Un figlio: irrequietezze prolungate, gesti dolci, pigro e intelligente, dislessico e bellissimo

La dislessia, o disturbo specifico di apprendimento di lettura, costituisce l'esemplificazione più significativa dei disturbi specifici di apprendimento (DSA).

Dislessia

La dislessia, o disturbo specifico di apprendimento di lettura, costituisce l'esemplificazione più significativa dei disturbi specifici di apprendimento (DSA), ovvero della condizione in cui, in assenza di altre situazioni sfavorevoli, il bambino presenta un'incapacità ad apprendere a leggere in maniera adeguata. E non solo.

Le caratteristiche più frequentemente riconosciute a questo disturbo includono importanti ritardi anche nella scrittura e nell'ortografia, nonché ribaltamenti di simboli, la confusione di tempo e spazio, la disorganizzazione e le difficoltà di comprensione.

Queste difficoltà possono essere talmente variegate (oggi vi sono oltre settanta nomi per descriverle) che, nonostante la dislessia sia una condizione autogenerata, ogni caso è diverso dall'altro: non esistono due dislessici che abbiano sviluppato il disturbo nello stesso modo, ma tutti i dislessici provano le stesse umiliazioni e frustrazioni, perché tutti sono limitati nella libertà di far lavorare la parola stampata per loro.

Ad oggi non esiste un'unica teoria su cosa sia la dislessia e da cosa venga causata, e la diagnosi è basata sulla verifica di una significativa difficoltà di lettura attraverso più prove standardizzate, e l'esclusione concomitante che su questa difficoltà incidano fattori specifici, quali una disabilità mentale o sensoriale, un problema socio culturale o linguistico, la mancata esposizione a contesti di apprendimento-insegnamento o situazioni psicopatologiche gravi.

Un bambino di 6 anni, dopo essere entrato in prima elementare pieno di entusiasmo, curiosità e voglia di imparare, sperimenta inevitabilmente per molti anni di seguito le sue difficoltà, la frustrazione del desiderio istintivo di imparare, i giudizi negativi da parte di adulti significativi (insegnanti, genitori...), ed il confronto perdente con dei compagni che invece imparano quasi naturalmente quello che la maestra insegna. Tutto questo lo porta spesso ad essere irrequieto, poco socievole, aggressivo, un “bambino difficile”, a volte diagnosticato come un caso di “fobia scolare”, altre di “disturbo psico-affettivo”, nel migliore dei casi come un classico esempio di “inibizione affettiva e intellettiva”.

In realtà questi problemi di comportamento e/o di relazione sono la conseguenza di un disturbo dell'apprendimento, le cui difficoltà determinano inevitabilmente frustrazioni, paure, ansie, inibizioni, aggressività, disorientamento...

Come dovrebbero comportarsi i bambini che stentano ad imparare a leggere, o che commettono molti errori mentre i loro compagni leggono e scrivono meglio di loro? Come dovrebbero reagire sentendo le risatine dei compagni, ogni volta che sono chiamati a leggere in classe ad alta voce?

La diffusa tendenza ad interpretare i disturbi dell'infanzia e dell'adolescenza come disturbi di natura psicologica, derivanti da relazioni distorte tra il bambino e l'ambiente, se da un lato ha certamente un suo fondamento, dall'altro trascura le informazioni scientifiche sui disturbi specifici dell'apprendimento, portando a gravi errori diagnostici, spesso difficili da correggere, in cui gli effetti della disabilità si scambiano per le cause, e di conseguenza si propone una risposta terapeutica impropria.

Una difficoltà cognitiva conduce facilmente ad insuccessi scolastici. Questi, a loro volta, determinano spesso reazioni negative da parte degli adulti, attribuzioni intrinseche di incapacità, diminuzione dell'autostima e della motivazione ad apprendere da parte dell'alunno, comparsa di comportamenti di evitamento del compito e di reazioni di passività e aggressività.

I bambini in difficoltà credono di essere stupidi, perché non riescono a fare cose che ad altri loro coetanei riescono semplici, non possono soddisfare le aspettative degli insegnanti né dei loro familiari, e si ritrovano soli, consolidando giorno dopo giorno l'idea di avere tutto il mondo contro. Spesso si attivano reazioni psicologiche che possono ulteriormente accentuare il disturbo stesso, e soprattutto possono rappresentare un fattore di rischio psicopatologico.

I disturbi del comportamento che un bambino manifesta in classe per evitare il compito che gli viene richiesto, sono per l'insegnante certamente più disturbanti degli errori di lettura. L'instabilità motoria e il rifiuto di leggere o di fare i compiti, che il bambino oppone alle insistenze del genitore, sono certamente più fastidiosi e ansiogeni del disturbo in sé.

Ma bisogna evitare di scambiare le cause con gli effetti, perché non è giusto che i genitori credano che le difficoltà di lettura dei propri figli sono dovute ad impropri comportamenti educativi.

Dal canto loro i docenti si sentono persi: quel bambino ai loro occhi appare intelligente, curioso e allora, perché non apprende? Forse non si impegna abbastanza, forse non è interessato alle attività, forse ha troppa voglia di giocare… ed ecco che iniziano a prendere campo le sollecitazioni e i rimproveri, gli atteggiamenti di eccessiva gratificazione alternati ad atteggiamenti di scoraggiamento e avvilimento.

Nel frattempo la famiglia ha già avvertito il pericolo: i genitori si rendono conto che il loro figlio procede più lentamente dei compagni, i compiti a casa sono una tragedia… eppure sembrava un bambino capace, vivace, sveglio.

Il genitore all'inizio non è in grado di concepire ipotesi diverse da quelle che riguardano l'impegno e la motivazione, ma giorno dopo giorno deve affrontare il problema dei compiti, vero banco di prova delle relazioni familiari.

Il genitore perde la pazienza, perché non capisce come mai il bambino non apprende ciò che gli viene proposto con tanta insistenza, il bambino dal canto suo, piange ed è frustrato perché non si sente compreso neanche in famiglia. La situazione a casa tende a riprodurre la situazione di frustrazione scolastica.

E' vero che in genere a casa c'è l'aiuto dell'adulto che a scuola non c'è, ma questo aiuto diventa presto una tortura. Inoltre a casa non vi è una chiara distinzione tra il tempo dedicato all'attività scolastica e il tempo dedicato ad altro, non solo per la lentezza con cui i compiti vengono eseguiti, ma perché l'umore della relazione che si stabilisce in quella situazione tende a pervadere tutti gli altri momenti della giornata, e a coinvolgere tutti i membri della famiglia.

Ciò comporta che il bambino dislessico, non ancora riconosciuto tale, non abbia un ambito in cui sentirsi compreso, non trovi una persona che abbia con lui relazioni svincolate dalla scuola e dal ruolo sociale che questa gli attribuisce, un ambiente in cui sentirsi difeso o in cui possa assumere un ruolo positivo.

Il bambino diventa un “bambino-problema”, e poiché non se ne conosce la natura, il problema non viene circoscritto.

Se l'ipotesi principale del genitore è quella di mancanza di impegno, al bambino viene rimandato un giudizio di tipo etico morale che lo coinvolge come persona e implica il suo atteggiamento verso la crescita. Genitori e insegnanti che non comprendono le difficoltà dei bambini dislessici, tentano semplicemente di forzarli ad impegnarsi di più.

Di fronte al loro rifiuto o alla mancanza di risultati immediati si spazientiscono e cercano un colpevole – ora il bambino che non si impegna, ora i genitori che non seguono abbastanza il figlio, ora il metodo dell'insegnante – instaurando così un circolo vizioso che ha l'effetto di accrescere le frustrazioni di tutti, e quel che è peggio di allontanare dalla soluzione del problema.

In alcune situazioni, la comunicazione ricevuta sul figlio dalla scuola, scatena vecchi conflitti nella coppia genitoriale, ciascun genitore valuta la situazione con parametri diversi e indica diverse soluzioni, si attribuiscono reciprocamente responsabilità, manchevolezze, colpe e il figlio viene a trovarsi in mezzo ad ostilità talvolta manifeste, talvolta tacite, ma ugualmente dolorose. Oltre ad essere incapace a scuola egli si sente anche causa dei litigi tra i genitori.

In altre situazioni la coppia genitoriale si coalizza, ma individua nella scuola il nemico da combattere; in questi casi gli insegnanti sono considerati incompetenti, per cui i genitori si mettono alla ricerca di risposte che confermino le adeguate capacità del proprio figlio. Il loro obiettivo non sembra essere quello di trovare soluzioni al problema, ma quello di invalidare il parere dei docenti, di dimostrare che sono questi ultimi ad avere sbagliato.

Quando si giunge a porre in atto una modalità di relazione collaborativa tra scuola e famiglia, si assiste ad uno scambio di informazioni utili, alla condivisione di conoscenze, che rendono il percorso che conduce all’individuazione del problema e alla ricerca di adeguate modalità di lavoro, più sereno e maggiormente improntato alla fiducia.

Di fronte ad una corretta diagnosi, i genitori capiscono che non è colpa dei figli, e che non è giusto pretendere ciò che loro non possono fare. Sapere che il proprio figlio è dislessico, non è una buona notizia: questi problemi non si risolvono facilmente, e accompagnano il bambino per tutta la fase di scolarizzazione, ma di fronte ad una corretta diagnosi, perlomeno i genitori sanno qual è il problema, non sono più tormentati da un fantasma indefinito, e sopratutto dal dubbio di vedere i propri figli così strani, così unici e incompresi, senza nessuno che riesca ad aiutarli.

Possono cominciare a sentirsi meno soli nella loro lotta contro i mulini a vento, e cercare sostegno e rassicurazione per la frustrazione, la rabbia e l'ansia che li attanagliano.

Una volta individuato e circoscritto il problema, nei genitori si ingenera sconcerto e delusione, spesso perché vittime di un'errata concezione del rapporto tra lettura e intelligenza. I bambini dislessici, infatti, non sono bambini con limitate capacità intellettive, bensì bambini con scadenti capacità fonologiche e/o scadenti capacità di riconoscimento visivo, ma dalle ottime qualità intellettive.

La dislessia è una combinazione unica di talenti e inefficienze, capacità e difficoltà.

Le capacità fondamentali condivise da tutti i dislessici:

  1. Sono estremamente consapevoli dell'ambiente che li circonda

  2. Pensano più per immagini che per parole

  3. Sono molto curiosi, introspettivi ed intuitivi

  4. Pensano e percepiscono in maniera multidimensionale, usando tutti i sensi.

  5. Hanno una vivida immaginazione

Il dislessico pensa principalmente per immagini tridimensionali, dalle quali ha una quantità di informazioni enormemente superiore al pensiero logico-simbolico.

Per Einstein non fu difficile capire la relatività, perché lui l’aveva intuita: nella sua mente ne aveva un’immagine chiara, il difficile fu far capire agli altri (non dislessici) come ci era arrivato. Walt Disney fu il più grande disegnatore e animatore di cartoni animati perché questi, una volta pensati, erano già un film nella sua mente. Leonardo Da Vinci aveva ideato l’elicottero e il sottomarino, per nominare solo i più importanti, perché aveva intuito quali erano i meccanismi per ottenere macchine con quei risultati.

Nel dislessico di solito l’intuizione è centuplicata, ma è anche fonte di grande ansia perché fa tenere le antenne sensoriali sempre all’erta: qualsiasi stimolo lo interessa, per cui diventa facilmente distraibile, con calo dell’attenzione, o meglio, come il cane che si agita all’udire ultrasuoni e noi non percepiamo niente, cala l’attenzione verso l’obbiettivo scolastico, solo perché essa è dirottata verso un altro stimolo in quel momento più interessante.

L’iperattività spesso legata ai dislessici, trova la sua ragione nel fatto che il loro orologio interno è più veloce del nostro: loro vogliono andare sempre più avanti, ci precedono, altrimenti si annoiano.

Se tutto questo non viene compreso, è impossibile riuscire ad entrare in contatto con la sofferenza di questi bambini, con la loro ansia, con il loro disagio spesso alla base di condotte inadeguate, di atteggiamenti oppositori e provocatori, di reazioni di disimpegno, frequentemente osservabili in questi soggetti, soprattutto quando il problema non è stato riconosciuto precocemente.

Se di fronte ad un bambino con DSA, l'obiettivo non è risolverli e neanche capirli, ma normalizzarlo o scolarizzarlo, si può persino arrivare, dopo patetici tentativi per la farlo leggere e scrivere, a definirlo “non scolarizzabile”.

L'instabilità, sia degli errori che commettono i dislessici, che delle acquisizioni faticosamente conquistate, è spesso un elemento di irritazione e conflittualità con l'adulto che non riesce a spiegarsi perché, aspetti apparentemente già acquisiti, vengano in qualche modo rimessi in gioco. La sensazione è quella di non procedere mai, dato che non si può mai considerare definitivo un miglioramento sul quale si è lavorato specificatamente. Questo elemento apporta alla relazione educativa che si stabilisce fra adulto e bambino un fattore di complicazione, in quanto la mancanza di risultati stabili costituisce un rischio di sfiducia dell'adulto nel bambino, e viene spesso interpretato come mancanza di impegno o di rifiuto dell'aiuto che gli viene offerto.

Ma l'instabilità della prestazione è il fattore che può aiutarci a capire meglio quando ci troviamo davanti un bambino con disabilità specifica, perché il bambino con un generico ritardo nell'apprendimento, non è altrettanto instabile, né negli errori che commette, né nelle acquisizioni che conquista.

Un dislessico, essendo dotato di normali capacità intellettive e sociali, si rende perfettamente conto di quanto le operazioni che trova difficoltose siano semplici per le altre persone, e se non adeguatamente seguito può cadere in depressione o manifestare ansia e tensione nervosa.

Una dislessia non riconosciuta o dovutamente trattata in età scolare, oltre al vituperato abbandono scolastico, può avere conseguenze sulla salute mentale dei ragazzi minandone fortemente l'autostima e portando i soggetti a fenomeni di depressione giovanile che possono sfociare in suicidio, come ci insegna la cronaca nera, o a fenomeni di esagerata tensione nervosa che può portare al rifiuto totale delle istituzioni e direttamente a fenomeni di bullismo, o dipendenza da droga e alcool.

 

Riferimenti bibliografici:

  • G. Stella, LA DISLESSIA
  • R. Davis, IL DONO DELLA DISLESSIA
  • S. Guerra Lisi, PROGETTO PERSONA
Data pubblicazione: 27 aprile 2010

Autore

anna.gulla
Dr.ssa Anna Gulla' Psicologo

Laureata in Psicologia nel 2005 presso Università degli Studi di Palermo.
Iscritta all'Ordine degli Psicologi della Regione Toscana tesserino n° 5084.

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