Depressione. Uno studio sugli attuali approcci al problema

cdipasquale
Dr. C. M. Di Pasquale Psicologo, Psicoterapeuta

Sono molti anni che l’Oms ha identificato nella depressione non solo il disturbo mentale maggiormente presente al mondo ma anche una delle patologie attualmente a più rapida diffusione. Le stima riportata sul sito dell’OMS è di circa 300 milioni di soggetti su base mondiale. Per questo la giornata mondiale della salute del 2017 ha avuto come tema la depressione.

Sappiamo come, rispetto alle sindrome depressive, l’eziologia e i sintomi possono variare molto da individuo a individuo e siamo quindi portati inevitabilmente a riflettere su quale possa essere il trattamento più efficace. A tal proposito mi sembra interessante riportare una ricerca pubblicato sulla rivista The British Journal of Psychiatry, uno studio effettuato su un campione di poco più di 50.000 soggetti provenienti da 21 paesi tra cui l’Italia.

I risultati dicono che la maggior parte dei soggetti “cosiddetti depressi” o non ha ricevuto alcun trattamento o ne ha ricevuto uno inadeguato al proprio caso. I criteri per diagnosticare un disturbo depressivo maggiore sono stati riscontrati nel 4.6% del campione. Di questi poco più della metà hanno dichiarato di ritenere necessario un trattamento e solo una piccola parte di essi ha effettuato almeno una visita. La percentuale scende ulteriormente se leggiamo i dati dell’efficacia di quanti si siano sottoposti a un percorso terapeutico prolungato.

Per ulteriori approfondimenti rimando alla lettura integrale dei risultati. Mi preme qui sottolineare pochi punti evincibili dalla ricerca stessa. Considerazioni che non intendono volutamente prendere in considerazioni alcune importanti variabili quali: le modalità di effettuazione delle diagnosi; cosa intenda la ricerca per “standard minimo di una terapia” e per “trattamento adeguato”.

Il primo. Tra coloro che hanno dichiarato di sentire la necessità di un aiuto la percentuale dei soddisfatti è molto bassa: solo 1 su 5 tra le persone con un alto reddito e 1 su 27 tra le persone con un reddito più basso. In altri termini potremmo dire che: non solo, come spesso capita, l’accesso alle cure è appannaggio delle classi più abbienti ma che comunque solo una percentuale molto bassa ha migliorato la propria situazione o ne ha per lo meno la percezione.

Il secondo punto è relativo alla tipologia di trattamento. La ricerca fa un richiamo agli stessi operatori del settore e su ciò che propongono come terapia per quel singolo e unico soggetto. Due i rischi che si corrono: non essere di fatto di alcun aiuto al paziente e in seconda battuta di disilludere rispetto all’importanza ed efficacia della psicoterapia come strada per raggiungere e/o ritrovare uno stile di vita considerato normale. È infatti estremamente interessante rilevare come molti tendano a non continuare, anche cambiando professionista, una terapia psicologica. Cosa che comporta il rischio, sul versante individuale, di un cronicizzarsi della propria patologia e, sul versante sociale, costi elevati, sia pubblici che privati.

Mi sembra da ultimo interessante rilevare che lo studio indichi come strada prioritaria quella di migliorare i servizi che ciascun paese coinvolto nella ricerca offre, come anche una maggior sensibilizzazione su questo argomento a tutta la popolazione. È evidente che il riferimento non può che essere politico e, per altro, perfettamente coincidente con le indicazioni dell’OMS stesso.

Penso che sia importante riflettere su indicazioni come queste, sia come professionisti che operano in questo settore, per ciò che offriamo come aiuto al paziente, sia come cittadini rispetto a ciò che offrono i nostri, a mio avviso validi, Servizi di Salute mentale. 

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Fonte: http://bjp.rcpsych.org/content/early/2016/11/16/bjp.bp.116.188078

Data pubblicazione: 16 maggio 2017

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