La violenza di genere: psicopatologia e conseguenze sociali

"La violenza di genere: psicopatologia e conseguenze sociali"
Istituto ISIS Nightingale di Castelfranco Veneto
26 marzo2014

In una società in cui i processi di sessualizzazione sono quasi a livelli epidemici ci si aspetterebbe, coerentemente con l'idea che i disturbi della salute mentale rappresentino in qualche modo il contesto in cui si verificano, un'invasione massiccia della psichiatria da parte di problemi sessualmente orientati.

I mass media parlano in continuazione di trasgressioni diffuse di tipo sessuale con molte caratteristiche delle perversioni, che spaziano dagli abusi su minori anche di pochi mesi di vita, a violenza sulle donne messe in atto in strada in pieno giorno (finalmente sappiamo che anche di giorno le cose accadono), a forme di violenza comune in cui l'aspetto sessuale assume invariabilmente un ruolo primario.

In un mondo connotato in senso violento vittima di una sessualizzazione indifferenziata, in cui il superamento del simbolico con il conseguente iperrealismo che trova nella pornografia e nella sessualità esibita (in video chat quanto sui social network) massima espressione, la psichiatria sembra assistere con un senso di impotenza e non sembra avere gli strumenti di interpretazione dei fenomeni sociali all'interno dei quali si trova ad operare. Le nuove patologia categorizzate nei sistemi di classificazione non fanno altro che rincorrere dei fenomeni che, con la velocità della rete, mutano in continuazione nella loro espressione, riproponendo da un punto di vista dimensionale modalità note ma connotate nel tempo in senso sempre più narcisistico.

In alcuni casi colleghi psichiatri e psicologi, nel tentativo di riprendersi uno spazio che presumono sia di loro competenza, partecipano all'orgia di generalizzazioni banalizzanti e rassicuranti che i mass media danno in pasto ad un pubblico sempre più regredito ed incapace di una critica, durante i cosiddetti talk show.

Il genere di appartenenza e la sessualità possono essere in relazione ad una notevole varietà di patologie nell'ambito della psichiatria. Le differenze di genere sono variazioni che derivano sia dal sesso biologicamente determinato che dalla rappresentazione di genere che ciascuno di noi ha di se stesso con delle conseguenze sia sul piano psicologico che comportamentale e sociale.

Il genere può influenzare le malattia attraverso varie modalità:

1) può determinare se un individuo è a rischio per un determinato disturbo (ad esempio una disturbo disforico pre-mestruale),

2) può determinare un maggior rischio per lo sviluppo di un disturbo su dati di tipo epidemiologico,

3) può determinare la presenza di alcuni sintomi all'interno di uno specifico disturbo.

Gli eventi fisiologici legati al ciclo riproduttivo, incluse le variazioni estrogeniche, possono condizionare le differenze di genere alla base del rischio nell'espressività di specifiche malattie, come accade in tutti i disturbi del post-partum.

Alcuni disturbi di personalità come il disturbo antisociale, sono diagnosticati più frequentemente nei maschi, mentre il disturbo borderline, istrionico e dipendente sembra prevalere nelle femmine, ma c'è un rischio di sovrastima o sottostima dei fenomeni legati all'influenza degli stereotipi sociali e comportamentali relativi alle aspettative di ruolo, che possono condizionare la diagnosi da parte dei singoli psichiatri che operano in specifici contesti culturali.

Quanto ho riportato è tutto ciò che, più o meno, ritroviamo sulle differenze di genere nell'ambito dei disturbi psichiatrici all'interno del DSM V il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali arrivato alla quinta edizione qualche mese fa. Quindi sebbene sia stato scritto molto sui comportamenti e sui modi di pensare diversi di maschi e femmine, non sembra che dal punto di visto strettamente neuro-psicologico ci siano evidenze di differenze che vadano oltre l'ipotesi ed in qualche caso l'illazione speculativa (ad uso e consumo di tesi pregiudiziali che hanno il solo scopo di aumentare i tassi di ascolto).

Il dibattito sulle differenze è aperto e c'è una tendenza negli Stati Uniti a creare strutture di diagnosi e cura specifiche per le donne e la loro tutela, non reparti divisi per sesso come accadeva ed accade ancora, anche in molti paesi europei, in strutture di tipo manicomiale. Qualcuno potrebbe dire che strutturare interventi specifici per le donne può in qualche modo determinare la inevitabile conseguenza di un ritorno ai reparti divisi in base al sesso e forse questo per certi versi è anche vero.

D'altra parte non troviamo niente di strano nel distinguere reparti di cura divisi tra adulti e bambini. Allo stesso modo su un piano più strettamente sociale si invoca da più parti una commissione per le pari opportunità che sorvegli sull'impatto di genere di ogni singola legge che venga promulgata a livello nazionale e regionale. Non si pensa ad una cosa analoga per quanto riguarda l'infanzia, sebbene non siano lontani gli anni in cui abbiamo modificato l'altezza degli interruttori della luce nelle nostre case per permettere ai bambini una maggiore autonomia.

In una ottica di una società attenta a tutelare le persone in qualche modo più vulnerabili, tutte queste misure sembrerebbero necessità sovrastrutturali ma, come vedremo nel corso di questa riflessione, è possibile che in alcune circostanze, in una società basata sulla parità di diritto, potrebbe essere necessario porre dei vincoli a tutela di una parte che per vari motivi potrebbe trovarsi in una condizione di svantaggio rispetto all'altra. E' di questi giorni una animata discussione a proposito della legge elettorale, che dovrebbe garantire una sostanziale pari possibilità di accesso alle cariche di rappresentanza alle donne.

Ovviamente uno psichiatra non saprebbe dire in che modo possa essere possibile sviluppare norme a garanzia di una parità che evidentemente altrimenti rischierebbe di non esserci. Anzi, uno psichiatra potrebbe sostenere che da un punto di vista della psicopatologia non ci dovrebbero essere motivi tali da far pensare che i maschi potrebbero in qualche modo determinare condizioni sfavorevoli alla vita delle donne, anzi.

Questo sarebbe il modo normale di ragionare per uno psichiatra da DSM V, un tecnico della diagnosi e della conseguente terapia, ma se il tecnicismo per qualche malaugurata idea venisse messo in dubbio dalla psicologia cioè quella scienza che studia gli esseri umani cercando di comprenderne pensieri, sensazioni e comportamenti razionali e irrazionali, ci si ritroverebbe con molte più variabili di fronte e con meno certezze, con la conseguente necessità di osservare ed anche interpretare convinzioni, emozioni e comportamenti dei singoli.

Scopriremmo allora che le variabili in gioco sono molte e sotto l'influsso di diversi condizionamenti e che le cose spesso e volentieri non vanno come ci si aspetterebbe in base alle premesse e che nel trovare delle spiegazioni, gli errori di percorso e di procedura sono talmente frequenti da rischiare di inficiare una teoria eccessivamente rigida e generalizzante. 

Allora forse varrebbe la pena senza timore di essere tacciati di influenzamento psicoanalitico, partire da un presupposto evidente come quello che le differenze di genere possono essere si endocrine, biologiche, neurologiche ma sono altrettanto condizionate da variabili psicologiche più o meno coscienti e che le differenze di genere spesso sono sostanzialmente condizionate da differenze sessuali.

Quindi interpretando le differenze di genere come sostanziali differenze nella sessualità e che in qualche modo esse condizionino il comportamento degli individui in maniera solo parzialmente conscia, accederemmo probabilmente a più informazioni di quanto non rischiamo di perderne restringendo il campo a ciò che è semplicemente quantificabile e misurabile.

Joyce Mc Dougall nel prologo del suo libro Eros esordisce così:

“La sessualità umana è intrinsecamente traumatica. I numerosi conflitti psichici ai quali si va incontro nella ricerca di amore e soddisfazione, risultanti dallo scontro tra il mondo interno delle pulsioni primitive (del desiderio onnipotente) e le forze costrittive del mondo esterno, cominciano con i primi rapporti all'insegna della sensualità”.

Sembra quindi che nel concetto di amore sia implicito il rischio di un trauma cioè quell'evento inaspettato che modificherà irreversibilmente il corso della nostra vita e che ci costringerà ad un adattamento forzato. Il prezzo del trauma sta proprio nel costo dell'adattamento cioè quanto saremo costretti a mettere in campo meccanismi di difesa più o meno arcaici, di tipo dissociativo.

Cosa vuol dire tutto questo?

Non è così difficile come può sembrare a prima vista: di fronte ad un evento traumatico, come ad esempio un terremoto, ci troveremo di fronte a diversi comportamenti asseconda delle strutture di personalità dei singoli individui coinvolti. Generalizzando, con tutti i limiti che le generalizzazioni comportano quando vengono applicate al caso dei singoli, potremmo dire che alcuni percepiranno il pericolo in maniera limitata e questo gli permetterà di affrontare la situazione con un certo distacco, al punto di potersi permettere anche di occuparsi degli altri, altri invece rimarranno paralizzati dalla paura, altri ancora si ritroveranno a fuggire talmente velocemente che affermeranno, in un momento successivo, che non sanno come hanno fatto ad uscire di casa.

L'elemento comune a tutte queste modalità è quello che in gergo tecnico viene definito stato dissociativo, cioè una parte delle percezioni viene eliminata dalla coscienza: la paura nel caso degli eroi, quello che sta accadendo nel caso dei paralizzati, il mondo esterno e le percezioni propiocettive e cenestesiche (di movimento) per quelli che scappano. Da un punto di vista psichico potremmo anche affermare che la modalità più sana è anche quella meno edificante e cioè quella di coloro che scappano per mettersi in salvo. Infatti nelle altre due modalità di comportamento non c'è la tendenza a sottrarsi all'evento che determina lo stato di pericolo.

Lo stesso accade in tutte le circostanze in cui si verifichi qualsiasi evento traumatico e la tendenza alla dissociazione dipenderà da come nel corso della nostra vita abbiamo strutturato la nostra reattività di fronte ad eventi di questo genere. Sempre generalizzando potremmo affermare che quanto più precocemente gli esseri umani si confrontano con eventi traumatici, cioè quanto più si trovano in tali circostanze in condizioni di scarso potere, tanto più tenderanno ad utilizzare una modalità di tipo dissociativo massiccia.

Vi chiederete a questo punto dove porti questo discorso e cosa c'entri con gli episodi di violenza che possono caratterizzare le relazioni affettive fra esseri umani di genere diverso. Non so se ci avete mai pensato ma la definizione di sesso debole implica l'esistenza presunta di un sesso forte.

Questo modo di dire allude in maniera specifica alla componente sessuale e gli aggettivi tendono a distinguere i generi sulla base di un concetto di forza maggiore o minore, come se nelle relazioni sessuali ci fosse una sorta di lotta in cui c'è una parte forte che deve prevalere su una parte più debole in una relazione che per certi versi ha una connotazione traumatica. Mi rendo conto che nella logica politicamente corretta della parità non si dovrebbero fare differenze, ma sappiamo bene che nei processi di procreazione naturale che sono alla base dell'accoppiamento, una parte deve transitoriamente accettare di essere invasa dall'altra e contemporaneamente dobbiamo anche pensare che un'altra parte, sempre transitoriamente, deve svolgere il compito dell'invasore.

In tutto questo processo c'è una certa dose di aggressività e qualora questa componente venisse meno ci si troverebbe di fronte ai piuttosto frequenti cosiddetti matrimoni bianchi (cioè non consumati), in cui l'aggressività viene inibita sul piano sessuale e cortocircuitata altrove. Quindi dobbiamo nuovamente puntualizzare che quando si parla di parità di genere non si sta parlando di uguaglianza di genere ma di parità di diritto, anche se la parità di diritto dovrebbe essere implicita per tutti gli individui in uno stato democratico.

Quindi se c'è una tendenza ad enfatizzare questa parità, questo dipende dal fatto che, se c'è, è probabilmente solo parziale e da qui nasce la necessità di regole a tutela, come si è verificato recentemente nel caso dell'apparente epidemia di violenza sulle donne che si è abbattuta sull'Italia negli ultimi tempi, tanto da arrivare a coniare, nel caso in cui la violenza si concretizzasse nelle sue conseguenze estreme, il termine di femminicidio.

Come accade spesso nel caso di eventi ritenuti nuovi rispetto alle consuetudini, c'è oggi la moda di coniare un termine ad hoc. Ma siamo veramente convinti che gli episodi di violenza sulle donne siano realmente una novità? Oppure siamo semplicemente di fronte ad un processo legato a quasi 70 anni di emancipazione femminile, che porta le donne ad avere maggior consapevolezza dei propri diritti e minor disponibilità a subire in maniera passiva comportamenti di tipo violento, e gli uomini in alcuni casi, incapaci di tollerare la perdita di potere che da questa emancipazione è derivata, a diventare particolarmente aggressivi?

Si vuole forse stigmatizzare con il termine femminicidio una gravità maggiore o un fenomeno diverso da quello definito dal termine omicidio?

Magari distinguendo i fenomeni con due termini diversi possiamo ipotizzare anche delle diversità nella violenza nei confronti di una donna o di un uomo in base al genere di chi compie l'atto.

Nel 2013 si è registrato in Italia il più basso tasso di omicidi degli ultimi 150 anni: sono stati 353 rispetto ai 1770 del 1990.
Nel 2010 di 530 omicidi volontari quasi il 30% (158) delle vittime sono state donne e nell'89,5% dei casi gli autori del reato erano uomini.

Sarebbe forse importante riuscire a capire se dal punto di vista psicopatologico esiste un ritratto di massima del potenziale soggetto violento, il cosiddetto potenziale femminicida.
Come già detto in precedenza le generalizzazioni su cui mi baserò per tentare di fare un quadro della struttura di personalità di un femminicida, non consentono l'individuazione di singoli casi, che in virtù delle peculiarità di ciascun essere umano, sfuggono inevitabilmente a qualsiasi tentativo di inquadramento in un cluster definito. 

Questa riflessione ha il senso di fornire delle considerazioni di massima che possano dare una spiegazione sul come e sulla base di quali presupposti un uomo possa arrivare ad uccidere una donna con cui abbia, o abbia avuto in passato, una relazione o meno, vedendo il tutto secondo il punto di vista di uno psichiatra. 

In 25 anni di lavoro come psichiatra, ho incontrato molte donne spaventate da uomini più o meno oggettivamente o solo potenzialmente violenti, mentre non ricordo di aver mai avuto a che fare con un femminicida o un uomo con intenzioni seriamente tali, non avendo comunque un'esperienza di psichiatria carceraria.

Potrei supporre che sia molto raro (non per presunzione, ma sulla base delle diverse migliaia di pazienti con cui ho avuto una relazione in tutto questo tempo) che potenziali femminicidi consultino uno psichiatra o uno psicoterapeuta per ottenere un qualche genere di aiuto. Da ciò possiamo presupporre che queste persone in generale abbiamo poca propensione a percepire l'angoscia anche se ci capita di vederli piuttosto contriti nelle immagini televisive dell'arresto, forse anche per un sentimento di vergogna per essere stati scoperti e catturati.

Alcuni sapranno come la differenza fra il senso di colpa ed il senso di vergogna stia genericamente negli aspetti relazionali, dal momento che la vergogna si riferisce alla perdita dell'ideale di sé, mentre la colpa comprende la perdita dell'altro. Ovviamente vergogna e colpa non si presentano in una logica antitetica ma piuttosto in un continuum in cui le polarizzazioni sono solo teoriche. 

Un'altra considerazione è che spesso il femminicida, a parte episodi di violenza nei confronti della vittima (quando c'è relazione), proprio in virtù della grande attenzione che dà agli aspetti idealizzati di sé, risulta avere una immagine pubblica tutt'altro che sospetta tanto che nelle testimonianze di vicini di casa e conoscenti (amici in senso stretto di solito non ne hanno) risultano persone gentili e nel complesso particolarmente tranquille. Siamo quindi di fronte a personalità dissociate in cui il falso sé funzionante, potrebbe non reggere ai sentimenti di angoscia nel momento in cui le vittime di questi uomini tentano di sottrarsi al loro dominio, minando così pericolosamente la loro cosiddetta autostima.

Anche l'autostima di cui tanto facilmente quanto a sproposito si parla nei saloni di bellezza (con chiari scopi di marketing) non costituisce concetto di facile comprensibilità. Potremmo definirla come la capacità nel tempo di mantenere un'immagine interna coerente ed integrata di sé. La perdita dell'autostima porta in genere ad una sensazione di angoscia di frammentazione, una sorta di derealizzazione (perdita di contatto con la propria realtà) che, se insostenibile, diventa il presupposto per l'eliminazione della parte cattiva dell'oggetto frustrante e mancante fonte di tanta sofferenza, nel tentativo di preservarne il buono.

In tali persone l'altro è concepito solo come funzionale al mantenimento della propria integrità e la sensazione di disintegrazione viene proiettata all'esterno sotto forma di annientamento dell'oggetto cattivo. Quando parliamo di proiezione, in una parte della psichiatria, si allude implicitamente alla paranoia e noi sappiamo come la gelosia non sia altro che una forma di paranoia. 

Il concetto chiave, che non ho ancora nominato, che ci permette di avere una visione d'insieme della struttura di personalità di un potenziale femminicida e che ci dà una possibile spiegazione dei diversi casi di femminicidio è quello di narcisismo. Sappiamo quanto il narcisismo sia importante per strutturare il nostro carattere, quanto sia utile nelle logiche di autoaffermazione e fondamentale nel mantenimento della nostra famigerata autostima (e quindi nell'economia dei saloni di bellezza).

Dal punto di vista evolutivo il narcisismo è il punto di partenza che ci permette di prendere coscienza di noi stessi nella fusione con l'altro che non viene percepito come separato. Purtroppo nel tempo qualsiasi bambino (molto piccolo) sperimenta che l'oggetto d'amore (di solito la madre) è anche frustrante e che a volte non c'è, gettandolo nella disperazione più totale e costringendolo ad una protesta non sempre ascoltata.

Nel tempo, se le cose non si complicano, e se la frustrazione come diceva un mio collega qualche decennio fa è ottimale, riusciamo a tollerare un certo grado di separazione e questa separazione ci permette di sperimentare progressivamente l'altro come possibile oggetto con cui avere una relazione. Nel tempo acquistiamo sempre più la capacità di separarci in virtù della possibilità di mantenere un'immagine interna dell'oggetto anche in sua assenza. In tale contesto il termine oggetto (altro) è utilizzato come alternativa al soggetto (io).

Può accadere in alcuni casi che questo processo di individuazione e di formazione delle logiche relazionali si arresti precocemente, determinando una incapacità di tollerare la frustrazione se non al prezzo di cancellare l'oggetto esterno e di tornare ad uno stato indefinito in cui l'altro esiste solo in funzione delle proprie necessità e diventa quindi nient'altro che una estensione di sé. A questo punto gli altri non hanno più vita propria ma sono solo oggetti su cui proiettare parti non integrate di sé.

Se la partner si sottrae a questa proiezione la conseguenza inevitabile è la perdita della propria coesione interna con uno stato conseguente di angoscia cosiddetta di frammentazione. Per uscire da questo stato più o meno celermente una possibilità è la cancellazione (a livello di pensiero) o l'annientamento (a livello fisico) dell'altro.

Queste considerazioni possono darci un'idea di cosa possa accadere ad un uomo che uccide dopo anni di violenze una partner che tenti di sottrarsi alla relazione e di quanto le donne in circostanze invertite tendano più a processi di cancellazione (a livello di pensiero( non potendo accedere con una certa facilità a quelli di annientamento (fisico).

La cosa che mi colpisce è come le donne riescano a cogliere questo pericolo in maniera lucida tanto che percepiscono spesso chiaramente come la separazione possa costituire il momento di rottura di un equilibrio violento e di come si sentano in tali frangenti realmente a rischio. Certo è vero che l'omicidio accade in una minoranza dei casi e che spesso, anche per motivi fortuiti (l'uomo trova un'altra “vittima”) le cose si risolvano senza fatti tragici.

Resta l'impressione che quando una donna avverte questa sensazione di pericolo imminente ci sia sempre un fondamento che va oltre le logiche razionali. Questo spiega anche il perchè molti femminicidi non vengano evitati nonostante le continue richieste d'aiuto delle vittime: molte volte accade che queste donne portino solo la paura, condizionate anche dalle manipolazioni del partner, e non le prove inoppugnabili di un reale pericolo. Purtroppo quando queste prove esistono può essere troppo tardi.

Esistono comunque altri casi di femminicidio in cui non ci sono rapporti tra la vittima e l'assassino e spesso in tali casi si riscontra una certa tendenza alla serialità. Anche in questo caso e forse in maniera eclatante, il narcisismo costituisce la chiave di lettura che ci permette di capire come possano funzionare (si fa per dire) le cose. Il narcisismo in questo caso assume una forma particolare (maligna diceva il mio collega Kernberg) e si associa a valenze sadiche e psicopatiche in una miscela terribile di cui violenza, sofferenza, spietatezza sono le componenti fondamentali.

Abbiamo a che fare con individui per cui l'altro non è oggetto altro da sé, ma semplicemente una cosa che acquista vita solo nella sofferenza in una logica proiettiva. A proposito, nella proiezione, proprio come accade al cinema, dove uno schermo acquista una vita che altrimenti non avrebbe, succede che pensieri propri, sia negativi (su basi fobiche), che positivi (in base alla speranza), vengano attribuiti ad altri senza averne consapevolezza. Questo meccanismo è fonte frequentemente di notevoli fraintendimenti.

Ci si potrebbe chiedere a questo punto come mai il femminicida sia così frequentemente maschio, dati i rari casi di maschicidio. Mi rendo conto che la domanda potrebbe suonare come bizzarra o canzonatoria ma non mi sembra del tutto scontata e purtroppo neppure semplice. Cercherò comunque di rendere le cose comprensibili al prezzo di una certa banalizzazione focalizzando l'attenzione sulle tematiche sado-masochistiche.

Abbiamo visto come gli aspetti sadici diventino centrali nei casi di femminicidio in cui il femminicida non ha rapporti con la vittima e come il masochismo che ha una certa maggior prevalenza nelle donne, determina a volte una tendenza a sopportare la sofferenza nella speranza che questa tolleranza sia riconosciuta e premiata. E' ovvio che tratti sadici possano essere presenti anche in molte donne e che simmetricamente tratti masochistici possano caratterizzare la struttura di personalità di molti uomini. E' anche vero che spesso tratti sadici e masochistici coesistano e per certi versi possono determinare nella quotidianità comportamenti altruistici o cosiddetti egoistici.

Il paradosso è che la polarizzazione e quindi la presenza di un tratto in assenza dell'altro costituisca il più delle volte un condizionamento potente della personalità. In considerazione di questo, possiamo pensare che la maggior diffusione di tratti masochistici tra le donne (soggetti ad una forma quasi biologica di pressione selettiva) rende molto improbabile in esse l'eventualità di una strutturazione esclusiva in senso sadico.

Al contrario nei maschi un eccesso di sadismo può non essere “bilanciato” e determinare quindi, in strutture fortemente paranoidi o psicopatiche, assetti di personalità che vedono nel più debole un'occasione di affermare se stessi. Questo ovviamente è letteralmente solo un punto di vista, che non comprende le teorie biologiche con ormoni (testosterone e ossitocina) e neurotrasmettitori (serotonina e dopamina) o le teorie sociologiche che molto possono contribuire alla spiegazione di un fenomeno così terribilmente diffuso in questo nostro difficile tempo. 

 

Perché è necessaria una legge a tutela delle donne 

E' noto quanto le donne abbiano costituito un problema per la psicoanalisi e soprattutto per la metapsicologia analitica. Il paradosso di Freud è quello di aver costruito una teoria al maschile che ha avuto come oggetto di studio una prevalenza di casi clinici al femminile. In una tale ottica la teoria analitica non ha avuto problemi con l'aggressività e gli aspetti sadici correlati ad essa, mentre Freud fu costretto a molte estensioni e revisioni della sua metapsicologia (fondata sui principi biologici del tempo secondo cui gli organismi cercano di ottenere il massimo piacere e tendono a ridurre al minimo il dispiacere) nel caso dei comportamenti autodistruttivi o masochistici.

Non voglio sessualizzare (non erotizzare) masochismo e sadismo attribuendone prevalenze rispettivamente a femmine e maschi, ma nel caso di maltrattamenti fino all'omicidio sadico di donne da parte di maschi, esistono casi in cui tendenze sadiche maschili colludono con aspetti masochistici femminili e l'atto omicida risulta essere l'ultimo di una serie di comportamenti violenti fino ad allora in qualche modo tollerati.

Emmanuel Ghent ha sostenuto che il masochismo è una perversione del naturale desiderio di arrendersi, una sfida all'assunto occidentale secondo cui arrendersi è sinonimo di sconfitta. Similmente la prospettiva Junghiana vede il masochismo come il lato oscuro del nostro bisogno archetipico di venerare e adorare. 

Il comportamento masochista non è di per sé patologico, anche se alla base di esso c'è sempre un desiderio di autoannullamento, e la moralità comune (cattolica ad esempio) a volte ci impone di soffrire in nome di qualcosa di più grande del nostro benessere immediato. E' questo lo spirito con cui Helene Deutsch osservava che la maternità è intrinsecamente masochistica, anteponendo il benessere dei piccoli a quello individuale delle madri. In tal senso il masochismo altruistico è alla base di condotte di vita di tipo eroico, perfino santo come nel caso di Mahatma Ghandi e Madre Teresa. 

Il termine masochistico viene inoltre utilizzato a volte per indicare modelli non moralistici di autodistruttività come nelle persone che vanno soggette ad incidenti frequenti o in coloro che si mutilano o si feriscono deliberatamente senza intenzione di suicidarsi. L'atto di tagliarsi diventato così frequente fra gli adolescenti in seria difficoltà, viene spiegato con l'assunto che la vista del proprio sangue fa sentire vivi, reali ed è un buon modo per contrastare l'angoscia di percepirsi inesistenti o privi di sensibilità, o vuoti.

I bambini imparano presto che mettersi nei guai è un buon modo per attirare l'attenzione delle figure di accudimento. Il termine masochismo non è quindi l'amore per la sofferenza ma è piuttosto collegato all'idea e alla speranza che tollerare dolore e sofferenza dia in qualche modo diritto ad un bene maggiore. Quindi definire masochistico il comportamento di una donna maltrattata che rimane nonostante tutto a convivere con un uomo violento, non vuol dire che la vittima provi piacere in tali situazioni.

L'implicazione è piuttosto che queste donne agiscano in base alla convinzione che la sopportazione della violenza le consentirà di ottene qualcosa che giustifica la sofferenza o le eviterà qualche situazione ancor più dolorosa. Sono molte le donne che ho incontrato nella mia pratica clinica che vivevano in una condizione di questo genere subendo maltrattamenti intollerabili nella convinzione di non avere alternativa e di scegliere solo il male minore.

Nei sistemi di classificazione (DSM ad esempio) c'è sempre stata una certa difficoltà nell'includere il disturbo masochistico (autodistruttivo) di personalità proprio in considerazione del rischio di far passare la vittima per colpevole con l'accusa di godere nel provar dolore e di provocare in qualche modo l'abuso, per provare una qualche forma di piacere.

In realtà potremmo generalizzare dicendo che in qualsiasi disturbo di personalità c'è qualcosa di masochistico dal momento che se i modi di pensare, sentire, relazionarsi, affrontare i problemi e difendersi sono diventati maladattivi, gli schemi della personalità sono in qualche modo diventati autodistruttivi. Come accade per le persone organizzate in senso depressivo, le dinamiche degli individui masochisti vanno da un estremo più anaclitico (i cui temi centrali riguardano il sé in relazione con l'altro) a uno più introiettivo (dove acquisiscono più importanza le questioni relative alla definizione di sé).

Le persone masochiste con intensi bisogni anaclitici sono chiamate talvolta masochisti relazionali: le loro azioni autodistruttive sono il risultato degli sforzi atti a mantenere la relazione ad ogni costo. L'espressione “masochista morale” è invece comunemente applicata ad individui più introiettivi, che hanno organizzato la loro autostima intorno alla capacità di tollerare il dolore e il sacrificio.

I modelli caratteriali masochistico e depressivo si sovrappongono in larga misura, specialmente al livello nevrotico-sano tanto da rappresentare uno dei caratteri più comuni (Kernberg, 1984, 1988). Resta comunque importante distinguere le due personalità perché ad un livello di organizzazione borderline o psicotica necessitano di stili terapeutici significativamente diversi. E' probabile trovare individui con strutture masochistiche tra i pazienti cronicamente depressi che rispondono in maniera non ottimale o addirittura non rispondono al trattamento (sia psico che farmaco-terapeutico).

Ritornando alla questione delle donne che subiscono abusi e violenze reiterate fino all'omicidio, diventa chiaro sulla base di quanto esposto che, se strutturate in senso masochistico (come nella maggior parte dei casi), non siano in grado di elaborare strategie alternative a quella di subire e tollerare la sofferenza sia come modalità per definirsi (introiettiva) che per riuscire a mantenere la relazione con l'altro (anaclitica).

In tali situazioni quindi la tutela della vita di queste donne (e uomini in casi più rari) può essere esercitata solo all'interno di norme che socialmente impongano agli uomini il rispetto delle donne (un tabù) in nome dei principi etici che regolano i rapporti fra individui all'interno di una società civile. Questo il motivo per cui, al di là delle ideologie politiche, può aver senso varare una legge che regolamenti la materia. 

Mi rendo conto di essermi piuttosto dilungato e penso che questi spunti, sufficienti per una riflessione ed una eventuale discussione, possano aver dato l'impressione di un eccesso di indulgenza nel tentativo di comprendere. Ma ai più accorti non sarà sfuggito che per i casi di femminicida più maligni, la speranza di una riabilitazione ad oggi sia da considerarsi solo un'ipotesi scarsamente attendibile e l'unica possibilità che abbiamo a disposizione è quella di un isolamento a tempo indeterminato.

 

 

Data pubblicazione: 28 marzo 2014

Per aggiungere il tuo commento esegui il login

Non hai un account? Registrati ora gratuitamente!

Guarda anche femminicidio 

Contenuti correlati