Dolore acuto e dolore cronico: anche la testa gioca il suo ruolo!

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Il dolore è un’esperienza universale, immediata, frequente e talvolta invalidante. Dagli anni ’70 in poi è andato affermandosi l’approccio biopsicosociale che ne ha messo in risalto gli aspetti psicologici e sociali. Il sistema sanitario sta incentivando la diffusione di 'Ospedali senza dolore' ed ‘Hospice’ in tutta Italia per promuovere la cultura della cura del dolore mediante un approccio multidimensionale, che consideri non soltanto la malattia ma la persona del malato.

Il dolore è un’esperienza universale, immediata, frequente e talvolta invalidante; un’esperienza così comune e diffusa è però tutt’oggi ancora poco conosciuta e trattata.

Già Aristotele riteneva il dolore “una qualità dell’anima”, proprio come la depressione e l’ansia, e dagli anni ’70 in poi è andato affermandosi l’approccio biopsicosociale che ha messo in risalto gli aspetti psicologici e sociali. L'entità della diffusione del dolore cronico rende questo argomento di estrema importanza nell’ambito della sanità.

Il sistema sanitario sta incentivando la diffusione di 'Ospedali senza dolore' ed ‘Hospice’ in tutta Italia per promuovere la cultura della cura del dolore mediante un approccio multidimensionale, che consideri non soltanto la malattia ma la persona del malato.

Il dolore può essere di tipo acuto o cronico, entrambi vanno inquadrati secondo il medesimo approccio.

 

Dolore acuto

Il dolore acuto è generalmente di breve durata  e produce reazioni di difesa e di protezione che comprendono:

•  alterazioni dell'umore (depressione, ansietà, paura);
•  atteggiamenti clinici, postura, espressioni verbali;
•  modificazioni del Sistema Nervoso Autonomo (alterazione della frequenza cardiaca, pressione arteriosa, resistenza elettrica cutanea, nausea, vomito, sudorazione).

Dopo questa fase esso diviene causa di manifestazioni abnormi e deleterie per l'individuo (dolore infartuale, post-operatorio, post-partum). Normalmente tende a regredire con la guarigione e/o l’allontanamento dello stimolo nocivo, a meno che la presenza di alcuni fattori di tipo psico-sociale non favoriscano la sua cronicizzazione.

Sebbene gli stati emozionali possano amplificare l’intensità del dolore, che a sua volta può produrre intensi disagi emotivi con una reazione a catena, il dolore acuto non è mai determinato, salvo rare eccezioni, da componenti primariamente psichiche od ambientali.

Esempi di dolore acuto sono:

Il dolore da parto. La distensione della cervice e la contrazione dell'utero sono dolorose ed è stato ben documentato che il dolore della contrazione uterina può provocare una risposta neuroendocrina generalizzata allo stress, che si è visto avere effetti nocivi sul sistema cardio-vascolare e sull'equilibrio acido-base del feto. Il dolore intenso può produrre anche disturbi emotivi gravi a lungo termine nella donna, che possono compromettere la sua salute mentale influenzando negativamente la relazione con il figlio sin dalla nascita. Dunque l'ansia, il dolore e il travaglio sono forme di stress che possono essere dannose per il feto e il parto, e per la salute mentale della madre stessa; da qui la necessità di intervenire sulla normale risposta dell'organismo del dolore da parto, anche mediante trattamenti psicologici oltre che tramite anestesia.

- Il dolore oncologico. Si stima che un terzo dei pazienti affetti da tumore avrà dolore: anche se potrebbe essere ben controllato nel 90% dei casi, esso è tuttora scarsamente trattato. Nel paziente neoplastico un dolore acuto è di solito in relazione a una manovra diagnostica o terapeutica. Le sindromi dolorose acute più comuni sono dovute a tali trattamenti: protesi e drenaggi, tecniche particolari di chemioterapia, chemioterapia, ormonoterapia, immunoterapia e radioterapia. Tipico è anche il dolore acuto post-chirurgico per dissezione o amputazione di organi o tessuti. Queste sindromi, anche se sono di solito di durata limitata, a volte possono diventare croniche.

 

Dolore cronico

"Il dolore cronico è quello che si mantiene oltre il tempo normale di guarigione" (John J. Bonica, 1953).

Se un dolore acuto per lungo tempo rimane invariato e/o se le condizioni socio-psicologiche sono alterate, esso si trasforma in dolore cronico. Bisogna evidenziare che, se nel dolore acuto i meccanismi cellulari sono alquanto semplici nella loro dinamica, nel dolore cronico invece meccanismi di sensibilizzazione periferica e centrale alterano i meccanismi percettivi creando una condizione percettiva "differente", tale che alcuni bassi stimoli algici vengano interpretati come dolorosi (iperalgesia), oppure stimoli normalmente non dolorosi vengono interpretati come dolorosi (allodinia). Nel dolore cronico gli effetti della plasticità si mantengono ben oltre il tempo di durata degli stimoli stessi, trasformando il dolore in una malattia (non più un sintomo). L'inutilità, la differenza, la ridondanza ed il potenziamento delle risposte caratterizzano l'alterazione della trasmissione-integrazione dell'informazione dolore.

Ci si può difendere dallo stimolo acuto, tentando di distanziarci da esso o dagli stimoli che lo provocano, ma "...quando si tratta di dolori cronici o interni, non c'è una cosa da prendere in considerazione o da evitare. Il dolore ci travolge. Non possiamo inserire una distanza psicologica tra noi e il male, e non subiamo semplicemente delle minacce ma ne siamo invasi e posseduti. Non si tratta più di avere un corpo che ha una parte dolorante, ma noi siamo un corpo che è quasi interamente dolore" (Sternbach, 1968).

Il 19% delle popolazione europea soffre di dolore cronico e, di questa, il 6% lamenta un dolore severo: è quanto emerge da uno dei principali studi europei sul tema, realizzato nel 2005, mediante sondaggi telefonici su un campione di 46mila cittadini di 16 paesi europei. Nell’ambito di questa indagine l’Italia, con una percentuale del 26%, si è collocata al terzo posto in Europa per numero di pazienti affetti da dolore cronico, preceduta solo da Norvegia (30%) e Polonia (27%).

Il dolore cronico può essere causato da processi patologici cronici che coinvolgono strutture somatiche, da una disfunzione di alcune parti del sistema nervoso periferico o centrale, da fattori psicologici e/o ambientali.

Come evidenziato da Hendler (1979) i pazienti con dolore cronico possono essere:

- soggetti che non hanno manifestato problemi psicologici o sociali antecedenti alla comparsa di dolore, la cui eziologia dunque è prettamente organica;

- pazienti con dolore non definibile organicamente, in assenza di disturbi psicologici antecedenti;

- individui con problematiche psicologiche precedenti all'esordio di dolore e per i quali le lesioni organiche, sebbene conosciute e identificate, non giustificano l'intensità del dolore;

- pazienti che presentavano, ancor prima dell'insorgenza della sindrome dolorosa, problemi di natura psichiatrica, per cui il dolore ha cause organiche.

Bisogna sottolineare che anche quando il dolore ha una base organica, i fattori psicologici influenzano costantemente qualità, durata e intensità dell'esperienza dolorosa.

Viene fatta inoltre una distinzione tra dolore cronico benigno (non oncologico), causato cioè da diversi tipi di lesioni, traumi o malattie (es. fibromialgia), e maligno (oncologico).

 

Variabilità individuale e fattori di rischio

I meccanismi di percezione del dolore sono tutt’altro che semplici, in quanto bisogna considerare il contributo di caratteristiche quali: paura, ansia, depressione, personalità del paziente, background culturale, apprendimento, locus of control, aspettative sull’esperienza dolorosa, suggestionabilità.

Ansia, depressione, aggressività sono fattori direttamente associati all’intensità di dolore provato dai pazienti e alla sua cronicità. Alcuni studi hanno rilevato che l’ansia come tratto di personalità del soggetto non è correlata direttamente con il dolore acuto (per esempio post-operatorio), ma innesca un complesso meccanismo di predisposizione a provare dolore e ansia di stato. La percezione della gravità dell’evento negativo è infatti alterata in quegli individui con predisposizione ad essere ansiosi, il che va ad incidere sul livello di intensità di dolore provato. In un'altra ricerca fatta nel 2004, Mc Williams e colleghi hanno rilevato che la depressione risulta essere correlata significativamente con tre sindromi di dolore cronico prese in esame (emicrania, artrite, lombalgia), ma i disturbi d'ansia lo sono in misura ancora maggiore.

Il rapporto tra depressione e dolore cronico è alquanto complesso e coinvolge numerosi fattori di ordine diverso. Diversi studi hanno dimostrato che il tasso di depressione in questi pazienti è più elevato rispetto ai pazienti di medicina generale e di quelli ricoverati per altre motivazioni, nonostante le differenze di incidenza nelle varie tipologie di dolore cronico benigno (il dolore facciale localizzato è associato in minor grado alla depressione rispetto al dolore per lombalgia cronica). Inoltre l'incidenza della depressione è maggiore tra le femmine rispetto che tra i maschi. E’ stato anche affermato da alcuni autori come i pazienti con dolore cronico spesso soffrano della cosiddetta depressione ‘mascherata' (diagnosi la cui validità è attualmente al centro di accesi di dibattiti) caratterizzata dalla presenza di sintomi somatici senza alterazioni dell'umore o comportamentali tipici della depressione; purtroppo in questi casi spesso la depressione è di difficile riconoscimento.

Secondo studi recenti esisterebbe una relazione diretta anche tra dolore acuto e depressione. Ad esempio Arpino et al. nel 2004 hanno dimostrato come i sintomi depressivi avessero un certo peso nei pazienti con ernia al disco: la depressione in fase preoperatoria è risultata essere un fattore importante e influente sullo stato di salute dopo l’intervento.

La rabbia è un altro stato affettivo che può essere correlato al dolore acuto ed è stato scoperto che, in base agli stili di inibizione dell’aggressività di un paziente, si può predire l’intensità del dolore percepito. La repressione dell’aggressività è stata anche connessa alla depressione, in particolar modo in pazienti con dolore. La rabbia è un' emozione molto frequente anche in pazienti che presentano dolore cronico; questi riferiscono di essere frequentemente arrabbiati senza motivi precisi verso se stessi, gli altri e la loro stessa situazione di vita. Spesso il paziente con dolore cronico tende a reprimere l’ira, inibendola o negandola, poiché teme le conseguenze che una sua libera espressione possa avere per sé e per gli altri e di subire rimorsi e sensi di colpa. Tali soggetti tenderebbero ad internalizzare la loro rabbia e ad esprimerla mediante il dolore.

Inoltre Perry et al. (1994) in seguito ad una ricerca fatta su pazienti con dolore acuto, conclusero che coloro che presentano un’aspettativa elevata di dolore e quindi una forte paura, riportano in seguito un maggior livello di intensità del dolore stesso. La paura del paziente con dolore cronico invece non è solo relativa al dolore stesso, ma anche alla sua capacità di compromettere tutti i settori della sua vita. Secondo Ercolani e Pasquini (2007) il paziente teme in particolare che il dolore possa comportare: un’invasione della coscienza che interferisca con il normale funzionamento cognitivo, una disabilità cronica e una compromissione delle prestazioni individuali.
Il paziente inoltre potrebbe manifestare paura e ansia relative all'interazione con l'ambiente sociale e lavorativo che riguarda la mancanza di scelta e di libertà e potrebbe temere che l'esperienza del dolore causi una spaccatura biografica interferendo con tutti i suoi progetti e obiettivi, cambiando la prospettiva di se stesso nel passato e nel futuro (la percezione di diventare vecchi prima del tempo fa nascere la paura di diventare disabile e aumenta il disagio emotivo).

Mc Cracken (2004) individua tipologie di risposta diverse alla paura del dolore:

 

  • riduzione dell'attività fisica e della vita sociale con conseguente depressione
  • sintomi, lamentele continue e ricerca di aiuto con perdita di responsabilità e di senso di successo personale
  • continuo ricorso a cure mediche e conseguente rinforzo del ruolo di malato
  • espressioni facciali, gesti e posture che esprimono ansia che scoraggiano gli altri ad avvicinarsi al paziente
  • ansia e tentativi di controllo della situazione inutili e dispendiosi
  • paura e pensieri catastrofici
  • attivazione fisiologica con conseguente stanchezza, disagio fisico, ipervigilanza e ricorso massiccio alle cure sanitarie.

 

L’ipervigilanza, definita da Chapman nel 1978 “una costante e attenta analisi delle sensazioni somatiche e dolorose del proprio corpo”, come abbiamo accennato è una caratteristica costante nei pazienti con dolore cronico. Così come, nel caso del dolore acuto, l’attenzione aumenta la sensibilità al dolore attraverso un orientamento selettivo dei recettori sensoriali verso un unico stimolo.

Importanti per valutare la reazione al dolore acuto, è anche il Locus of control (Rotter 1966): uno stile attribuzionale che si sviluppa tra due polarità: interno ed esterno. L’attribuzione interna o esterna della causa e del controllo del dolore, condizionano molto l’esperienza del dolore stesso, l’evoluzione prognostica e la risposta terapeutica; è stato dimostrato che pazienti con locus of control interno più elevato (i quali credono che gli eventi rinforzanti siano dipendenti dal proprio comportamento più che da fattori come il destino, la fortuna, Dio o il potere di altri) tollerano più facilmente il loro dolore e aderiscono meglio al trattamento.

E’ risultato anche importante considerare il modello di valutazione cognitiva individuale che determina il modo di vivere e reagire allo stress. Più precisamente si parla di modalità di coping in riferimento ai pensieri e comportamenti a cui le persone ricorrono per gestire le situazioni stressanti tra cui, in particolare, l’esperienza del dolore. Esistono delle differenze individuali nell’utilizzo di tali modalità: i pazienti possono ad esempio ricorrere alla negazione (ovvero interpretare diversamente la situazione senza cambiarla), cercare informazioni sull’evento stesso, evitare, modificare o minimizzare l’impatto di una situazione (riducendo perciò il grado per il quale è valutato come stressante). Alcuni studi hanno rilevato che lo stile di coping di tipo evitante è correlato in modo diretto con l’intensità del dolore acuto post-operatorio.

Anche il mancato apprendimento di strategie specifiche rispetto alle stimolazioni nocicettive e alla difficoltà nel discriminare fra i pericoli importanti e quelli meno importanti, incide pesantemente sulla percezione del dolore. I tre modelli essenziali dell’apprendimento spiegano queste assunzioni in modo sperimentale; ad esempio, nel dolore acuto sono molto frequenti gli apprendimenti determinati da un condizionamento classico, mentre il paradigma del Condizionamento Oprante, che si basa sul concetto del rinforzo, ha trovato una vasta applicazione nella diagnosi e nella terapia del dolore cronico benigno ed è alla base del trattamento multidisciplinare nelle Pain Clinics.

L’osservazione del comportamento da dolore espresso da altre persone (modeling), poi, ha importanti implicazioni nel trattamento del dolore acuto: se ad esempio la sala da attesa dell’ambulatorio è molto vicina al luogo preciso in cui vengono poste in atto medicazioni o trattamenti dolorosi, il paziente può apprendere la risposta al dolore semplicemente per modellamento delle risposte verbali o uditive di altri che stanno sperimentando il dolore.

Da quanto riportato dunque, ai fini di un intervento teso a favorire  il benessere psico-fisico dei pazienti con dolore,  risulta di fondamentale importanza una valutazione psicologica approfondita ed un trattamento psicologico o psicoterapeutico adeguato ai casi specifici.

Data pubblicazione: 04 marzo 2013