Voglio morire, cerco qualcuno che mi salvi

Sono bipolare e borderline. Prendo psicofarmaci. Vado da una psichiatra. Faccio psicoterapia.

Voglio morire.

In testa ho un gran casino. La mia vita è ridotta a uno straccio. I sintomi peggiorano di giorno in giorno. Sono felice, sono triste, sono euforica, sono depressa, amo la vita, voglio morire. Voglio morire, voglio morire.

Sono stanca di svegliarmi piangendo, alzarmi ridendo, coricarmi pensando al suicidio, uscire con gli amici, prendere una lametta e tagliarmi appena tornata. Stanca di essere indifferente, apatica, vuota, troppo emotiva, troppo legata, troppo schizzata, stanca di fregarmene, stanca di tenerci troppo. Stanca di non amare chi mi ama e amare chi non mi ama. Di non avere sentimenti, di essere DEVASTATA dai sentimenti, di ridere quando voglio morire, di pensare al suicidio e amare la vita e odiare la vita e voler vivere e voler morire.

I miei pensieri cambiano da un istante all'altro, ogni secondo di ogni minuto di ogni schifoso giorno. Mi sembra di essere costantemente interrotta. Interrotta in quello che penso, faccio, dico, voglio. Ho paura perché non posso fidarmi di me stessa. Non so se domani mi ammazzerò, o farò un viaggio, o cercherò lavoro, o mi rovinerò la vita di proposito. Non so di che umore sarò tra un'ora. Prima ho pianto volendo solo suicidarmi e avendo già pianificato come, poi ho gioito di tutte le cose che voglio fare e che inizierò domani, poi mi sono tagliata, poi ho pensato a come tingerò i capelli la settimana prossima, poi ho cercato le parole per dire a una mia amica che voglio uccidermi e chiederle aiuto, poi ho inventato una nuova ricetta, poi ho iniziato a scrivere questo messaggio in preda al raptus di voler morire. Nel frattempo è passata un'ora. Solo. una. fottutissima. ora. E l'ora prossima sarà così. E quella dopo. E quella dopo ancora.

Non posso vivere così. Non posso. Sembra che neanche la psichiatra e la psicoterapeuta capiscano perché voglio uccidermi, pensano che a parte un'infanzia di merda e un lutto recente non abbia ragione di odiare la vita. Ma io non voglio uccidermi perché odio vivere a questo mondo, io odio vivere nella mia testa!
[#1]
Dr. Armando De Vincentiis Psicologo, Psicoterapeuta 7.2k 220 122
(...) Sembra che neanche la psichiatra e la psicoterapeuta capiscano perché voglio uccidermi, pensano che a parte un'infanzia di merda e un lutto recente non abbia ragione di odiare la vita(. ..)

comprendo il suo stato, ma oltre alla comprensione del tipo di infanzia che l ha segnata cosa ha fatto di pragmatico con la sua terapeuta?

Dr. Armando De Vincentiis
Psicologo-Psicoterapeuta
www.psicoterapiataranto.it
https://www.facebook.com/groups/316311005059257/?ref=bookmarks

[#2]
Dr.ssa Elisabetta Scolamacchia Psicologo, Psicoterapeuta 740 20 3
Da quanto tempo fa psicoterapia e prende farmaci? È' importante saperlo, perché I farmaci hanno bisogno di tempo per fare effetto e così la psicoterapia. Quale psicoterapia sta facendo e ogni quanto? A casa, sta con qualcuno che la segue ?
Dott.ssa Elisabetta Scolamacchia
Psicologa clinica

Dr.ssa Elisabetta Scolamacchia
Psicologa. Psicoterapeuta. Analista Transazionale

[#3]
Dr.ssa Franca Esposito Psicologo, Psicoterapeuta 7k 154
Gentile Signorina,
La patologia che ci riferisce e' una compagna con cui non e' piacevole convivere percio' non e' incomprensibile che lei "voglia morire".
Non vorrei pero' che lei usasse questa frase come una spola fra lei e lo psichiatra o lo psicoterapeuta.
La loro "incomprensione" verso questo suo impulso mi fa sospettare cio. Sbaglio?
Il desiderio di morire (a volte si e a volte no) fa parte del forte disturbo dell'umore che connota la patologia.
Si deve curare con pazienza e costanza sia a livello di psicofarmaci che di colloqui. Procedendo anche per tentativi fino a quando non avra' trovato la combinazione di farmaci e collloqui giusti per lei.
Allora tornera' a condurre una vita serena.
Abbia pazienza! E fiducia
I migliori saluti
.

Dott.a FRANCA ESPOSITO, Roma
Psicoterap dinamic Albo Lazio 15132

[#4]
dopo
Attivo dal 2012 al 2018
Ex utente
Vi ringrazio enormemente dell'attenzione. Siete stati tutti gentilissimi.

Rispondo uno per volta.

Dr. Armando De Vincentiis. Dal punto di vista pragmatico non ho fatto nulla. Non mi danno suggerimenti concreti; ascoltano, mi lasciano parlare, talvolta esprimono un giudizio. L'unica cosa sulla quale la psichiatra si è accanita è la mia tendenza a parlare di "noi" piuttosto che "io", tendenza totalmente spontanea, che ho fin dall'infanzia e di cui non posso liberarmi semplicemente schioccando le dita. Io non sono solo io. Nella mia testa ci sono altri, e ognuno ha qualcosa di diverso da dire.
Mi hanno chiesto di considerarci un tutt'uno. Non capiscono che per me ognuno ha un suo modo di essere, un nome diverso, un'identità propria a cui siamo tutti affezionati. So di aver creato io questa divisione, ma la rottura è avvenuta sicuramente quando ero piccola, perciò ogni parte è cresciuta in modo diverso, ha vissuto esperienze diverse, provato emozioni diverse, come se fossimo più persone chiuse nella stessa testa. Non sono abbastanza pazza da non capire che, in linea teorica, dovrei essere soltanto UNA. Dico solo che è difficile mescolare persone che hanno seguito percorsi diversi, divenendo a tutti gli effetti individui distinti.

Dr. Elisabetta Scolamacchia, sono in psicoterapia da cinque mesi e prendo farmaci da due mesi e qualcosa. Vedo sia la psichiatra che la psicoterapeuta una volta a settimana, ma non so dirle che psicoterapia stia facendo perché brancolo nel buio. Mi hanno raccattata da un dsm nel quale ero andata nel disperato tentativo di non uccidermi. Non era il dsm della mia zona, non sapevo neanche dove fosse il dsm della mia zona. Loro mi hanno guidata in ospedale, e lì continuo a vederle. Non le ho scelte, ma di sicuro sono la cosa migliore che mi sia capitata.

Dr. Franca Esposito, non so cosa intenda con "spola", ma l'impulso al suicidio è stato il motivo per cui ho chiesto aiuto. Ero già stata sul punto di provarci, a sedici anni, durante un periodo di forte depressione. Per fortuna o per sfortuna mi sono fermata in tempo per vomitare i farmaci.
Si può dire che il mio desiderio di morire sia una costante, solo che a volte lo rimando, a volte invece ho l'impulso di farlo subito. Ciò che mi spaventa è che possa agire in preda a un raptus. C'è una parte di me che NON vuole togliersi la vita, e questa parte di me, quella che scrive adesso, lotta ogni giorno per tenere l'altra sommersa. Ma non sempre ci riesce.
Ho paura perché non sono sempre io a decidere. Io posso contenere il dolore e razionalizzarlo, cercare soluzioni alternative, guardare al futuro, essere propositiva, nonostante stia soffrendo; ma c'è una parte di me che è solo istinto. Una parte che ha un nome, dei sentimenti e dei pensieri diversi dai miei, che non è me e che non sempre riesco a controllare. Nell'ultimo anno mi ha rovinato la vita, e la mia paura adesso è che possa riuscire nell'intento di uccidersi.

So che forse è difficile da capire, ma provate a pensare come sarebbe se a un tratto qualcun altro si trasferisse nella vostra testa, costringendovi al ruolo di spettatore passivo. Provate a pensare cosa si prova a compiere azioni che non vuoi compiere, a sentire il suono assordante di pensieri che non sono tuoi, a essere travolti da emozioni che non ti appartengono, a subire reazioni diverse da quelle avresti tu, senza poterti opporre.
Come posso fidarmi di me, se non so neanche CHI sarò domani?
[#5]
Dr.ssa Franca Esposito Psicologo, Psicoterapeuta 7k 154
Cara ragazza,
La sintomatologia che l'affligge e' controllabile perfettamente con le terapie idonee.
Se ancora non le hanno fatto davveroi effetto e' perche' troppo poco tempo che le assume per avere dei risultati significativi.
Vada avanti con fiducia e speranza nella soluzione!
I migliori augurii
[#6]
Dr.ssa Elisabetta Scolamacchia Psicologo, Psicoterapeuta 740 20 3
Cara ragazza,
Comprendo il suo stato, o meglio, i suoi stati alternati di umore e penso che sia davvero dura la battaglia che sta portando avanti per non uccidersi. Deve essere estenuante contrastare pensieri di autodistruzione ricorrenti e gestire momenti che potrei definire di disperazione. Tuttavia, lei ha avuto la fortuna che qualcuno la "raccattasse", come dice lei, e questa e' stata la cosa " migliore" che potesse capitarle. È' proprio su questo avvenimento fortuito ma importante che vorrei richiamare la sua attenzione perché lei stessa attribuisca un significato di segnale positivo a cui appigliarsi tutte le volte che ne ha bisogno. Non credo che sia stato un caso incontrare qualcuno che si è' preso cura di lei, anche se lei non l'ha cercato. Queste persone, competenti e disponibili, sono i suoi punti di riferimento. D'altra parte, in lei esiste la voglia di vivere e di lottare, altrimenti non chiederebbe aiuto, come ha fatto. I tempi sono lunghi, specie se la patologia ha radici lontane, ma lei ' sulla strada giusta. Il percorso e' duro, durissimo, se vuole, e ci saranno momenti in cui vorrà gettare la spugna. Posso dirle: TENGA DURO. Con forza, con caparbietà, grinta. Lei mostra grande sensibilità ed intelligenza, da quello che scrive, e' lucida e consapevole, e quindi conosce la sua sofferenza: metta al servizio della "parte" che lotta per la vita tutte queste sue meravigliose capacità. E sia dia tempo! Un caro saluto.

Dott.ssa Elisabetta Scolamacchia
Psicologa ad ind. Clinico
[#7]
Attivo dal 2010 al 2016
Psicologo, Psicoterapeuta
>>So che forse è difficile da capire, ma provate a pensare come sarebbe se a un tratto qualcun altro si trasferisse nella vostra testa, costringendovi al ruolo di spettatore passivo.

Se vivessi questo mi sentirei terrorizzato, impotente e forse anche infuriato. Bisognoso di aiuto, ma anche poco incline a fidarmi.

>>Provate a pensare cosa si prova a compiere azioni che non vuoi compiere, a sentire il suono assordante di pensieri che non sono tuoi, a essere travolti da emozioni che non ti appartengono, a subire reazioni diverse da quelle avresti tu, senza poterti opporre.

Mi permetta di fare con lei un paio di considerazioni. Lei sta mettendo insieme cose differenti, molto differenti tra di loro, e probabilmente nella sua esperienza questo frullato è proprio come ce lo descrive lei. Le proporrò alcune idee: non sono "dati di fatto", ma ipotesi, e chiedo il suo parere per confermarle o scartarle, del tutto o in parte.

In letteratura, ma anche nella mia esperienza, pensieri, emozioni, comportamenti sono profondamente intrecciati, ma anche domini distinti della nostra esperienza. "Tagliarsi" è un comportamento; "Posso cercare soluzioni alternative" è un pensiero; provare rabbia, tristezza, angoscia, paura, gioia euforica etc. sono tutte emozioni.

Forse lei non ha il controllo su quello che prova, nè su quello che pensa. Troppi stimoli, ognuno dei quali, probabilmente, già da solo è capace di destabilizzarla, di portarla su su su nelle montagne russe e poi di sprofondarla giù alla velocità della luce. E forse anche vivere una perdita di speranza, molto comprensibile. Lei ha diritto a sentirsi così.

Potrebbe anche sperimentare una difficoltà nella gestione dei comportamenti impulsivi ed autolesivi, che a volte potrebbero anche sembrarle una strada per alleviare la sofferenza.

Come fare?

Francamente, non ho una risposta. Non saprei cosa dire ad una persona che mi chiedesse un "salvataggio", se non "mi tuffo in mare con te, e proviamo ad imparare a nuotare col mare grosso". Forse non è un granchè, ma lei è l'unica persona che può costruire per sè una vita che valga la pena di vivere. Psichiatri, psicoterapeuti, psicologi, assistenti sociali e chi più ne ha più ne metta possono soltanto starle accanto ed aiutarla a costruire il suo "kit per naufraghi", da tenere pronto ed utilizzare in caso di mare grosso, aspettando che la tempesta passi.

Tenga presente che se lei porta appesi al collo questi cartelli ("bipolare", "borderline", "riunione di condominio nella mia testa"), il collo potrebbe farle male, a lungo andare. Ma sappia anche che esistono dei trattamenti che hanno dato prova di grande efficacia nell'aiutare le persone che portano cartelli simili ai suoi, come ad esempio la Dialectical Behavior Therapy.

Un'ultima nota. Lei è impegnata in una psicoterapia ed è seguita da una psichiatra. Ha espresso loro le sue perplessità, sanno che si sente giudicata da loro e che non sente che da un punto di vista pragmatico state facendo dei passi avanti ("Dal punto di vista pragmatico non ho fatto nulla. Non mi danno suggerimenti concreti; ascoltano, mi lasciano parlare, talvolta esprimono un giudizio")?
[#8]
dopo
Attivo dal 2012 al 2018
Ex utente
Ringrazio la Dott. Franca Eposito e la Dr. Elisabetta Scolamacchia, che mi hanno invitato a prestare pazienza finché la terapia (anche farmacologica) non farà effetto. Spesso mi demoralizzo perché sono passati già cinque mesi e non ho visto miglioramenti, e io aspetto, aspetto, aspetto, mentre la mia vita sprofonda. Vorrei sapere quanto dovrò aspettare ancora, vorrei che la mia psichiatra e la mia psicoterapeuta capissero che sto toccando il fondo e che non so quanto tempo mi resta prima che smetta di aspettare.

Ringrazio inoltre il Dr. Gianluca Calì per la riposta particolareggiata e per il tentativo (riuscito) di calarsi nei miei panni.
Mi sarebbe utile costruire un "kit per naufraghi", se non fosse che uno ce l'ho già ed è più controproducente che funzionale, una zattera con troppe falle che rischia di ribaltarsi ad ogni momento. Quando sento che sto per annegare, mi taglio o metto in atto altri comportamenti autolesivi. Finora è servito ad evitare che mi uccidessi. Appena sento che la parte istintiva sta prendendo il sopravvento, depisto il suo impulso in un atto altrettanto impulsivo, ma meno irreversibile di un suicidio. In questo modo si placa all'istante, io sono di nuovo io, e provo un odio immediato per la parte che mi ha fatto fare questo. Non traggo compiacimento dalle cicatrici, non le porto come trofei né le uso per cercare attenzioni (tant'è che nessuno lo ha capito). Mi servono solo a evitare il peggio.

Come giustamente dice, pensieri, emozioni e comportamenti sono cose diverse. Nella mia testa c'è un gran casino, è vero, infatti non riesco a trovare un nesso fra queste cose, e nemmeno una continuità tra i pensieri, tra le emozioni e tra i comportamenti. Per farle degli esempi concreti, IO penso che la vita vada vissuta, non perché mia madre me l'ha scaricata addosso quando mi ha messa al mondo, ma perché l'ho SCELTA quando ho sfiorato il suicidio e in quel momento ho capito che volevo vivere. IO provo ottimismo, serenità, gioia, voglia di fare, allegria, speranza. IO vado all'università, studio, cerco lavoro, parlo con le persone, faccio amicizie, propongo uscite con gli amici, vado in palestra, mi interesso alla mia salute... mi costruisco un futuro.
L'ALTRO, chiamiamolo I, pensa che la vita sia una tortura, che non valga la pena pagare il prezzo del dolore, del tormento, delle delusioni, e poiché la morte è inevitabile, sceglierla è il modo migliore per non subirla. L'ALTRO prova paura, disperazione, solitudine, panico, mancanza d'affetto, si sente abbandonato ed è dipendente da una persona che non lo pensa più. L'ALTRO compie atti autolesivi, non fa più niente per se stesso, abbandona lo studio e l'università, si lascia andare, ha già rinunciato alla vita poiché non vede, né vuole, un futuro.
L'ALTRA, chiamiamola S, pensa che la vita vada sfruttata fino all'ultimo istante, perché il mondo è un palcoscenico e lei il mangiafuoco che si diverte a muovere le fila. Non le importa se e quando finirà, non è affezionata alla vita, vivere è solo un intrattenimento piacevole in attesa della morte, che accoglierà con una scrollata di spalle e un inchino alla platea. L'ALTRA prova indifferenza, menefreghismo, blanda curiosità verso le emozioni altrui, come un chimico annoiato che mescola provette a caso per vedere cosa succede. L'ALTRA si compiace di creare scompiglio, di rimescolare le carte, di fare esperimenti con le persone, si guarda dall'esterno come se fosse lei stessa una pedina della scacchiera, manipola e distrugge.
IO al contrario sono sensibile e altruista, seppur capace di non affezionarsi troppo. L'ALTRO invece è estremamente dipendente, ossessivo, paranoico, impulsivo, irragionevole, ha un'emotività sregolata e salta da un estremo all'altro senza passare dalle sfumature.

Capisce perché non riesco ad amalgamare tutto questo? Sono personalità immiscibili tra loro, come l'olio e l'acqua.

In cosa consiste la terapia a cui ha accennato (Dialectical Behavior Therapy)?

Sì, ho espresso le mie perplessità a entrambe, psichiatra e psicoterapeuta, ma mi sembra che siano loro a gestire le fila, tenendomi all'oscuro di tutto. Per ottenere la diagnosi ho dovuto tirarla fuori con le pinze, perché non volevano che io lo sapessi.

Posso aggiungere un'ultima cosa, dato che mi preme molto?

La ragione principale per cui mi sento sprofondare e non riesco a risalire a galla, l'evento che ha causato il crollo (seppur di una situazione già molto pericolante, direi una voragine scoscesa verso il vuoto) è stato la morte di una mia amica che si è suicidata l'anno scorso. Dopo i miei sedici anni, avevo abolito il pensiero del suicidio. La vita l'avevo scelta, pensavo, quindi VALEVA LA PENA viverla. Poi lei è morta, è morta in un momento in cui io già mi reggevo a stento, appesa a una vita che si sgretolava. La sua morte è stata come una valanga. Ho perso la presa e ho cominciato a precipitare.
Ora non ho niente a cui aggrapparmi, perché gli appigli che mi avevano salvata in passato sono crollati. Ho capito che non stavo più scegliendo la vita, la stavo subendo perché "ormai c'è", come un compito noioso da portare a termine per inerzia. Lei si è uccisa, ha seguito le mie orme fino al precipizio, ma poi è andata oltre. Ogni ogni momento, ogni risata, ogni gioia, ogni birra con gli amici, ogni soddisfazione o traguardo, per me non valgono più niente. Fanno parte di un pacchetto, la vita, che vorrei rispedire al mittente. Ogni giorno mi sveglio pensando che lei è morta, ma io sono viva solo formalmente, sono un cadavere che respira. Non accetto che lei sia morta come non accetto che io sia viva. L'unica cosa che potrebbe riportarmi in vita è che lei fosse ancora viva. A farmi soffrire dannatamente non è il pensiero di non sentirla più, perché preferirei mille e mille volte che avessimo litigato, o che le nostre strade si fossero semplicemente divise, o addirittura che lei fosse morta in un tragido incidente. Il dolore della perdita non sarebbe paragonabile a questo. Ho il suo viso stampato sul retro delle palpebre e lo vedo ogni volta che chiudo gli occhi, ogni maledetto istante, perché non posso fare a meno di chiedermi COSA AVREI POTUTO FARE? Mi sento in colpa perché non le ho mai parlato, non le ho detto di esserci passata, non le ho detto che a metà fra la vita e il punto di non ritorno ho capito che volevo vivere, non le ho detto che DOPO si sta meglio, ma si sta anche di merda, che il dolore non passa, ma c'è anche la gioia, che le difficoltà si superano, e poi ce ne saranno altre, e altre , e altre, e altre ancora, ma ci saremo anche noi, noi che le volevamo bene e che le avremmo offerto una spalla su cui piangere. Non gliel'ho detto perché ho sempre rifiutato quella spalla. Perché non sono mai stata capace di aprirmi e ancora tengo tutto dentro, in una cassaforta sigillata, senza riuscire a condividerlo con chi lo sta provando. Non riesco a convivere col senso di colpa e il rimpianto, con la domanda assillante: SE GLIELO AVESSI DETTO, AVREBBE FATTO LA DIFFERENZA? Non l'ho spinta io da quel balcone, ma non ho fatto un cazzo di niente per impedirlo. Anche quando ha cercato di parlarmi, quando mi ha raccontato di sé, non le ho mai detto anch'io, ANCH'IO ho provato le cose che provi tu!
Mi dicono che devo farmene una ragione. Gli altri, anche amici più stretti di me, sono andati avanti. Io no. Io non ci riesco perché potevo capirla, perché poteva capirmi e potevamo aiutarci, e invece lei è morta e io sono sola, sola come si sentiva lei prima di morire.
Sono triste e sono arrabbiata, vorrei urlarle addosso che la sua morte ha ucciso tante persone, non solo lei, ma noi non l'abbiamo scelto. Ma più di tutto mi preme sapere se a metà del volo tra il balcone e l'asfalto se n'è pentita. So cosa si prova e per questo il pensiero MI UCCIDE, mi uccide ricordare come mi sono sentita io dopo aver ingoiato i farmaci, mi uccide pensare che lei ha provato quelle stesse cose quando era troppo tardi per tornare indietro. Vorrei poterla riportare qui per un istante e chiederle se l'ha desiderato fino all'ultimo, se l'istante prima di toccare il suolo era ancora convinta di voler morire, perché solo questo potrebbe darmi un po' pace. Invece non lo saprò mai.

Come si supera questo tormento? Nessuno sembra capirmi. Vengo guardata come la povera scema che non riesce ad andare avanti, a un anno da quando è successo. Mi vergogno pure di dire che ci sto ancora male, perché mi sento incompresa. Io stessa comincio a credermi se non ci sia del patologico nel mio attaccamento a questo rimpianto.
Non sono mai andata sulla sua tomba, e non ho intenzione di pensare che sia là sotto. Continuo a credere che sia ancora viva, e quando mi scontro con la realtà è come ricevere una coltellata, come se mi stessero dicendo "è morta" per la prima volta, ancora, e ancora, e ancora.

Mi scuso per essermi dilungata. Ho bisogno di sfogarmi, ma non so con chi.
[#9]
Attivo dal 2010 al 2016
Psicologo, Psicoterapeuta
>>Mi sarebbe utile costruire un "kit per naufraghi", se non fosse che uno ce l'ho già ed è più controproducente che funzionale, una zattera con troppe falle che rischia di ribaltarsi ad ogni momento.

E' il "kit" che si è trovata più a portata di mano. Ce ne sono altri, ma bisogna imparare a costruirseli...

>>In cosa consiste la terapia a cui ha accennato (Dialectical Behavior Therapy)?

E' una forma di psicoterapia cognitivo-comportamentale che consiste nell'aiutare le persone a costruire una vita che sia degna di essere vissuta, accettando i propri stati d'animo ed i propri pensieri, per quanto caotici possano essere, e modificando concretamente ciò che si fa per fronteggiare i momenti di difficoltà. E' riconosciuta come una forma di terapia molto efficace nel trattamento del disturbo borderline, sebbene non sia certamente l'unica.

>>SE GLIELO AVESSI DETTO, AVREBBE FATTO LA DIFFERENZA? Non l'ho spinta io da quel balcone, ma non ho fatto un cazzo di niente per impedirlo

Ho letto con dispiacere sia la storia della sua amica, sia quello che lei ci racconta, da "sopravvissuta". Mi permetta una domanda diretta: se lei decidesse di farla finita, chi potrebbe impedirglielo? Quali parole dovrebbe sentirsi dire per cambiare idea? Le farebbero cambiare davvero idea?

>>Io stessa comincio a credermi se non ci sia del patologico nel mio attaccamento a questo rimpianto

E' un pensiero comprensibile, ma il dolore è dolore, viene quando decide lui e passa quando è il momento. Quello che può complicarle la vita non è tanto il fatto di soffrire, ma cosa se ne stia facendo, di questa sofferenza.

>>Mi scuso per essermi dilungata. Ho bisogno di sfogarmi, ma non so con chi

Forse potrebbe esserle utile cominciare a riconoscere alle sue terapie il compito di aiutarla ad uscirne. Ma non è detto che sia facile, nè che sia indolore. A volte, per uscire da una foresta piena di rovi, si deve accettare di pungersi e graffiarsi un bel pò...
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