La prevenzione secondaria del cervico-carcinoma

Lo Screening può essere definito come l’applicazione sistematica di un test al fine di identificare soggetti che sono a rischio di sviluppare una specifica malattia tale da richiedere ulteriori indagini di approfondimento. Le assunzioni che sono alla base dell’offerta di un test di screening oncologico a una popolazione sono che:

1) sia possibile identificare la neoplasia, se presente, quando ancora asintomatica;

2) l’anticipazione della diagnosi si traduca in un concreto beneficio, prima di tutto in termini di prolungamento della sopravvivenza.

In alcuni casi lo screening riesce a evitare l’insorgenza del tumore, in altri può salvare la vita; la diagnosi precoce consente comunque di eseguire interventi poco invasivi e non distruttivi.

Il razionale per l’introduzione dello screening di popolazione per il cervicocarcinoma si basa sulla possibilità di individuare la neoplasia in fase asintomatica, quando è più probabile che questa sia in fase preinvasiva o all’inizio della fase invasiva. In realtà, lo screening cervicale consente di identificare non solo le lesioni tumorali molto precoci, ma anche quelle preneoplastiche. Ciò è reso possibile dalla storia naturale del tumore cervicale, infatti, generalmente, la progressione da forme preneoplastiche a neoplastiche preinvasive e, successivamente, invasive impiega diversi anni. Lo screening è, quindi, uno strumento in grado di ridurre sia la mortalità per carcinoma, favorendone la diagnosi in una fase in cui il trattamento può essere efficace, sia l’incidenza della neoplasia invasiva, attraverso il trattamento delle forme preneoplastiche.

Gli screening oncologici sono dunque un complesso investimento per la salute, che ha come risultato una riduzione della morbilità e mortalità. Per raggiungere tale obiettivo, però, si devono mettere in atto dei processi che migliorino le capacità organizzative dei sistemi sanitari, la tecnologia e le conoscenze.

L’esecuzione di programmi di screening richiede un’organizzazione molto ben regolata ed efficiente, messa a punto da pianificatori competenti e condotta grazie alla collaborazione di professionisti di diversi settori.

In uno screening oncologico s’individuano le seguenti fasi fondamentali:

  • Informazione e reclutamento della popolazione.
  • Esecuzione del test.
  • Esecuzione degli approfondimenti diagnostici.
  • Esecuzione dei trattamenti.
  • Gestione dei flussi informativi verso la popolazione e gli operatori.
  • Registrazione dei dati e valutazione.

 

L’esecuzione degli approfondimenti diagnostici e dei trattamenti sono fasi fondamentali che s’inscrivono nel secondo livello dello screening.

Il test di screening primario è rappresentato dall’esame citologico (Pap-Test), eseguito su striscio o in fase liquida, mentre la colposcopia è, oggi, l’esame preferenziale di II livello nella diagnosi precoce della neoplasia cervicale. Essa deve essere considerata un importante ausilio per la localizzazione e la delimitazione dei precursori della neoplasia cervicale in donne con esame citologico cervico-vaginale anormale. L’esame colposcopico ha, infatti, il compito di individuare la lesione, definirne i limiti topografici, esprimere un grading ed indicare la sede o le sedi per la biopsia mirata.

Sono pochi i casi in cui la colposcopia dovrebbe rimpiazzare la citologia come test routinario di screening primario. Alcuni gruppi di donne a rischio molto elevato per CIN, in particolare le donne immunosoppresse come quelle sottoposte a trapianti o le donne HIV positive, potrebbero essere prese in considerazione per lo screening colposcopico già al primo livello associato allo screening citologico. Anche le donne con ripetuti prelievi giudicati inadeguati dovrebbero essere inviate a colposcopia come procedura routinaria di screening.

Altre indagini diagnostiche incluse nel gruppo di esami del II livello sono:

  • L’HPV-DNA test.
  • Il Courettage.
  • Interventi escissionali (LEEP; conizzazione a lama fredda).

Ogni programma di screening ha, quindi, l’obbligo di adottare un protocollo per la gestione delle donne sulla base del risultato citologico.

L’invio al II livello di screening è raccomandato per le alterazioni citologiche con accettabile valore predittivo positivo per istologia CIN-2 o più severa. Si raccomanda l’invio in colposcopia in caso di citologia H-SIL (High-Grade Squamous Intraepithelial Lesions) o più grave e di citologia ASC-H. Per le donne con citologia L-SIL (Law-Grade Squamous Intraepithelial Lesions) si raccomanda la colposcopia, ma si può adottare anche un protocollo basato sul triage mediante HPV test. Eseguire una colposcopia per alterazioni citologiche lievi nelle adolescenti potrebbe essere superfluo e potenzialmente non necessario, infatti, in uno stesso risultato citologico è insito un rischio differente di sviluppare lesioni di grado maggiore CIN 2-3 o di cancro a seconda dell’età della donna.

Negli ultimi anni (2005-2007) circa il 2-3% delle donne che si sono sottoposte a screening è stata inviata alla colposcopia. Il più frequente motivo d’invio alla colposcopia è un referto citologico ASCUS.

Obiettivo primario della colposcopia è l’identificazione delle lesioni CIN 2, lesioni usualmente trattate; in letteratura è stato riportato che circa il 38% dei casi di ASCUS persistente risulta, dopo approfondimento diagnostico colposcopico e bioptico, positivo per lesione CIN 2. Inoltre, la percentuale di CIN 2 diagnosticata dopo un pap-test ASCUS è equivalente alla percentuale diagnosticata dopo pap-test H-SIL. Sottovalutare un referto citologico ASCUS è quindi sempre un errore. Per le donne con citologia ASCUS si raccomanda una delle seguenti opzioni:

  • Triage mediante HPV test.
  • Invio diretto in colposcopia.
  • Ripetizione della citologia a sei mesi.

È dimostrato che circa l’80% dei casi ASCUS alla ripetizione della citologia a 6 mesi si negativizza, mentre in solo il 15% persiste una diagnosi ASCUS. Potrebbe essere più indicata la ripetizione del Pap-Test soprattutto in donne di età superiore ai 45 anni, dopo corretta terapia antinfiammatoria. L’invio alla colposcopia è, invece, preferibile in donne giovani (<45 aa).

La compliance all’esecuzione della colposcopia si è dimostrata elevata in Italia negli ultimi anni. Nel 2007, circa l’80% delle donne inviate in colposcopia per una citologia ASCUS o più grave ha accettato di sottoporsi ad approfondimento diagnostico. Tra le donne inviate in colposcopia per citologia HSIL o più grave, la compliance nel 2007 è stata mediamente del 90%. Ad ogni modo, le donne che non rispondono all’invio al secondo livello vanno opportunamente sollecitate. È necessario predisporre strumenti per il counselling e il supporto psicologico delle donne richiamate alla ripetizione del test, al secondo livello o per la terapia. È indispensabile instaurare un sistema che eviti errori e omissioni (fail safe mechanism, o “sistema di sicurezza intrinseca”), per garantire gli approfondimenti diagnostici a tutte le donne e il trattamento a qualsiasi paziente che necessiti di un intervento terapeutico.

I vantaggi dell’esame colposcopico sono numerosi tra questi abbiamo la scarsa invasività, l’accuratezza diagnostica, che, qualora la colposcopia sia eseguita in associazione ad un pap-test, raggiunge il 100%, e la sensibilità che è elevata, se l’esame è seguito da biopsia target. Ultimi dati (Zuchna C. 2010), però, sottolineano una scarsa accuratezza diagnostica delle biopsie target, la concordanza tra la biopsia target ed il prelievo escissionale, infatti, non supera il 43-51%. In questo studio, di 107 pazienti con diagnosi di CIN 1 alla biopsia, circa il 65% ha poi una diagnosi di CIN 2/3 alla conizzazione, questi dati mettono in risalto l’alto rischio di biopsie con risultati falsamente negativi.

A tal proposito, secondo la nostra esperienza, incrementare il numero di biopsie target a due/tre, può consentire una maggiore accuratezza diagnostica incrementando ulteriormente la sensibilità e la specificità dell’esame, e limitando l’influenza che la minore esperienza del singolo operatore può avere sul risultato diagnostico.

I limiti dell’esame però sono l’impossibilità di identificare lesioni endocervicali e la bassa sensibilità qualora non sia seguito da esame bioptico; inoltre, è necessario sottolineare che è un esame operatore dipendente. Per questa ragione, l’esame colposcopico deve essere svolto in strutture accreditate da personale addestrato, aggiornato periodicamente e sottoposto a controllo di qualità. I ginecologi colposcopisti per assicurare un esame soddisfacente devono:

  • Essere dedicati all’attività di screening di II livello almeno per il 50% del loro tempo.
  • Possedere una adeguata formazione in colposcopia.
  • Essere in grado di programmare ed eseguire i trattamenti necessari e di gestire il follow-up.

Attualmente, in diverse realtà italiane molti ginecologi vengono coinvolti nello screening per una porzione limitata del proprio tempo/lavoro, e quindi effettuano un numero di colposcopie inferiore alle almeno 100 annue richieste. Nelle unità operative di colposcopia il raggiungimento, anche graduale e progressivo, di tale standard sarà possibile solo attraverso un processo di riorganizzazione interna del lavoro e di adeguamento successivo delle risorse necessarie, che veda affidare lo screening a ginecologi sempre più dedicati a questa attività. Una maggiore centralizzazione delle colposcopie migliorerebbe le prestazioni ed in particolare le capacità di individuare lesioni più gravi.

Per una corretta analisi ed uniformità dei risultati, si raccomanda di adottare l’attuale classificazione colposcopica internazionale.

L’esame colposcopico non è un esame definitivo ma necessita di ulteriori approfondimenti. Se la colposcopia è soddisfacente, con giunzione squamo colonnare completamente evidenziata e lesione identificata, prima di qualsiasi trattamento (ablativo o escissionale) va effettuata una verifica istologica: non si dovrebbe mai eseguire un trattamento ablativo senza una preliminare documentazione istologica. Un trattamento escissionale con ansa a radiofrequenza in prima istanza (non preceduto da biopsia mirata) è accettabile solo se a posteriori si ha la conferma istologica della presenza di lesioni intraepiteliali (> 90%). Nel 2007 in Italia, è stato riportato che il 68,9% dei CIN 2 ed il 44,8% di CIN 3 è stato identificato nel caso di colposcopie riportate come normali o di grado 1, a dimostrazione del fatto che non sempre una diagnosi colposcopica coincide con una diagnosi istologica. La scarsa accuratezza diagnostica e sensibilità della colposcopia mostrata in questi dati è in netto contrasto con la nostra esperienza, in cui l’unico dato “discordante” è il numero di falsi positivi alla colposcopia definiti di grado 1 e poi risultati all’istologia come presenza di metaplasia squamosa o di cervicite cronica. È chiaro che questi casi non possono essere considerati reali falsi positivi dati i quadri colposcopici caratteristici propri della metaplasia.

D’altro canto, non è riportata biopsia nel 10,6% delle colposcopie con reperti anormali, in particolare nel 6,2% dei reperti di grado 2, nel 10% dei casi con vasi atipici. Ragioni addotte per la mancata biopsia in questi casi sono il rifiuto della paziente, la scelta del colposcopista di non eseguire l’esame in gravidanza o condizioni che richiedono una preparazione farmacologica anche per interventi minimi. Questi dati, nella nostra esperienza risultano inaccettabili. La biopsia è una fase fondamentale dell’esame di secondo livello, la sua mancata esecuzione in donne gravide, laddove non vi sia rischio di abortività, ed in pazienti che richiedono adeguata preparazione farmacologica può essere considerata una carenza nei programmi di screening che prevedono approfondimenti diagnostici necessari per l’identificazione delle lesioni preneoplastiche.

Qualora la colposcopia risulti insoddisfacente o soddisfacente con lesione non evidenziabile completamente, o addirittura negativa è necessario valutare la possibile presenza di lesione endocervicale. In questo caso, si rende necessario una valutazione del canale con il courettage endocervicale o con l’endocervicoscopia.

Il programma di screening deve prevedere protocolli di terapia e follow-up delle lesioni, preinvasive e invasive. Bisogna inoltre identificare presidi accreditati per il trattamento con un responsabile della procedura, garantire l’aggiornamento e il controllo di qualità degli operatori, verificare l’aderenza ai protocolli terapeutici e di follow-up.

I centri di approfondimento diagnostico e quelli di trattamento possono coincidere, se esiste una struttura accreditata e con le caratteristiche di tecnologia, assistenza, ed esperienza professionale adeguata.

I trattamenti devono offrire la procedura più conservativa possibile, evitando gli interventi di isterectomia, salvo in casi eccezionali. La maggior parte delle lesioni CIN-1 dovrebbe essere gestita tramite follow-up, senza trattamento. Secondo le linee guida della SICPCV il trattamento è indicato se la lesione di basso grado persiste per più di 2 anni. Un’elevatissima percentuale di lesioni preneoplastiche della cervice uterina può essere trattata in regime ambulatoriale e non di ricovero in presidi con caratteristiche di day-hospital, dotati di servizi di anestesiologia e sale operatorie di emergenza, comportando non solo un minor disagio per le pazienti, ma anche un grosso contenimento della spesa sanitaria.

Il trattamento dovrebbe essere preceduto da un’adeguata informazione della paziente.

Il programma di screening deve includere protocolli dettagliati di trattamento delle lesioni preinvasive e invasive della cervice uterina, condivisi a livello locale o regionale. Questi protocolli devono recepire le indicazioni delle linee guida nazionali e internazionali basate sulle evidenze cliniche scientifiche disponibili. Per questo va fatta una revisione periodica basata sull’evoluzione delle conoscenze scientifiche e sull’audit dei risultati ottenuti.

Dopo il trattamento delle lesioni preinvasive si deve assicurare il follow-up (la cui intensità deve essere adeguata alla gravità della lesione ed alla classe di rischio) ed il ritorno allo screening di base nel periodo più breve possibile. Le metodiche di follow-up prevedono l’impiego della citologia associata o meno alla colposcopia e l’applicazione del test per l’HPV.Per una valutazione adeguata occorre programmare tale follow-up con indicazioni precise su tempi e modi di esecuzione, nonché sulle indicazioni di rinvio della donna allo screening di base.

 

 

 

 

Data pubblicazione: 21 gennaio 2015