solo quando il terapeuta, disponibile fino in fondo a tollerare che si arrivi a qualsiasi esito, che venga scelta qualsiasi direzione, che allora egli riconosce la forza vitale della capacità dell’individuo di compiere un’azione costruttiva. Al contrario, sostituirsi al tossicodipendente, non porta solo ad una sua deresponsabilizzazione, ma anche all’illusione di aspettative irrealistiche di segno positivo sul processo di cambiamento (Borgioni, 2007): in questo caso stiamo soddisfacendo i nostri bisogni, perdendo di empatia verso i suoi. L’operatore deve tener presente quanto il processo di cambiamento presupponga obiettivi reali e che per il raggiungimento di questi, lungo il cammino, che può durare diversi anni, potranno presentarsi ostacoli, imprevisti, tra cui le ricadute, che potranno evocare, nel terapeuta, fantasmi di fallimento e sconfitta. “Il terapeuta congruente, grazie alla ridimensionamento del suo potere e alla continua responsabilizzazione del cliente può offrire il proprio aiuto con più cautela e realismo riguardo alle aspettative positive sui processi di cambiamento, rinunciando definitivamente alla pretesa di cambiarlo e vedendo la ricaduta con un significato nuovo:” il fatto che il tossicodipendente possa parlare delle sue ricadute, senza nasconderle, senza negarle e senza negarsi alla relazione, costituisce un successo importante poiché segnala il fatto che la relazione d’aiuto sta diventando un laboratorio dove egli può iniziare a integrare aspetti della propria esperienza prima vissuti in modo scisso [….]. E’ nell’ambito di una relazione valida e sicura, affettivamente significativa, sviluppata entro limiti realistici, umanamente onesta e vera, che il tossicodipendente può riconoscersi; è nell’ambito di una relazione di questo che egli può costruire i propri obiettivi, verificarne la percorribilità, elaborare i propri fallimenti, sondare i propri limiti, ed esplorare, valutare e riscoprire di volta in volta le proprie risorse” (Borgioni, 2007, pag 59) . La congruenza, quindi, permetterà al terapeuta di essere accettante ed empatico, senza rinunciare alla saldezza dei propri valori, limiti e confini all’interno del setting terapeutico, mentre un terapeuta preoccupato di gratificare il paziente e che lo nutre attraverso anticipazioni che egli potrebbe scoprire da sé, può essere paragonato all’amico che offre cibo al prigioniero proprio quando ha la possibilità di fuggire (Miller, 1996). Allora il prigioniero facilmente rinuncerà alla libertà, trovando conforto nel cibo. Questo succede quando il terapeuta rende il cliente dipendente dal setting terapeutico, mostrandolo come unico luogo sicuro e familiare.

Una qualità essenziale del terapeuta, in riferimento a quanto detto sopra, è la sua capacità di delimitare il setting attraverso confini saldi, fermi e, allo stesso tempo, elastici. L’abilità del terapeuta di mantenere confini in difesa del setting, senza divenire totalmente permeabile ai desideri e bisogni del cliente, appare, allora, uno degli elementi cardine di una buona relazione. E tanto più sarà congruente, tanto più riuscirà ad essere assertivo, permettendosi di confrontare l’altro (in questo caso il tossicodipendente) su comportamenti che possono produrre un inquinamento di setting e la rottura dell’alleanza terapeutica, venendo meno al patto di reciprocità nella relazione: assenze continue, ritardi costanti, agiti durante gli incontri, o nei casi peggiori, agiti che possono mettere a repentaglio non solo la sua vita ma anche quella degli altri (guidare in stato confusionale, minacciare o aggredire ….) o, viceversa, quando il cliente esige richieste di affetto, comprensione e considerazione superiori a quelle che possono trovare accoglimento in una psicoterapia. Come può l’operatore, dinanzi a suddetti comportamenti, di per sé accettare ed empatizzare con le emozioni di rabbia, paura, sconforto, disperazione o, al contrario, amore, desiderio, senza buttare un occhio alla responsabilità che il tossicodipendente ha verso i propri agiti? Come abbiamo visto in precedenza, accettazione, empatia e congruenza rappresentano tre delle sei condizioni necessarie e sufficienti per la promozione del processo di cambiamento al’interno della relazione terapeutica. Accettazione ed empatia sono, probabilmente, le due condizioni il cui significato è stato più volte travisato persino dagli stessi psicoterapeuti Centrati sulla Persona. Per molti queste parole evocano sentori di buonismo, quasi di santità, per cui tutto appare concesso ed ammesso. Nulla di più falso. Questa precisazione appare di fondamentale importanza quando parliamo di utenza con problematiche di dipendenza. Se dovessimo accettare il presupposto per cui tutto è permesso, allora il professionista che lavora con le dipendenze patologiche dovrebbe assumere un atteggiamento lassista, compiacente ed esclusivamente accogliente. Anzi, un eccesso di tolleranza da parte dell’operatore/professionista, lungi dall’esprimere comprensione e apertura, può indicare rinuncia, mancato coinvolgimento, indifferenza (Borgioni, 2007). Come sostiene Anna Maria Boano (1991) è facile che da questo tipo di Approccio siano attratte persone con l’ideologia  “del siamo tutti uguali” e del “tutto è permesso”. Sempre per la stessa autrice, accettare una persona non significa accettarne tutti i comportamenti: la frase “considerazione positiva incondizionata” può essere forse fonte di equivoci poiché suona come un concetto assoluto, non elastico. Sarebbe meglio dire che il terapeuta la prova per il cliente, in molti momenti del suo rapporto con lui, mentre in altri momenti sperimenta una considerazione positiva condizionata ed in altri ancora, forse una considerazione negativa. In questo senso, come sostengono Verlato e Anfossi (2006), l’accettazione incondizionata delle emozioni e degli atteggiamenti può coesistere con la disapprovazione e la non accettazione dei comportamenti. In questo caso, il terapeuta all’interno della relazione assume, accanto ad una posizione materna, contraddistinta da accettazione, contenimento, cura, attenzione, un “ruolo” paterno, atto a responsabilizzare il cliente nel suo processo di cambiamento (Carere – Comes, 1998). Per comprendere meglio questo concetto, poniamo l’esempio di un tossicodipendente che si presenta costantemente in seduta in uno stato alterato di coscienza. Il terapeuta come potrebbe reagire dinanzi questo acting out?  Se avesse timore di entrare  in contatto con le proprie emozioni (rabbia, frustrazione, paura, impotenza…) legate a questo evento, rischierebbe di agire egli stesso tali vissuti, attraverso l’assunzione di una posizione “paternalistica” (Carere – Comes, 1998), punitiva e aggressiva verso il cliente, colpevolizzandolo per il suo comportamento e, nei casi peggiori, minacciandolo di chiudere il rapporto terapeutico, prendendosi tutto il potere all’interno della relazione. Tuttavia, se l’operatore fosse congruente con i propri vissuti emotivi, riuscirebbe, con trasparenza, autenticità e fermezza, a verbalizzare la propria preoccupazione sull’andamento del processo terapeutico, confrontandosi con il cliente sulla necessità che si presenti “pulito” in seduta, (sempre che questi sia disponibile ad assumersi la responsabilità nel suo processo di cambiamento), poiché il prolungarsi dello stato alterato di coscienza comprometterebbe la continuità e la qualità della relazione, in quanto esso non permetterebbe un contatto psicologico tra i due, quindi il venir meno dell’alleanza terapeutica. In questo caso, la congruenza, altresì, aiuterebbe il terapeuta a non perdere d’empatia e accettazione verso il cliente, a non venir meno del suo “ruolo materno”, ovvero della sua capacità di comprendere le motivazioni, spesso legate a vissuti dolorosi, che si nascondono dietro questo agito: “uno dei compiti più delicati della terapia consiste nel discriminare quando un paziente "non può" e quando "non vuole" affrontare una difficoltà. Nel primo caso si ipotizza una condizione di reale incapacità, per debolezza o immaturità dell’io, ad affrontare determinate esperienze: e quindi di effettivo bisogno di protezione, sostegno, offerta di condizioni che favoriscano il rafforzamento e la crescita. Nel secondo caso si ipotizza l’esistenza di un io che è sufficientemente forte e capace di elaborare un conflitto se portato alla sua coscienza, ma "non vuole", cioè resiste a farlo, perché l’impresa comporta dolore e fatica” (Carere – Comes, 1998, http://www.psychomedia.it/pm/modther/modtec/carere2.htm). Quindi, “è di fondamentale importanza che l’operatore sappia esprimere in modo diretto i propri sentimenti e vissuti nel qui e ora della relazione, compresi quelli più problematici, soprattutto quando può esserci una situazione di stallo, quando non si percepiscono movimenti significativi nella relazione, quando vi sia noia, o si avverte di essere manipolati o quando il cliente voglia raggiungere obiettivi irrealistici” (Borgioni, 2007, pp. 58 – 59 ); quando, insomma, come nell’esempio sovra riportato, il terapeuta sente l’esigenza di confrontarsi con l’altro, in modo onesto e reale, anche a rischio che lo scambio/confronto  possa produrre una situazione conflittuale, che il terapeuta per primo, non sempre, riesce a sostenere.

Stralcio tratto dall'articolo: Carubbi, F., (2012) "La responsabilità della persona tossicodipendente nel suo processo di cambiamento.Riflessioni su empatia e confronto nella relazione terapeutica”, in "Da Persona a Persona" - Rivista di Studi Rogersiani, giugno 2012, pp. 139 - 155 

 

Data pubblicazione: 11 novembre 2012

Per aggiungere il tuo commento esegui il login

Non hai un account? Registrati ora gratuitamente!