Disturbo di Panico: sintomi, diagnosi, esordio, decorso, prognosi, cause e trattamento

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Dr. Massimiliano Iacucci Psicologo, Psicoterapeuta

Introduzione

Il Disturbo di Panico (DP) è caratterizzato da ricorrenti stati d'ansia acuti a insorgenza improvvisa e di breve du­rata, diversi tra loro per intensità e per presentazione delle varie manifestazioni cliniche. Il ripetersi degli Attacchi di Panico (AP), la cui frequenza è estremamente variabile tra gli individui, si accompagna successivamente ad ansia anticipatoria e a condotte di evitamento, che nel corso del tempo compromettono in maniera significativa la vita del soggetto.

La prima descrizione clinica di un tale disturbo sintoma­tologico si deve a Jacob Da Costa (1871) che descrisse una sindrome del cuore irritabile con evidenti manifestazioni neurovegetative e cardiorespiratorie acute, rilevate fre­quentemente tra i soldati, quadro che Krishaber chiamò neuropatia cerebrocardiaca (vertigini, sintomi neurovegeta­tivi, derealizzazione). Il termine agorafobia venne coniato per la prima volta da Westphal (1872) per descrivere la paura, immotivata e senza ragione, di affrontare gli spazi aperti. Il DP acquisisce la sua autonomia diagnostica solo nel 1980 con il DSM-III. Nell'attuale classificazione proposta nell'ultima edizione del manuale (DSM-V), il DP e l'Agorafobia sono classificati in una categoria diagnostica unica, a sottolineare lo stretto legame fra le due condizioni, e le condotte di evitamento sono con­siderate secondarie alle manifestazioni ansiose critiche. Il DSM-V, infatti, prevede la diagnosi di DP e di DP con Agorafobia. L'Agorafobia Non Preceduta da Attacchi di Panico è stata mantenuta come categoria separata. L'Ago­rafobia, definita dalla presenza di una paura immotivata associata a condotte di evitamento rispetto allo stare solo o in posti pubblici dai quali sarebbe difficile fuggire o essere soccorsi, può rappresentare quindi una risposta secondaria al DP: è opinione comune di numerosi ricercatori e clinici che anche i casi di Agorafobia Senza AP possono essere considerati secondari alla presenza di AP paucisintomatici o sottosogliaNell'ICD-10 l'Agorafobia, quando presente, viene tuttavia considerata primaria rispetto agli AP; in tale classificazione il DP è collocato tra le «altre sindromi ansiose», mentre l'Agorafobia è compresa tra i Disturbi Fobici, ipotizzando che l'attitudine fobica sia l'aspetto nucleare del disturbo.

Gli studi epidemiologici mostrano una sostanziale di­vergenza dei risultati, sia per la metodica applicata, sia per la popolazione presa in esame. Viene riportata una prevalenza nell'arco della vita dell'1,5-5 % per il DP, del 3 -5 ,6% per gli AP isolati e dello 0,6-6% per l'Agora­fobia. Il DP risulta più frequente nelle femmine, con un rapporto di F:M = 2,5:1 e tale valore aumenta se si considera l'Agorafobia (F:M = 3,5-4:1). L'età d'esordio è compresa fra i 15 e 40 anni (età media 25 anni), benché il disturbo possa comparire anche nell'infanzia o dopo i 40 anni (15% dei casi).

Sintomi e diagnosi

Gli AP rappresentano la manifestazione nucleare del di­sturbo. Si tratta di episodi parossistici d'ansia che insorgo­no bruscamente, raggiungono l'intensità massima nel giro di pochi minuti e si esauriscono solitamente nell'arco della mezz'ora. I sintomi compaiono improvvisamente, spesso in modo del tutto inaspettato e drammatico. Tale espe­rienza ansiosa è vissuta dal paziente come un evento non derivabile psicologicamente e quindi si accompagna a un penoso senso di impotenza, di mancanza di controllo, di paura e minaccia. All'esaurimento della fase critica segue invariabilmente una fase di grande spossatezza, sensazione di testa confusa, sbandamento, vertigini.

I sintomi caratteristici dell'AP possono essere suddivisi in: manifestazioni soggettivesomatiche, psicosensoriali e manifestazioni com­portamentali.

Le manifestazioni soggettive implicano la presenza di sintomi cognitivi e si esplicano con la paura di morire, di svenire, di impazzire o di perdere il control­lo.

Le manifestazioni somatiche costituiscono l'aspetto nucleare dell'AP e derivano dal diretto coinvolgimento del sistema neurovegetativo, provocando

  • alterazioni dell'apparato cardiorespiratorio (tachicardia, palpita­zioni, dolore precordiale, costrizione toracica, dispnea, senso di soffocamento),
  • dell'apparato gastrointestina­le (nausea, dolori addominali, diarrea)
  • dell'apparato urinario (pollachiuria, bisogno impellente di urinare).
  • Sono presenti anche sintomi tipicamente neurologici, quali vertigini, sbandamento, instabilità, tremori, brividi, parestesie e cefalea.

Frequenti sono anche le manifesta­zioni psicosensoriali con la presenza di ipersensibilità ai rumori, alla luce e ai colori, sintomi dissociativi e dejà vu.

Infine, le manifestazioni comportamentali racchiu­dono comportamenti che possono essere messi in atto dal soggetto nel momento in cui insorge il panico, quali interruzione delle attivitàfuga o gesti incontrollati, ra­ramente pericolosi.

Gli AP possono comparire in maniera spontanea (AP spontaneio nel contesto di situazioni temute o che pro­vocano forte disagio (AP situazionali).

Riguardo alla gravità, il DSM-V differenzia gli AP completi (full blown), quando sono presenti 4 o più sinto­mi, dagli AP paucisintomatici, quando sono presenti meno di 4 sintomi. Tali attacchi in realtà, anche se considerati minori, possono sostenere lo sviluppo di condotte fobiche assai invalidanti.

Ben presto gli attacchi, che si ripetono in modo caotico e variabile, si accompagnano al timore che le crisi possano ripetersi. Il paziente comincia a percepire la paura che un nuovo attacco possa sopravvenire e inizia a convive­re con uno stato d'allerta persistente, che si traduce in una vera e propria ansia intercritica, la cosiddetta ansia anticipatoriache, a differenza dell'attacco vero e pro­prio, è controllabile ma pur sempre disagevole. A lungo andare si instaurano condotte di evitamento che, nella maggior parte dei casi, si strutturano per l'intensificarsi della frequenza delle crisi e per la tendenza ad associare gli attacchi con situazioni e luoghi specifici. Ecco allora che si instaura l'Agorafobia (nel significato etimologico di "paura della piazza, del mercato"), particolare condizio­ne in cui le condotte di evitamento limitano fortemente il funzionamento globale (soprattutto sociale e lavorativo) dell'individuo. Le situazioni agorafobiche più comuni sono

  • rimanere a casa da soli,
  • prendere l'ascensore,
  • viag­giare con mezzi di trasporto pubblico (metropolitana, bus, treni, aerei),
  • attraversare un tunnel o un viadotto,
  • trovarsi in posti affollati.

Sí passa quindi dalla paura degli spazi aperti a quella relativa al ritrovarsi in spazi chiusi o ristretti (meglio definita come claustrofobia).

Accanto alle forme più tipiche si possono individuare numerosi comportamenti atipici meno comuni, come l'evitare l'indossare vestiti troppo stretti, di portare la cravatta, di mettere le cin­ture di sicurezza o frequentare ambienti in cui si ritie­ne di andare incontro a difficoltà di respirazione per la presenza di fumo, nebbia, "aria viziata", che mettono il soggetto in una condizione di forte disagio.

L'Agorafobia può assumere entità nosologica a sé soprattutto quando gli AP si riducono di frequenza negli anni ma perman­gono inalterate le condotte di evitamento iniziali che si cristallizzano in un vero e proprio stile di vita.

Spesso l'insicurezza, generata dal ripetersi degli AP, porta il paziente a ricercare aiuto in figure familiari ("compagno-accompagnatore") o addirittura a mettere in atto misure controfobiche come il sentirsi protetti da determinati oggetti (ansiolitico, bottiglia d'acqua, occhiali da sole, ba­stone, telefono cellulare), che assumono quasi un valore magico. In molti di questi casi la ricerca di rassicurazione può costituire l'aspetto principale del quadro clinico e chi soffre di DP tende a chiedere continuamente aiuto alle figure significative di riferimento, divenendo talora particolarmente dipendenti e manipolativi.

Inoltre, molte persone sofferenti di DP presentano caratteristiche farmacofobiche in parte dovute a una reale sensibilità ai farmaci e in parte al loro temperamento di base fobico-ansioso. In alcuni casi si instaura, anche in relazione a tratti premorbosi di personalità, una polarizzazione ideoaffettiva di tipo ipocondriaco, che si configura in una vera e propria ipo­condria secondaria di tipo internistico o neurologico: il paziente si presenta dallo psichiatra con i referti di numerosissimi esami clinici, tutti negativi, e richiedendo rassicurazioni sul rischio di essere affetto da possibili malattie somatiche.

Alcuni tratti premorbosi di tipo sociofobico possono ren­dere ragione, in alcuni casi, di una prevalente sintomato­logia di tipo fobico-sociale (timore in caso di AP «di fare una brutta figura in pubblico»).

Esordio, decorso e prognosi

L'esordio della malattia è generalmente caratterizzato dal­la comparsa improvvisa di un episodio critico d'ansia di notevole intensità, solitamente il più completo sul piano sintomatologico, tale da rappresentare a distanza di tempo la chiave di lettura indispensabile per comprendere l'evoluzione successiva del disturbo. In genere si caratterizza per la comparsa improvvisa di un episodio critico durante lo svolgimento delle normali attività quotidiane (nel 50% dei casi gli AP si possono presentare anche durante il sonno).

In alcuni casi tuttavia la sintomatologia tende a risultare meno evidente e ad assumere forme e contenuti meno tipici rispetto agli stereotipi classici. La frequente osservazione di manifestazioni attenuate e atipiche del DP e dell'Agorafobia, ha condotto all'introduzione del concetto di spettro panico­agorafobico che prende in considerazione anche quelle forme cliniche parziali che si presentano con sintomi atipici, subclinici o isolati, con caratteristici pattern compor­tamentali o con tratti temperamentali e personologici.

Il quadro classico del DP deve quindi tenere conto anche di quel complesso sintomatologico sottosoglia che si mani­festa nelle fasi apparentemente asintomatiche, intervallari o premorbose, quali peculiari modalità di pensiero, reazioni emotive e caratteristiche risposte comportamentali. Spesso nella storia anamnestica è facile riscontrare antecedenti morbosi, come episodi critici d'ansia non diagnostica­ti nell'infanzia e nell'adolescenza o tratti di personalità evitante o dipendente.

D'altra parte sovente si ritrova una costellazione di sintomi a esordio precoce attenuati e persistenti, nella maggior parte dei casi egosintonici, che potrebbero essere interpretati come una disposizione tem­peramentale che poggia su un substrato geneticamente de­terminato, che si potrebbe chiamare temperamento fobico-ansiosoLe caratteristiche di questo tipo di temperamento sono:

  • ipereccitabilità del sistema simpatico,
  • ipersensibilità alla separazione,
  • marcata sensibilità alla rassicurazione,
  • particolare vulnerabilità agli eventi stressanti,
  • sensibilità peculiare nei confronti di sostanze o bevande leggermente attivanti,
  • timore per le malattie
  • farmacofobia.

Esistono inoltre numerosi fattori di rischio che potrebbero slatentizzare il disturbo laddove esista una vulnerabilità genetica; gli ultimi studi in merito pongono particolare attenzione agli

  • eventi di vita precoci (morte dei genitori, separazione prolungata dai genitori, divorzio dei genitori, episodi di maltrattamento),
  • all'iperprotezione materna
  • all'ansia di separazione durante l'infanzia.

In molti casi (20%) si assiste a una fase di elaborazione ipo­condriaca, nel corso della quale il paziente teme di essere affetto da una patologia organica e comincia a chiedere ripetutamente aiuto ai medici, sottoponendosi a una serie di accertamenti per individuare la natura del disturbo che lo affligge. Nel 10% dei casi si assiste a un evitamento delle situazioni sociali, trattandosi di un'ansia sociale secondaria alla paura di avere un AP in pubblico e all'imbarazzo e alla vergogna che ne potrebbero scaturire.

Il DP ha un andamento tendenzialmente cronico anche se estremamente variabile. L'evoluzione tipica è caratte­rizzata dalla comparsa di AP di varia frequenza e intensità e dalla successiva graduale strutturazione di ansia anti­cipatoriapreoccupazioni ipocondriache ed evitamento fobico. Studi sulla popolazione generale indicano che una risoluzione completa del quadro clinico si osserva nel 50-60% nel giro di 1-4 anni, tuttavia nella casistica clinica l'evoluzione risulta decisamente più sfavorevole con circa il 70% di pazienti con un decorso cronico o remittente e solo il 30% con una remissione completa.

Il DP porta invariabilmente a una compromissione più o meno marcata del funzionamento sociale, familiare e lavorativo. Oltre un terzo dei casi è complicato da una sintomatologia depressiva, che può essere espressione di una demoralizzazione secondaria o di un vero e proprio Disturbo dell'Umore concomitante, talora di Tipo Bipo­lare. In questo caso sono presenti anedonia, rallentamento psicomotorio e variazioni circadiane della sintomatologia, la prognosi è più sfavorevole anche in relazione alla minore ri­sposta ai trattamenti farmacologici e a un più elevato rischio di suicidio. Non è infrequente nel DP l'abuso di benzodia­zepine o alcol, quale autoterapia, rendendo il disturbo più grave e resistente alle terapie. Complicanze documentate e riportate sono inoltre una maggiore incidenza di ulcera peptica, ipertensione arteriosa e malattie cardiovascolari.

Eziopatogenesi

Numerosi dati sono emersi sui fattori genetici, biologici e psicologici implicati nell'eziopatogenesi del DP.

Per quanto riguarda i fattori genetici è stato ripetutamente dimostrato come il tasso di morbilità sia superiore nei fami­liari di primo grado. Negli studi sui gemelli la concordanza per DP è risultata 5 volte maggiore nei monozigoti rispetto ai dizigoti. È stato più volte riportato come per le Fobie Sem­plici gli eventi traumatici rivestano un ruolo preponderante nella slatentizzazione di una vulnerabilità genetica, mentre per il DP e in particolare per l'Agorafobia l'espressione fenotipica risente in misura maggiore del carico genetico.

Si può ipotizzare l'esistenza di un'eterogeneità del di­sturbo sul piano eziopatogenetico, prendendo in considerazione un'associazione familiare tra ipersensibilità al biossido di carbonio (CO2) e DP, il diverso ruolo dei Reni per il recettore della colecistochinina B, il gene del trasportatore della dopamina (DATI) o la trascrizione genetica del trasportatore della serotonina (5-HT).

Per quanto riguarda i correlati biologici è noto come varie sostanze quali isoprotenerolo ((3-antagonista), la vohimbina (antagonista dei recettori oc,-adrenergici), la tenfluramina (liberatore della serotonina), il flumazenil t antagonista dei recettori GABA-(3), la colecistochinina e la caffeina siano in grado di indurre AP in soggetti pre­disposti, verosimilmente per il loro effetto sui recettori noradrenergici, serotoninergici e GABAergici del siste­ma nervoso centrale. Esiste una concordanza pressoché totale riguardo alle varie localizzazioni neuroanatomiche, che prevedono il coinvolgimento del tronco cerebrale (in particolare i neuroni noradrenergici del locus coeruleus e i neuroni serotoninergici del nucleo del rafe mediano), del sistema limbico (probabilmente all'origine dell'ansia anticipatoria) e della corteccia prefrontale (probabilmente all'origine dell'evitamento fobico).

Gli studi di neuroimaging sia di tipo strutturale sia di tipo funzionale hanno permesso di identificare patologie a carico del lobo temporale, come la risonanza magnetica lRIVI), e una disregolazione del flusso ematico cerebrale (tomografia a emissione di positroni, PET; tomografia a emissione di un singolo, SPECT).

Bisogna inoltre sottolineare i contributi offerti dalle varie scuole di psicoterapiaSecondo le preponderanti teorie cognitivo-comportamentali, l'ansia diventa una risposta appresa attraverso il comportamento dei genitori o attra­verso un processo di condizionamento classico. Secondo le teorie psicoanalitiche, gli AP vengono interpretati come la conseguenza dell'insuccesso di una difesa nei confronti di impulsi che provocano ansia. Le teorie etologiche, in­fine, ipotizzano che gli AP e l'Agorafobia costituiscano paure irrazionali derivanti da reazioni istintive primitive di tipo adattivo.

Trattamento

Il trattamento del DP è attualmente fondato sulla farma­coterapia, sulla psicoterapia e sull'approccio combinato di entrambe.

Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso Klein si era reso conto che l'imipramina, fino ad allora usata quasi esclusiva­mente come antidepressivo, era in grado di controllare gli AP. Successivamente, in ordine di tempo, sono stati utilizzati altri triciclici (clomipramina, desipramina, trimipramina), inibitori delle monoamino-ossidasi (IMAO) (fenelzina, tra­nilcipromina), benzodiazepine (alprazolam, clonazepam, diazepam, lorazepam), gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (Selettive Serotonin Reuptake Inhibitors, SSRI) (citalopram, escitalopram, fluoxetina, fluvoxamina, paroxetina, sertralina) e gli inibitori della ricaptazione della serotonina e noradrenalina (Serotonin-Noradrenalin Reup­take Inhibitors, SNRI) (venlafaxina), i quali sono risultati efficaci non solo nel bloccare gli AP nei due terzi dei soggetti ma anche nel migliorare l'ansia anticipatoria e l'agorafobia. Gli antidepressivi triciclici hanno un provato effetto an­tipanico, ma molti degli effetti collaterali dovuti alla loro attività anticolinergica (tachicardia, xerostomia) sono mal tollerati dai soggetti con AP notoriamente farmacofobici. Anche gli inibitori delle monoamino-ossidasi (IMAO) so­no decisamente efficaci, ma le problematiche riguardanti le interazioni farmacologiche, le restrizioni dietetiche, la scarsa reperibilità del prodotto e i numerosi effetti collate­rali riportati anche sulla scheda illustrativa, generalmente letta con molta attenzione da questa tipologia di pazienti, ne limitano l'uso ai casi più resistenti.

Le benzodiazepine, utili nelle fasi iniziali per attenuare la gravità e la frequenza degli AP e per migliorare l'ansia an­ticipatoria, richiedono molta cautela nell'uso per i rischi di abuso e dipendenza che possono comportare. Gli SSRI costituiscono oggi i farmaci di prima scelta nel trattamen­to di questa patologia sia per la loro efficacia sia per la loro tollerabilità: infatti, tutte le linee guida elaborate sia a livello nazionale sia internazionale propongono in prima battuta l'impiego degli SSRI, salvo poi passare ai triciclici o agli IMAO in caso di resistenza al trattamento.

Nonostante la presenza di terapie efficaci, molti pazienti con DP sospendono prematuramente la terapia, a causa della loro farmacofobia e degli altri aspetti fobici comuni in questa patologia (timore degli effetti collateralidi drogarsidi non poter più lasciare il farmaco, di possibili cambia­menti di personalità). È necessario pertanto un approccio rassicurante nel quale vengano comunicate le caratteristiche del disturbo, l'assenza di problemi fisici e organici e il pro­getto terapeutico. Generalmente nella prima fase vengono utilizzati gli SSRI, talora associati alle benzodiazepine, che possono ridurre più rapidamente i livelli d'ansia e rendere più sopportabile l'eventuale sindrome da iperstimolazione (jitteriness syndrome) che può verificarsi durante le prime 2 settimane di trattamento con antidepressivo e che si ca­ratterizza per la comparsa di insonnia, tensione, agitazione, aumento dell'ansia e tremori. In genere, dopo 4-6 settimane, le benzodiazepine possono essere sospese in maniera molto graduale, mentre il farmaco serotoninergico viene continua­to. Raggiunta la dose terapeutica, estremamente variabile da soggetto a soggetto, si valuta l'efficacia sull'intensità e sulla frequenza degli attacchi di panico con tutto il loro corteo sintomatologico e successivamente, dopo 2-4 mesi, inizia la riduzione delle condotte di evitamento e dell'ansia anticipatoria. In caso di resistenza (circa il 30% dei casi) si potrà inserire una terapia con un triciclico, oppure una com­binazione tra un SSRI e un triciclico. In caso di refrattarietà possono essere impiegati gli IMAO o la clomipramina per via endovenosa. Studi di controllo sul follw-up di questo disturbo indicano che la terapia di mantenimento va prose­guita per almeno 12 mesi dalla risoluzione del disturbo, ma in caso di recidive ripetute si deve prendere in considerazio­ne l'opportunità di una terapia di maggiore durata, talvolta anche a tempo indeterminato.

L'approccio psicofarmacologico, nonostante la sua provata efficacia, non sembra comunque in grado da solo di rispondere a tutte le problematiche che il DP presenta: cronici­tàbassa compliancefarmacofobiasensibilità agli effetti collateralivulnerabilità alle ricadute per stimoli stressanti, problemi conflittuali e complicazioni emotive. Le strategie per una cura nel lungo termine chiamano in causa le psico­terapieche consentono un maggiore consolidamento della sola terapia farmacologica. In particolare la terapia cognitiva si focalizza sulle false credenze del paziente cercando di apportare nuove informazioni riguardo alla patologia di base. Le tecniche di rilassamento che cercano di indurre un senso di controllo dell'ansia nei pazienti, l'addestramento respiratorio che consente di acquisire il controllo dell'iper­ventilazione tipica dell'AP, e le tecniche di esposizione in vivo che portano il soggetto a esporsi gradualmente alla situazione temuta fino alla completa desensibilizzazione, so­no altre metodiche applicate che possono arrecare benefici in questo tipo di patologia.

 

 

Data pubblicazione: 15 settembre 2014

1 commenti

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Ex utente
Ex utente

In soldoni non è curabile e si vive nell'inferno per tutta la vita. Almeno questo articolo parla chiaro.

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