Antidepressivi e depressione: alcuni chiarimenti

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Si discute il ruolo degli antidepressivi nella depressione, con focus sul decorso, la resistenza e l'instabilità dell'umore, che possono condurre a scelte diverse o integrative.

Con antidepressivi si intende un gruppo di farmaci che sono utili nel trattamento delle sindromi depressive maggiori e minori. Cerchiamo qui di chiarire qualche concetto di base che aiuti a capire quali sono il potenziale e i limiti di questo tipo di molecole.

Un primo importante limite è il nome. “Antidepressivo” è un nome che richiama alla cura “della depressione” senza specificare ulteriormente, ma le cose non sono così lineari.
Gli studi sono compiuti per la quasi totalità sulla depressione come sindrome e non come malattia.

Diverse malattie neuropsichiatriche comprendono episodi depressivi nel tempo, o al loro esordio, ma proseguono poi con loro precise caratteristiche. Negli studi sugli antidepressivi si tenta di isolare e studiare l'effetto dell'antidepressivo sulla “malattia” depressiva, cioè episodi singoli o ricorrenti di depressione.

La depressione

La depressione “episodio singolo” o la depressione ricorrente sono però diagnosi che nel tempo non sono stabili, perché la comparsa di elementi successivi giustifica spesso il passaggio ad una diagnosi di malattia più precisa. Negli studi non c'è il tempo di verificare questo, perché tipicamente si concludono dopo qualche settimana, e quindi consentono soltanto di stabilire cosa succede a quella depressione a distanza di 1-3 mesi sotto trattamento.

L'evento più tipico è che la depressione, singola o ricorrente, sia arricchita nel tempo da elementi di tipo eccitatorio, con conseguente passaggio ad una diagnosi di sindrome bipolare corrispondente ad un diverso modello di malattia.
Le terapie antidepressive che hanno avuto successo dovrebbero quindi comunque essere controllate dopo un certo periodo, per verificare che vi sia la necessità di “sterzare” la cura verso una diversa concezione.

Non esiste un antidepressivo migliore o più “forte”. Alcuni risultano più rapidi, ma in generale l'effetto di un antidepressivo si giudica al termine del primo mese, a volte con un ritardo di un paio di settimane. Esistono diverse classi di antidepressivi che funzionano meglio o peggio in diversi tipi di depressione. Anche nell'ambito delle depressioni singole, esistono diverse “malattie”, che rispondono a diversi modelli neuro-chimici.

Le persone che sperimentano periodi di umore negativo di solito si pongono il problema di identificare il sintomo “guida” in base a cui darsi un'etichetta, allo scopo di capire da che parte iniziare per risolvere il problema.

Sono un depresso o sono un ansioso?
Sono più depresso o più ansios ?
E' l'ansia che mi dà la depressione o il contrario?

Queste domande partono da un presupposto sbagliato, cioè che il sintomo “umore negativo, basso, malinconico” sia la depressione.

Per “depressione” non si intende invece il sintomo in sé, ma un insieme di sintomi, cioè la “sindrome depressiva”, che significa semplicemente “situazione con vari sintomi tra cui umore depresso”. Anche la “sindrome depressiva” può corrispondere a più tipi di malattia, quindi non c'è da stupirsi se un amico o conoscente che dice di soffrire di depressione assume cure totalmente diverse o ha poi comportamenti totalmente diversi.

Nelle “sindromi depressive” c'è tipicamente anche l'ansia, quindi non c'è contraddizione o contrapposizione, né i sintomi si richiamano l'uno con l'altro. I due tipi di sintomi sono talmente spesso insieme che spesso si parla di una “sindrome ansioso-depressiva” che è un'entità molto provvisoria, che alla fine può corrispondere a malattie completamente diverse, o costituire soltanto una parte del quadro clinico, quello che il malato identifica come nucleo della sua sofferenza.

Come funzionano gli antidepressivi

Gli antidepressivi producono una risposta nell'arco di un mese circa, mediamente. Risposta significa, in senso tecnico, miglioramento complessivo di oltre il 50% (se si dovesse dare un punteggio ad ogni sintomo, per esempio da 0 a 10, e poi fare il confronto dopo 1 mese). Dopo un mese di terapia quindi non c'è da attendersi sempre un miglioramento totale, e non c'è niente di strano se il miglioramento è consistente, ma non completo. Il trattamento infatti prosegue dopo l'ottenimento della risposta, non c'è un meccanismo a scatto in cui si annulla la depressione e la terapia è conclusa. Le terapie durano sempre molte settimane dopo un miglioramento iniziale.

D'altro canto, non ha senso invece la prosecuzione di terapie se non si è ottenuta la risposta in un tempo di 2-3 mesi. Di solito in questo caso la cura si mofidica, aumentando le dosi o cambiando farmaco. La risposta all'antidepressivo consiste nell'attenuazione o scomparsa dei sintomi, così come sono previsti per la diagnosi: il fatto che l'umore sia comunque ogni tanto negativo, anche se mai come prima, non è quindi necessariamente un elemento su cui “insistere” con la cura, poiché nella persona non depressa l'umore non è sempre buono, e oscilla con gli eventi esterni entro certi limiti.

Sentirsi meglio “subito” con l'antidepressivo, cioè fin dai primi giorni, è un effetto inaffidabile, perché di solito non è stabile. Anche se alcuni farmaci tendono a produrre risposte più rapide, sentirsi benissimo dopo soltanto una settimana di cura, come se la depressione fosse “scomparsa” non è un buon segno. Questo tipo di risposta deve anzi far sospettare che la diagnosi vera non sia quella di depressione semplice, ma di disturbo bipolare.

Diversamente, nelle prime settimane la risposta può essere “intermittente”, cioè si fanno alcuni giorni di benessere maggiore, magari quasi accettabile già dalla prima settimana, ma poi si ritorna indietro. In realtà questo decorso è previsto, l'importante è che non vi siano nell'immediato miglioramenti miracolosi o euforia, il che significherebbe che l'antidepressivo non è un farmaco dall'effetto stabile e benefico per quella persona.

Si intenda, la depressione in sé, misurando i sintomi a 1 mese, risulterebbe comunque migliorata, ma nel tempo l'umore puà divenire instabile, si possono avere ricadute frequenti anche con l'antidepressivo addosso, non rispondere più allo stesso antidepressivo anche a dosi maggiore o riassumendolo durante la ricaduta.

Persone che hanno assunto antidepressivi per anni o ripetutamente per periodi più o meno lunghi possono quindi, paradossalmente, avere avuto più episodi depressivi di chi non li aveva assunti, Questo non cambia l'effetto antidepressivo iniziale, ma cambia il decorso, e a volte in senso peggiorativo. Nello specifico, questo paradosso si deve al fatto che gran parte delle depressioni trattate inizialmente come tali rientravano però nel decorso di una malattia bipolare (depressione e eccitazione alternate) in cui l'antidepressivo ha un po' l'effetto di accelerare in auto lungo una strada con dossi e cunette. L'energia dell'accelerazione c'è, ma si distribuisce in sbalzi in su e giù, anziché far progredire.

Alcune depressioni sono brevi, cioè durano solo 2 settimane o un mese. Ovviamente in questi casi la terapia antidepressiva ha poco senso, visto che funziona dopo 1 mese. Le persone spesso hanno iniziato a prendere antidepressivi perché si sentivano meglio dopo pochi giorni, e quindi in realtà risolvevano l'episodio subito. Nel tempo però questa risposta peggiora o si verifica il fenomeno descritto appena sopra.

Il termine “depressione bipolare” è molto utilizzato, e comprensibile ai malati perché la diagnosi iniziale era quella di depressione, poi modificata in bipolare. Oppure, la diagnosi avviene in occasione di un episodio depressivo, e quindi per far capire alla persona si usa il termine depresione con questa qualità aggiuntiva “bipolare”. Anche nei manuali di solito i capitoli sulla depressione riportano prima la depressione semplice (unipolare) e poi quella bipolare. Questa visione è però limitata. In realtà si dovrebbe parlare di disturbo bipolare, e non di depressione, perché questo disturbo (bipolare) è proprio diverso in termini di decorso, di risposta alle terapie, di tipo di priorità e di vissuto che ha il malato, e di percorsi riabilitativi quando ce n'è la necessità.

Con un po' di esperienza di può distinguere senza altri elementi se una depressione in corso è unipolare e bipolare, ma i migliori elementi di giudizio in realtà li danno la storia psichaitrica familiare, le eventuali precedenti terapie e la risposta che c'è stata, e il tipo di biografia della persona.

La depressione bipolare o meglio il disturbo bipolare può essere prevenuta, talora trattata, con l'uso di farmaci che non hanno l'etichetta di antidepressivi, ma che sono appunti anti-bipolari, o stabilizzanti dell'umore.

E gli eventi esterni sono importanti?

Questa domanda è già malposta. Mano a mano che gli episodi di ripetono, iniziano sempre con ragioni più deboli, o senza ragione.

Lo stesso però può accadere fin dall'inizio, anche se magari si è spinti a ricercare nel passato recente qualche ragione che giustifichi secondo logica la depressione. Si trovano tipicamente tante ragioni possibili, ma per l'umore depresso, come esperienza comune di vita, mentre la depressione andrebbe concepita come disturbo che poco ha a che vedere con una normale reazione di demoralizzazione. Le esperienze come il lutto, ad esempio, non sono tipicamente associate a depressione, altrimenti il 100% delle persone avrebbe un episodio depressivo nel corso della vita.

Alcuni utilizzano espressioni come “depressione endogena” o “depressione esogena” o “reattiva”, per indicare che alcune forme vengono “da sole”, altre dopo eventi stressanti.

In realtà, il fatto che quegli eventi siano stressanti è riferito dalla persona con il punto di vista della depressione in atto, oppure dall'esaminatore per un giudizio di analogia con le persone non depresse (cioè una logica della demoralizzazione comune, e non della depressione). Ragioni come una recente malattia infettiva, o un abuso di sostanze euforizzanti, sono “ragioni” molto più direttamente comprensibili come fonte di depressione che non eventi di cui spesso non si ha una traduzione “biologica” e che sono ampiamente soggettivi. Alcune persone, in risposta a eventi negativi come una bocciatura a scuola o un lutto, sviluppano invece fasi euforiche. Non esiste quindi una logica così semplice.

Di fatto, è sulla base dei sintomi e non dei motivi che si basa la terapia. C'è anche da dire che una persona, in base a sue caratteristiche di personalità, tenderà a ritrovarsi in condizioni simili a quelle che ha già vissuto, a scegliere rischi e stress simili e quindi per la stessa persona il peso e il tipo di eventi ambientali spesso va considerato come una “costante”.

Alcuni antidepressivi sono particolarmente adatti a tollerare il cosiddetto “stress”, cioè lo sforzo legato alla necessità di non retrocedere socialmente o individualmente, o di guadagnare minimi benefici in maniera vincolata a risultati o successi di tipo produttivo, cioè non tradire le aspettative.

Inoltre, alcuni antidepressivi sono utili nel tamponare reazioni fisiologiche di rabbia, angoscia e demoralizzazione rispetto a circostanze sfavorevoli, ostili o di perdita. Questa proprietà modifica radicalmente la percezione che le persone hanno delle ragioni che hanno condotto alla depressione stessa, perché con la terapia riescono a sostenere livelli di stress e di richieste ambientali superiori, magari prima impensabili, senza accusare sintomi depressivi.

Effetti collaterali degli antidepressivi

Non esiste una dipendenza da antidepressivi nel senso della tossicodipendenza. Tavolta esiste una sindrome da sospensione, che però non motiva le persone a continuare l'assunzione a lungo termine, visto che in generale le persone, anche se hanno avuto benefici significativi e insperati, non gradiscono l'idea di prendere medicine a lungo o per la vita.

Esiste però una condizione che non ha niente di patologico, ma viene percepita come un “legame” innaturale con gli antidepressivi, e cioè il fatto che tutte le volte che si sospendono i sintomi tornano a farsi vivi dopo un po' cosicché le persone li riassumono o li proseguono stando bene, ma con un fastidio rispetto a questa “dipendenza” dalla terapia.

Una verità è che le terapie permettono alle persone di “fare” di più e quindi di essere esposti a più stimoli, alcuni dei quali stressanti: essere abituati a funzionare bene significa anche non potersi permettere più un funzionamento a tratti inferiore.

A volte però le persone perdono di vista il fatto che nel bilancio generale della vita gli eventi stressanti devono valere qualcosa in termini di tornaconto nella gratificazione o nell'appagamento, altrimenti sono solo “voci negative di bilancio”, a cui l'antidepressivo fa da contrappeso ma senza un reale guadagno nella qualità di vita.
Come dire: "con l'antidepressivo sopporto quel che non mi sta bene, senza no; ma alla fine non mi sta bene lo stesso".

In questa discussione non ci siamo soffermati sulle differenze tecniche tra le varie molecole, perché in realtà non è questo l'aspetto più interessante della questione, specie per i pazienti. Se esistano antidepressivi “naturali”, cioè non farmacologici, è questione interessante ma poco studiata. Tenete presente che la maggior parte degli interventi psicologici messi a disposizione dei depressi sono concepiti come se non si trattasse di depressi ma di persone che hanno “un momento di sconforto”.

A partire dal classico “tirati su” e “reagisci”, fino alle vacanze antidepressive al seguito dei familiari, questi interventi che non tengono conto della natura neurologica della depressione sono buchi nell'acqua.

Esistono invece antidepressivi “psicoterapici”, cioè tecniche utili al miglioramento dei sintomi, specie nella fase “riabilitativa” della depressione, o nell'aiutare ad attendere la fine di episodi brevi che non hanno possibilità di migliore trattamento, limitando alcuni tipi di sofferenza o di problemi ambientali.

Data pubblicazione: 17 novembre 2010

Autore

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1999 presso Università di Pisa.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Pisa tesserino n° 4355.

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