Prima era la depressione il male oscuro, ora ci sono anche gli attacchi di panico!

     

Fino a qualche anno fà si parla spesso, molto spesso, della depressione e la si definiva "Il Male oscuro del ventunesimo secolo" in quanto tende a colpire in modo assolutamente importante molte persone, persone che non nonostante cure farmacologiche e psicoterapeutiche non guariscono.

La depressione, assolutamente devastante e debilitante, sia a livello psichico che a livello dell'intera vita di chi ne soffre. 

La depressione è una patologia dell’umore caratterizzata da un insieme di sintomi cognitivi, comportamentali, somatici ed affettivi che, nel loro insieme, sono in grado di diminuire in maniera da lieve a grave il tono dell’umore, compromettendo il “funzionamento” di una persona, nonché le sue abilità ad adattarsi alla vita sociale. La depressione non è quindi, come spesso ritenuto, un semplice abbassamento dell’umore, ma un insieme di sintomi più o meno complessi che alterano anche in maniera consistente il modo in cui una persona ragiona, pensa e raffigura se stessa, gli altri e il mondo esterno.


Essa talvolta è associata ad ideazioni di tipo suicida o autolesionista, e quasi sempre si accompagna a deficit dell’attenzione e della concentrazione. Altri sintomi sono insonnia, disturbi alimentari, estrema ed immotivata prostrazione fisica.
Le cause che portano alla depressione sono ancora oggi poco chiare. Inizialmente vi erano due correnti opposte di pensiero, una che attribuiva maggiore importanza alle cause biologiche, l’altra a quelle psicologiche. Oggi i dati disponibili suggeriscono che la depressione sia una combinazione di fattori genetici, ambientali e psicologici.
La depressione fa parte dei disturbi dell’umore, insieme ad altre patologie come la mania e il disturbo bipolare. Essa però può assumere la forma di un singolo episodio transitorio (si parlerà quindi di episodio depressivo) oppure di un vero e proprio disturbo (si parlerà quindi di disturbo depressivo). L’episodio o il disturbo depressivo sono a loro volta caratterizzati da una maggiore o minore gravità. Quando i sintomi sono tali da compromettere l’adattamento sociale si parla di disturbo depressivo maggiore, in modo da distinguerlo da depressioni minori che non hanno gravi conseguenze e spesso sono normali reazioni ad eventi luttuosi.
Secondo quanto reso pubblico dall’Istituto Superiore di Sanità, infatti, un italiano su dieci soffre di depressione (male oscuro), e cosa ancora più preoccupante, la metà non chiede aiuto.

Ma ora, la depressione non è più sola, ha un nuovo compagno, gli attacchi di panico!

Le due cose spesso si manifestano nello stesso soggetto, ma esiste colui che si ammala di depressione e la conseguente angoscia e preoccupazione, può manifestarsi con gli attacchi di panico, e c'è chi invece ha avuto un attacco come un fulmine a ciel sereno, e preso dall'impotenza e dall'ansia, cade in depressione.

Ovviamente non si può esemplicare in tal modo la spiegazione di queste due patologie, fra l'altro ci sono diverse frange di studiosi che non le riconoscono come patologie psichiatriche che abbiano natura neuronale, ma solo un problema psicologico da curare non necessariamente con dei psicofarmaci. Proprio da queste posizioni molto distanti fra loro, da anni c'è ormai guerra aperta fra psichiatri, psicologi, congnitivisti comportamentali, naturopati, omeopati e chi più ne ha, più ne metta.

Purtroppo tutto questo caos finisce con il confondere le persone che soffrono dei suddetti disturbi, in realtà il primo passo da fare è costituito dalla diagnosi, solo dopo il suo riconoscimento si può scegliere la strada da adottare verso la guarigione. Sono in molti a domandarsi: "Ma chi soffre di DAP (attacchi di panico in traduzione italiana) o di depressione, può guarire definitivamente?".

La domanda è tanto lecita quanto impossibile da trovare risposta giusta oggettiva, ogni esperto darà dopo un'accurata e personale dignosi, il suo metodo curativo, ma nessuno aprioristicamente può dare al paziente la certezza che queste manifestazioni limitanti e debilitanti, possano essere debellate per sempre. Il cervello è la parte del nostro corpo più studiata ed esplorata, ma allo stesso tempo i suoi meccanismi rimangono per lo più misteriosi, tanto che si sente spesso affermare che nonostante gli innumerevoli studi, l'uomo conosce solo il 10% del reale funzionamento di questo organo, e se si affrontano le reazione di tipo psicologico piuttosto che malattie riscontrabili con degli esami specifici (risonanza magnetica, T.A.C ect....), la percentuale si abbassa.

C'è da sottolineare che basta leggere un giornale, guardare un notiziario, per apprendere di stragi familiari o di gesti autolesionistici, molto grossolanamente si sente poi affermare: "il soggetto omicida o suicida soffriva di depressione". Niente di più errato, un messaggio più generico e inesatto di questo non si potrebbe propinare all'opinione pubblica. Ci sono talmente tante cause per cui una persona compie un atto del genere, che definire il soggetto come depresso, è fuorviante. E' di fondamentale importanza non avere remore nel rivolgersi ad uno specialista, pensare di poter combattere con la forza di volontà questo male oscuro, è un errore, definirsi fragili lo è altrettanto, d'altronde è un pò come avere il colesterolo o soffrire di ipertensione, la cosa peggiore è non accettare quel che ci accade, e ancora peggio è vergognarsene, questa forma mentis per fortuna sta per essere superata, ma sono ancora in tanti, troppi direi, a sottovalutare certi fenomeni e a pensare che il tempo possa essere la cura migliore o che lottare contro di essi sia la soluzione migliore.

                                                     

Basta pensare che gli attacchi di panico, sono qualcosa che più si tenta di respingere opponendo resistenza, e più si rafforza, è come voler vincere palleggiando con la racchetta e la pallina da tennis contro il muro, più forte gli tiri addosso, più forte la pallina ti viene contro.

Ma quale può essere la cura?

Ovviamente il primo passo è accettare di avere un problema, senza questa consapevolezza non si va verso alcuna soluzione, dopodichè se ne fa partecipe la famiglia in senso stretto, insieme poi si decide su quale tipo di esperto consultare.

E' estremamente importante che gli affetti non dicano: "Non è niente...stai tranquillo...." oppure che gli diano del matto, il compito degli affetti è quello di stare vicino al soggetto e di assecondarlo, senza enfatizzare o viceversa minimizzare gli eventi, d'altronde chi di dovere farà la sua diagnosi e presciriverà la sua cura, ma ripeto, la consapevolezza di ciò che ci accade, l'affetto solidale delle persone a noi più care, sono il primo passo verso la direzione giusta.

Detto questo si consiglia a tutti quelli che dimostrano di soffrire anche di attacchi di panico, di rivolgersi ad un serio professionista per fare psicoterapia.

Ultimamente si riscontra molto importante il ruolo dei gruppi di Auto e Mutuo Aiuto.

Il gruppo d'auto-mutuo aiuto: un gruppo, cioè, tra persone che hanno in comune lo stesso problema e che, nel confronto orizzontale con gli altri, sperimentano momenti di condivisione, di solidarietà e di crescita.

All'interno del gruppo, ogni persona, che inizialmente si percepisce spesso solo come bisognosa d'aiuto, può sperimentare d'essere persona in grado di dare aiuto; da soggetto passivo, quindi, diviene soggetto attivo, verso se stesso e verso gli altri.

La caratteristica fondamentale del gruppo d'auto-aiuto, come già sottolineato, è l'essere un contesto orizzontale tra pari: l'assenza della guida di un conduttore professionista, permette a ciascun membro di non poter delegare all'esperto la responsabilità del proprio percorso e, dunque, la responsabilità complessiva di sé.

E' prevista tuttavia, una figura facilitante: l'helper, ovvero un mediatore e facilitatore delle conversazioni e dinamiche del gruppo.

Si tratta di un membro del gruppo, con un percorso di terapia significativo alle spalle, che ha seguito una specifica formazione, finalizzata a fornirgli gli strumenti di gestione della comunicazione, e che ha solo la funzione del facilitatore della comunicazione stessa.

Con questo patrimonio conoscitivo ed esperienziale ed essendo, in più, portatore dello stesso problema degli altri, l'helper può permettersi di portare, all'interno del gruppo, il proprio vissuto emotivo e di utilizzare l'esperienza gruppale per la sua personale crescita.

Nel nostro percorso associativo, la funzione dell'helper ha subito un'evoluzione; si è passati dalla tendenza iniziale, spontanea e rischiosa, ad essere conduttore di gruppo, seppur non professionista, a quella di mantenere semplicemente il ruolo del facilitatore, spostando così il carico di responsabilità e di lavoro sul gruppo, anziché sul conduttore.

Si è abbracciata cioè l'idea di formare una figura sempre più distante dal modello responsabilizzato dalle risposte da dare, e sempre più lontano da un possibile e temibile scimmiottamento della conduzione di un gruppo terapeutico.

L'idea è quella di andare, in futuro, verso una conduzione circolare ripartita tra tutti i membri.

La guarigione, intesa dai più, nel momento dell'ingresso al gruppo, come il superamento del sintomo, acquisisce poi, proprio grazie al gruppo, nuovi significati; infatti l'accento si pone, durante il percorso collettivo, sul riconoscimento e sull'espressione delle emozioni, sul sentire, sull'accrescere la capacità e la possibilità di gestione della relazione con l'altro.

Ritengo che sia un buon risultato dell'auto-aiuto, il riuscire ad operare un cambiamento nel modo di percepirci e di percepire l'altro, il conquistare una maggior fluidità nella relazione, l'acquisire minor rigidità, al fine di accettare errori e limiti, propri e dell'altro.

Inoltre ritengo un buon risultato il poter esplorare e riconoscere le emozioni, il poter dare un nome alla sofferenza che, fino all'ingresso nel gruppo, era individuata solo come sintomo: panico od agorafobia.

Andando per sintesi, dalla nostra esperienza, possiamo affermare che i bisogni di chi, con l'attacco di panico, si avvicina alla nostra associazione sono:

  • essere visti
  • essere riconosciuti
  • essere rassicurati
  • essere informati
  • essere contenuti

Sempre andando per sintesi il gruppo di auto-aiuto offre:

  • accoglienza, solidarietà, incoraggiamento, sostegno

In questa prima fase, l'essere ascoltati (ascolto ricevuto) è la risposta, l'unica risposta, che si cerca; ed è ciò su cui si fonda la base sicura, che consente di passare ad una dimensione comprensiva anche dell'ascolto attivo.

  • empatia, affettività, confronto

Nella seconda fase, l'ascolto è divenuto attivo: l'altro è specchio di sé e in esso si ritrovano parti significative del proprio essere, della propria modalità di essere. All'altro si concede l'ascolto, nella misura in cui lo si richiede per sé: orizzontale, reciproco, non giudicante, privo di pregiudizi. E sano.

A differenza di un setting di terapia individuale o di terapia di gruppo, la democraticità del contesto di auto-aiuto ed il mettersi in gioco apertamente da parte di tutti i membri, consente a ciascuno di ascoltare in modo attivo e di poter rispondere, secondo modalità che via via si diversificano da quelle tipiche della propria vita fuori dal gruppo.

  • avanzamento nella consapevolezza, cambiamento

Il passaggio alla seconda fase accompagna, di conseguenza, la terza fase: quella dell'acquisizione di una consapevolezza maggiore e meno rigida di sé e dell'altro, e di conseguenza segna un cambiamento, che poi coincide con il maggior senso d'autoefficacia, benessere, capacità di trovare soluzioni ai propri problemi.

Come avviene ciò?

Come si è visto, fondamentalmente attraverso la relazione d'ascolto e risposta, o meglio l'evoluzione in tre tappe, della relazione di ascolto e risposta.

Una delle regole principali che il gruppo d'auto-aiuto si dà, dunque, è quella della sospensione del giudizio, del pregiudizio e dell'unico modello mentale, a favore della molteplicità dei punti di vista possibili.

Tale sospensione, oltre ad incoraggiare la libertà d'espressione e a facilitare il superamento della vergogna, (quasi sempre presente nel vissuto del Disturbo d'Attacco di Panico), crea le condizioni per l'accettazione dell'altro e, di riflesso, per l'accettazione di se stessi.

L'auto-aiuto coincide dunque con la possibilità reciproca di scoprirsi e con la possibilità reciproca di accettarsi.

Questo è un punto di fondamentale importanza nel susseguirsi delle tappe, che creano i cambiamenti auspicati da qualunque percorso d'auto-aiuto.

A maggior ragione nel caso del D.A.P., visto che lo scollamento tra l'immagine di se stessi reale o realistica (quella che si presume possa apparire agli occhi degli altri), e quella ideale a cui si vorrebbe aderire, è un punto fermo dell'eziologia di questa sindrome.

L'impostazione di massimo ascolto, agli altri e a se stessi, permette proprio questo: l'individuazione, il riconoscimento, l'accettazione della propria identità. E non è poca cosa.

Gli obiettivi e i risultati sono spesso gli stessi ottenuti da una terapia individuale riuscita; ed è, tra l'altro, auspicabile l'integrazione tra questi due percorsi (naturalmente solo quando lo psicoterapeuta non lo viva come incompatibile).

In più, i gruppi d'auto-aiuto sono fruibili e accessibili, sia per i costi, che per l'abbattimento di parecchi limiti culturali, a molte più persone, pur sapendo non essere adeguati per la totalità.

Di conseguenza non bisogna aspettare, ma prendere coraggio, e farsi aiutare prontamente!

 

 Fonte: http://www.studiopsicologicoturchetta.blogspot.it/

Data pubblicazione: 24 maggio 2013

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