Il disturbo di panico ed il rapporto con la paura: l’importanza delle emozioni

francesco.mori
Dr. Francesco Mori Psicologo, Psicoterapeuta

Quale è la funzione della paura negli attacchi di panico? Come è possibile gestirla? Proviamo ad approfondire il tema della gestione delle emozioni

Nel disturbo di panico vi è un attacco improvviso, e spesso inspiegabile, caratterizzato da una serie di sintomi impressionanti. Attualmente i manuali diagnostici (DSM IV-TR) definiscono l’attacco di panico come un periodo di paura intenso in cui una successione di sintomi (palpitazione, sudorazione, tremore, asfissia, nausea, derealizzazione, depersonalizzazione, paura di perdere il controllo e di morire) si verificano improvvisamente raggiungendo l’apice in 10 minuti per poi attenuarsi progressivamente.

Ciò che caratterizza il disturbo è la presenza di attacchi inaspettati e ricorrenti, che si associa al timore di averne altri, che a sua volta provoca un restringimento delle attività che la persona si sente in grado di realizzare.

In circa un terzo dei disturbi di panico tale restringimento diviene estremo; in questo caso si parla di disturbo di panico con agorafobia. Con questo termine facciamo riferimento ad un insieme di paure che hanno principalmente per oggetto i luoghi pubblici e frequentati, dai quali sarebbe difficoltoso, imbarazzante, improbabile, ricevere aiuto o allontanarsi in caso di attacco di panico. Molti pazienti che presentano questa aggravante del disturbo sono incapaci di allontanarsi dalla loro casa o lo fanno solo se accompagnati, innescando un meccanismo di evitamento che si consolida e generalizza.

La diffusione di questa patologia è elevata, coinvolge circa il 10% della popolazione con una prevalenza nell’esordio per soggetti in età adolescenziale (17-22 anni) e di sesso femminile.

Per comprendere meglio il disturbo è fondamentale affrontare il tema connesso ad una delle principali emozioni che vi sono legate, la paura

 

La funzione della paura, un’emozione protettiva

Non è sensato occuparsi di attacchi di panico senza prima avere chiarito quali siano le funzioni della paura. Solo dopo è possibile cogliere gli attacchi di panico in una prospettiva chiara e utilizzabile. In questo paragrafo cercherò di puntualizzare quali siano le funzioni della paura, lasciando sullo sfondo la clinica, la psicodinamica e la terapia degli attacchi di panico, aspetti di cui ci occuperemo nelle parti successive dell’articolo.

Generalmente la paura non gode di buona reputazione. È sentita come un ostacolo, come un accadimento psichico negativo. Sentiamo parlare di persone "attanagliate" dalla paura; di persone "prigioniere", che dovrebbero "liberarsi" delle loro paure; di persone ammirate perché impegnate a "vincere" o a "superare" la paura. Ed è frequente che chi ricorre alla psicoterapia abbia l'aspettativa di essere, appunto, "liberato" dalle proprie paure o, addirittura, dalle emozioni in quanto tali.

Le emozioni e, nello specifico, la paura, come ogni altro strumento che ci viene dato in dotazione dalla biologia ha un valore potenzialmente adattivo. La paura in sostanza ci permette di affrontare un pericolo, un evento nocivo, al meglio delle nostre possibilità. Attraverso questa esperienza emozionale, infatti, il corpo si prepara all’azione, i muscoli vanno in tensione, il respiro si accelera, così come il battito cardiaco.

Le razioni alla paura sono fondamentalmente di quattro tipi:

  • la fuga, sovente è il modo più efficace, almeno nell'immediato. Può realizzarsi con la pura velocità, con l'agilità e l'astuzia, col cambiamento di mezzo (il volo in aria, il tuffo in acqua), ma anche con il nascondimento. Anche sul piano psicologico, relazionale e sociale, la fuga è un modo efficace e rispettabilissimo. Anche qui, essa può realizzarsi per mezzo della velocità, dell'astuzia, del cambiamento di ambiente e del nascondimento.
  • l’attacco, è efficace soltanto se le forze sono impari e vantaggiose per il soggetto. Può realizzarsi con la forza fisica agita o anche solo minacciata ma anche con l'aggressione su piani simbolici, quali l'umiliazione. Può essere attuata anche attraverso l'attivazione di alleati più forti ("Lo dico a mio fratello!"), o concordemente deputati all'esercizio della violenza ("Lo dico alla maestra!").
  • l’immobilità, nel tentativo di riuscire a passare inosservato, magari mimetizzandosi. È efficace solo se riesce a distogliere l'aggressore dai propri intenti. Può realizzarsi volontariamente, o involontariamente, come nello svenimento. L'animale ferito ha più probabilità di sopravvive se sviene, perché l'abbassamento della pressione arteriosa limita la perdita di sangue per emorragia. Il predatore, poi, se non è particolarmente affamato, può perdere l'interesse verso un corpo inerte, o può considerarlo una preda già catturata e gettarsi contro altre possibili prede in fuga. Questo tipo di reazione al pericolo può essere considerato a volte come una specie di "fuga" estremamente specifica (il mimetismo, per esempio), e a volte come una azione specifica distraente sull'aggressore (fargli perdere interesse). Nelle situazioni relazionali e sociali spesso viene suggerito ("Fa finta di niente, e vedrai che la smettono!"), e spesso viene adottata, con l'assunzione di atteggiamenti più o meno "autistici" o compiacenti.
  • il patteggiamento, é efficace solo se si ha la forza di far rispettare i patti (per esempio: due animali che marcano territori limitrofi). Può realizzarsi solo se viene riconosciuta una convenienza condivisa, che può realizzarsi sia come evitamento o limitazione di un danno (per esempio, per una reciproca non aggressione) sia come reciproco vantaggio (per esempio: garanzia dell'esclusività dei territori alimentari). Sui piani psicologico (nella gestione e nell'integrazione dei vari differenti aspetti del Sé), relazionale e sociale, questo modo dovrebbe, col tempo, progressivamente arrivare a prevalere su tutti gli altri.

 

Quelle elencate sono, in sostanza, le reazioni possibili alla paura. Vedremo come negli attacchi di panico prevalga essenzialmente la fuga e l’immobilismo.

Ma a che cosa serve la paura? Perché siamo stati dotati di un’emozione tanto potente?
In parte abbiamo risposto a questa domanda dicendo che essa ci “informa” di un pericolo e ci “prepara” biologicamente ad affrontarlo; ma oltre a queste funzioni “individuali”, la paura ha un importante mansione sociale e collettiva. Infatti la paura provata dal singolo comunica anche ai membri della comunità una possibile minaccia, consentendo al gruppo di preparasi per affrontarla o di aiutare e proteggere la persona impaurita. E’ una sorta di segnale di allarme che chiama all’unità. La paura è coesiva. Instillate una qualche paura in un gruppo e questo si compatterà come un sol uomo.

Non ci stupisce, data proprio l’importanza di questa emozione, che essa sia sopravvissuta a migliaia e migliaia di anni di evoluzione e sia riconoscibile in modo transculturale in tutti e da tutti i gruppi sociali appartenenti a qualsiasi area geografica.

Per concludere questa ricognizione sulla paura e le sue funzioni, dobbiamo riconoscere che la paura è un'emozione vitale, assolutamente indispensabile. Chi non ha avuto paura una volta, potrebbe non averne mai più bisogno... La paura, come ogni altra emozione, deve essere accolta, con attenzione e con rispetto, osservata e utilizzata per quello che è. Decisiva, per l'efficacia dell'esercizio delle sue specifiche funzioni, è la gestione della paura.

Dalla gestione della paura deriva gran parte degli elementi dell'esperienza determinanti benessere o malessere, psichico e relazionale, come si può vedere bene, per esempio, negli attacchi di panico. E anche quando la paura sembra sovrastarci, non è la paura da rifuggire. Sarebbe come se uno, all'accendersi di una spia sul cruscotto dell'automobile, si mettesse a urlare e scappasse via a più non posso. O implorasse il meccanico di estirpare quella spia luminosa; o chiedesse a un allenatore di aiutarlo a temprare il proprio carattere, fino al punto da riuscire a sopportare l'accensione della spia luminosa come se niente fosse.

Insensatezze, certo, che però, oltre a essere talvolta perseguite dai pazienti, dai loro parenti e dagli educatori, vengono patrocinate dagli stessi terapeuti più spesso di quanto non si immagini, quando, per esempio, suggeriscono di non dare importanza, di non dare ascolto all'ansia, alla paura o all'angoscia. Bisogna, invece, cercare di sapere che cosa segnala l'accendersi di quella spia; e poi, conseguentemente, valutare il da farsi più adeguato.

Conclusa questa breve rassegna sulla paura, come emozione fondamentale e protettiva del nostro essere nel mondo, vediamo più nel dettaglio la forma che essa assume nel disturbo di panico, partendo dal rapporto che i pazienti hanno con il mondo emozionale.

 

Il rapporto con le emozioni negli attacchi di panico

La più importante delle radici degli attacchi di panico è costituita dall'incapacità di percepire e riconoscere le emozioni, come conseguenza di una specie di "analfabetismo emozionale", che si è strutturato progressivamente nel corso della vita, di pari passo con la strutturazione della propria identità. Il paziente, non riuscendo a riconoscere l'emozione come un evento mentale unitario, percepisce slegate fra loro le singole espressioni fisiche di essa.

È come se percepisse slegate tra loro le tessere di un mosaico. Non possono che apparirgli del tutto prive di senso. Ma il "mosaico", che lui non riesce a integrare, e di cui non ha consapevolezza perché neppure lo percepisce, non è esterno a lui. Lo riguarda direttamente. È dentro di lui. Sensazioni, quindi, fortissime e insensate. È allora un tentativo di integrazione quello che il paziente fa, quando cerca di ricomporre le tessere "insensate", trattandole come fossero "sintomi" di qualche malattia biologica.

Non è un caso che uno dei primi luoghi che “accoglie” questi soggetti sia il pronto soccorso di un ospedale ed il primo professionista a cui si rivolgono sia il medico, mettendosi alla ricerca “del pezzo biologico mal funzionante”. Si tratta dell'attivazione di una intelligenza. Che però sbaglia. L'errore sta nel fatto che (almeno "localmente", in quella specifica esperienza) non è disponibile una intelligenza emotiva, ma soltanto un pensiero analitico, che si mette a osservare "dall'esterno", alla lontana, e che quindi si muove come fosse sordo e cieco verso le emozioni in atto, perché, in questi casi, si attiva in modo disgiunto dallo stesso mondo delle emozioni che gli si presenta.

L'emozione è stata, sì, percepita nelle sue singole componenti, ma non è stata riconosciuta nel suo insieme. Percepita come fosse de-strutturata nelle sue componenti sensoriali, che sono rimaste tra di loro separate.

In quelle condizioni, la cosa più ragionevole che il soggetto, nella nostra cultura, può fare per strutturare una "figura" che si stagli sensata dallo "sfondo" indifferenziato è pensare di essere ammalato di una sconosciuta malattia fulminante. E si allarma, ovviamente. Con i dati al momento a sua disposizione, sta funzionando bene. "Fanno presto a dirmi: 'non è niente'. Vorrei vederli io, cosa farebbero loro al mio posto!", protestano i pazienti contro le pseudorassicurazioni profuse a piene mani da parenti, amici e, purtroppo, spesso anche dai terapeuti.

Non trovando un nesso riconoscibile, il paziente si terrorizza, e, nella prospettiva di una imminente catastrofe, pensa (più precisamente: "sente") come unica risorsa disponibile nell'immediato la fuga dalla situazione ansiogena, e come unica risorsa disponibile per il futuro la prevenzione, attraverso l'evitamento di ogni situazione potenzialmente ansiogena. Per questa strada, progressivamente, il paziente tende a proteggersi e ad evitare ogni situazione vitale, in quanto attivatrice di emozioni, col risultato di impoverire sempre di più la propria esistenza.

 

Come si sviluppa l’analfabetismo emozionale

L'"analfabetismo emozionale" viene attivamente strutturato di solito come conseguenza diretta di una specifica negazione verso certe emozioni, o verso l’intera vita emotiva, da parte della famiglia entro cui l’identità del bambino va strutturandosi.

Se, per esempio, il contesto familiare, in modo sistematico e monotono, non risuona a specifiche emozioni del bambino, egli tenderà a strutturare attivamente e inconsapevolmente una specie di "scissione", di "macchia nera", nelle proprie percezioni emotive. Tenderà, cioè, a vivere tutte le emozioni che le sue esperienze comportano, anche le emozioni negate, ma, progressivamente, perderà la capacità di riconoscerle.

Un altro modo in cui un bambino può attivamente strutturare un "analfabetismo emozionale" è, per esempio, quello conseguente al ritrovarsi sistematicamente abbandonato per ore e ore davanti alla scatola vuota della televisione, che omogeneizza le esperienze, o le svuota sul nascere con le sue piatte finzioni di interattività (tipo: "Ci rivediamo domani!"; "Allegria!"; o suggerendo artificialmente buonumore con le risate fuori campo).

Una volta strutturato, l' "analfabetismo emozionale" creerà un fertile terreno intrapsichico e relazionale per l'instaurarsi del disturbo di attacchi di panico. Alla prima occasione di vita un po' più rilevante per il soggetto, tutto è pronto per un acuto misconoscimento di una qualche emozione.

 

Gestione della paura e delle emozioni, quattro passi fondamentali

Nei paragrafi precedenti, abbiamo visto che una delle più importanti radici degli attacchi di panico è costituita da una incapacità di gestire le emozioni in generale, e l'ansia e la paura in particolare. Spesso le persone non si accorgono di quando, quanto e come esse si attivano nella gestione delle emozioni. Tendono ad accorgersi soltanto del risultato dell'avvenuta gestione, e a darlo per scontato. Colgono l'obiettivo (raggiunto o non raggiunto), ma non il processo.

Provate a chiedere ad un qualche esperto alpinista o guidatore di formula uno se abbia avuto paura nel compiere le sue imprese, non è raro sentirsi rispondere:"Paura? No. Trasformo la paura in concentrazione". Ecco un bell'esempio di gestione della paura, efficacemente attuata e misconosciuta ad un tempo. Certo che aveva paura! Altrimenti, che cosa avrebbe potuto "trasformare"? In quelle situazioni di pericolo estremo, la paura veniva da lui gestita, per l'appunto attraverso la attivazione di una maggiore concentrazione.

Ma la paura c'era, e come se c'era: forte almeno altrettanto della concentrazione. Misconosciuta era la paura e misconosciuta era la sua gestione, dunque. Sono esempi di questo tipo che possono confondere i pazienti che soffrono di attacchi di panico, perché vengono da loro presi alla lettera.

Pensano di essere gli unici ad avere paura, e si sentono ulteriormente umiliati dal confronto con chi sembra muoversi come se non sapesse neppure che la paura esiste. Non sanno gestire la paura, e spesso neanche le altre emozioni; ma non sanno nemmeno che la paura, come ogni altra emozione, può essere gestita. E non sanno neppure vedere la gestione della paura messa in atto dagli altri. Quando si cerca di mostrargliela, si fanno tenacemente diffidenti: credono di essere raggirati da un buonismo consolatorio falsificante.

È chiaro che il primo passo nella gestione della paura, come di ogni altra emozione, è riconoscerla. Il secondo passo, poi, è riconoscerne la sensatezza e la adeguatezza. Il terapeuta deve essere particolarmente accurato nel sostenere e validare le percezioni emotive del paziente, non solo con la propria viva risonanza, ma anche col mostrargli la sensatezza delle sue emozioni, la loro coerenza, la loro correttezza, la loro adeguatezza alla situazione percepita o vissuta.

E se il paziente lamenta che l'emozione attivata è davvero eccessiva, bisogna fargli notare che gli appare eccessiva perché lui vorrebbe che non ci fosse per niente, che fosse "zero". Il paziente deve riscoprire e constatare sistematicamente che "l'emozione ha sempre ragione". Se l'emozione si attiva, ha sempre i suoi bravi motivi. Che magari non comprendono la totalità di ciò che interviene nell'episodio di vita, e che quindi possono essere giustamente integrati con altro, ma che esistono e sono validi. Sempre.

Ai giorni nostri, con tutti gli incidenti aerei che le cronache ci riportano, ha proprio ragione una persona che ha paura di salire su un aeroplano. Ha più ragione chi ha paura, che non chi non ci pensa affatto. Quella paura, che può apparire peregrina, corrisponde esattamente alla paura del vuoto che si attiva in chi si avventura a scalare le Dolomiti. La strutturazione del processo mentale "emozione paura" e la percezione della paura medesima sono del tutto sani. Guai se non si attivassero.

Quello che, in questi casi, non funziona è la gestione dell'emozione paura. Il paziente, giustamente, si sente trattato da stupido, quando si sente sollecitato a non avere paura. E si dà da solo dello stupido, perché sente come irrefrenabile l'attivarsi della sua paura. Come qualsiasi altra emozione, non è da "combattere" la paura. Mai. Né è mai da smentire. È sempre sensata. È da conoscere, la paura. I suoi portati sono da valutare, da integrare con altri dati che la mente già possiede o che può acquisire. Ed è da gestire, questo sì.

Il terzo passo, nella gestione della paura, come di ogni altra emozione, si svolge ancora sempre sul piano conoscitivo, ed è cercare di integrare ciò che la paura ci segnala con ciò che ci segnalano altre vie di conoscenza: percezione, memoria, pensiero, osservazione, sperimentazione, confronto...

Se io, per esempio, so che sono centinaia di migliaia gli aeroplani che volano ogni giorno nei cieli e che, quando ne cadono molti, ne cadono a dir tanto dieci in un anno, posso cercare di integrare questi dati statistici con quelli immediatamente acquisiti attraverso il sistema delle emozioni. È vero che il mio aereo può cadere. È veritiero il mio sistema emotivo, nel segnalarmi il pericolo. Il pericolo è reale. Chi pensasse il pericolo come inesistente, falsificherebbe la realtà e tratterebbe da stupidi noi, che il pericolo lo vediamo, mentre sarebbe lui lo stupido.

Nell'apprestarsi ad affrontare il pericolo, però, potrebbe essere utile considerare anche quanto è probabile che l'evento temuto si realizzi. Questo, sia ben chiaro, non per smentire il mio sistema delle emozioni - che, comunque, come sempre, ha davvero ragione - ma per cercare di utilizzare al meglio quello che tale sistema mi segnala, integrandolo con altri dati. Si tratta di una valorizzazione di me tutto intero e di tutte le mie funzioni.

Una volta acquisiti e integrati tutti i dati conoscitivi a mia disposizione provenienti da ogni fonte, in gioco c'è ancora dell'altro, ed è la necessità, per così dire, di "governare" me stesso e le mie interazioni col mondo. E questo è il quarto passo nella gestione delle emozioni. L’importante in questo caso non è solo considerare l’allarme un elemento importante ma soprattutto evitare di dargli il comando di noi stessi. Una volta segnalato un pericolo, l’”allarme” ha fatto il suo compito e deve rientrare. Quello che diviene fondamentale è come l’individuo la utilizza, avendo, appunto, l’opportunità di trasformarla in una informazione fondamentale per affrontare l’evento che gli si para di fronte.

 

 

Riferimenti bibliografici

  1. Davison, G., C., e Neale, J., Psicologia clinica, (1990), Zanichelli, Bologna.
  2. Gabbard, G, Psichiatria psicodinamica, (2000), Raffaello Cortina Editore, Milano.
  3. Jervis, G., Psicologia dinamica, (2001), Il Mulino, Bologna.

 

 

 

 

Data pubblicazione: 14 ottobre 2013

Autore

francesco.mori
Dr. Francesco Mori Psicologo, Psicoterapeuta

Laureato in Psicologia nel 2007 presso Università di Firenze.
Iscritto all'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana tesserino n° 5257.

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