Foxcatcher - L’identità del paranoico e la caccia alla volpe

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

  

L’oggetto del film, almeno per come la storia è presentata, è la paranoia. Si tratta dell’adattamento di una storia vera, basato sull’autobiografia del lottatore Mark Shultz.

 

I campioni olimpici di lotta Dave e Mark Shultz, fratelli, si allenano in una modesta palestra di provincia, e conducono una vita normale. Il miliardario John Du Pont, con il pallino della lotta libera, contatta Mark, il più giovane, e gli propone di trasferirsi nella tenuta Foxcatcher per allenarsi sotto la sua guida, insieme ad un team e con tutto il supporto materiale di cui ha bisogno. Il vero obiettivo di Du Pont è quello di essere considerato lui l’artefice del successo di Mark, anche se apparentemente si pone come colui che gli consentirà di trovare finalmente una sua dimensione individuale, e non più come il fratello minore dell’altro lottatore, in realtà egli vuole assorbire la personalità dell’altro e utilizzarlo come strumento per costruire il proprio personaggio pubblico (Du Pont il coach, Du Pont “l’aquila d’oro d’America). Du Pont si fregia di una serie di titoli minori (filatelico, ornitologo etc) che sono in realtà ridicoli considerata la sua posizione di potere economico e politico, e ottiene probabilmente honoris causa come sponsor di varie associazioni. Lo stesso accade nella lotta, dove si compiace di vincere in maniera combinata dei match per lottatori senior e ci tiene a mettere il premio in bacheca.

La sua assenza d’identità è una costante che si evidenzia nel corso della storia, e risulta sempre più inquietante. Du Pont è un individuo privo di iniziativa propria, egli si appoggia a valori astratti di potenza e successo, e non si vede come protagonista di niente, ma come oggetto di elogi, riconoscimenti, premi. Come lottatore è incapace, manca proprio di ciò che vorrebbe istillare negli atleti, ma anziché allenare se stesso preferisce ritagliarsi il ruolo di allenatore degli altri, di genio da cui discende la vittoria altrui per una sorta di carisma, più che per una competenza tecnica. E’ un “non tecnico”, autorevole tuttologo senza sostanza.

Quando Mark si mostrerà non corrispondente a quel che lui pretendeva, DuPont lo accantonerà per chiamare invece alla guida del suo team il fratello maggiore Dave, più indipendente e non disposto a sottostare ufficiosamente alla guida di “coach DuPont”. Dave cerca di recuperare il fratello, allontanandolo dall’influenza che ritiene negativa di DuPont, così come di usare i suoi criteri per allenare il team, prestandosi malvolentieri a far figurare il miliardario come vero allenatore. Rimpiangendo la personalità pià malleabile di Mark, DuPont ucciderà Dave a sangue freddo con l’accusa generica di “aver qualcosa contro di lui” e sarà incarcerato.

 

 

Il film avvalla la tesi secondo cui John soffre di un complesso di inferiorità instillatogli dalla madre, che da piccolo pagava il figlio dell’autista per essere suo amico, e da grande gli rimprovera di non essere nessuno, e di vivere in un mondo di finzione, in cui paga per poter apparire. Lui, ombra, che pretende di spiccare sulla luce degli altri. Emblematica la scena in cui invita la madre a presenziare ai suoi (inutili) allenamenti di lotta in cui alla vigilia delle olimpiadi pretende di intervenire con alcune dritte: lui mostra le mosse all’atleta, in un’esibizione ad uso e consumo della madre, e lei si allontana con un misto di indifferenza e disprezzo.

 

L’altra chiave di lettura è però la paranoia. DuPont ha anche il pallino della sicurezza, e per questo addirittura si fa inviare un carro armato dall’esercito, oltre a fare esercitazione di tiro insieme ai suoi vigilantes. Spesso sembra che legga le azioni degli altri con perplessità, come se cercasse di capire se “dietro” c’è qualcosa di strano. Le sue reazioni sono tipicamente paranoiche, e cioè ambigue. Quando si sente deriso, sminuito, o immagina di essere minacciato in qualche vago e imprecisato modo, lui cerca il contatto con l’altra persona, e prova da una parte a indagare, dall’altra a fingere ulteriore amicizia, come per vedere come l’altro reagirà e farsi un’idea se sta cercando di far qualcosa contro di lui o no.

 

Mentre appunto tira con la pistola, gli atleti che fanno corsa gli passano accanto e lo salutano a gran voce. Non capendo se fosse una presa in giro o un saluto, lui li raggiunge in palestra, pistola in pugno, impartisce qualche istruzione e poi spara un colpo in aria, sorridendo, e incitandoli a darci dentro in vista della gara.

In un’altra occasione, sospettando che il vero coach del gruppo (Dave) voglia escluderlo, si presenta agli allenamenti e gli esprime tutta la sua fiducia, con fare freddo e ambiguo di chi sembra stia cercando di sondare la fiducia dell’altro.

 

Nella paranoia vi è un problema nel distinguere la volontà altrui dalla propria. La persona si sente “pilotata”, come se il proprio corpo, cervello incluso, dipendesse da quello che gli altri decidono. La necessità di condizionarli, di averli sotto controllo, è quindi centrale. Data questa fusione, quando gli altri compiono azioni che non coincidono con quello che la persona vuole, gradisce, ha indicato, il paranoico si sente condizionato, violato, costretto.

Nel vissuto di molti soggetti paranoici c’è ad esempio l’idea che la propria vita sia stata materialmente determinata da altri, che gli altri abbiano determinato il funzionamento del proprio cervello. Se gli altri non approvano o non appoggiano quello che uno vuole fare, il paranoico ritiene di non poterlo fare, perché impedito. Il pensiero degli altri diviene volontà propria, come se gli altri avessero in mano un joystick con cui possono impedire o favorire i movimenti della persona.

 

In questo rapporto si simbiosi e opposizione alternate con gli altri, il paranoico vede l’altro come alleato devoto o insidioso usurpatore, ma ha difficoltà a concepirlo come elemento indipendente, che agisce, pensa e sente in maniera non collegata a lui. Nel primo caso potrà assumere atteggiamenti di generosità e fiducia totale, contrapponendo magari quello che lui ritiene un alleato agli altri che ritiene invece ostili o critici, come se contrapponesse se stesso al mondo che non lo apprezza o asseconda. Nel secondo potrà sentirsi tradito e provocato, raggirato e pugnalato, e per lo stesso principio vedrà l’altro come alleato del mondo che gli è contro. Proprio perché queste due interpretazioni sono legate allo stesso nucleo (non vedere l’altro come separato da sé), è facile il passaggio brusco da uno all’altro atteggiamento.

 

Per il paranoico il mondo ruota intorno a lui, e non esiste quindi una varietà di atteggiamenti possibili (o con me, o contro di me) ma soprattutto questi atteggiamenti sono due versanti su cui sta in bilico la percezione della realtà, e la realtà non è variabile pezzo per pezzo, ma tutta insieme. Quando si scopre tradito, chi soffre di paranoia si sente tradito da una persona in concorso morale con tutti gli altri nemici, o un complotto con gli altri, o comunque in maniera “allineata” a tutti gli autori di torti subiti nel corso della vita.

 

Inoltre, il paranoico non tende a comunicare “apertamente” con chi ritiene traditore o minaccia per sé, proprio perché è convinto che l’altro sia perfettamente consapevole. Può scegliere se mai di far capire che ha capito, di alludere per mettere in guardia l’altro, oppure al contrario di manifestarsi amico pensando così che l’altro si illuda di non essere stato scoperto nel suo tradimento. Spesso, come si è descritto prima, sbanda tra questi due atteggiamenti. Se mai, e questo è caratteristico, il paranoico non allontana le persone che ritiene minacciose, anzi trova il modo di averle a fianco, magari le assume o li chiama come collaboratori, così da controllarli, condizionarli. Egli è convinto, proprio per il fondo paranoico, che se gli altri lo chiamano “capo” allora lo rispettino, come se la loro volontà fosse in quel caso coincidente con la sua, senza riuscire a sentire il tutto come ridicolo, ingenuo, demenziale.

 

DuPont ad esempio pretende di essere chiamato coach, o che si registrino interviste in cui lo si definisce un “mentore”, un capo, una guida, e con parole che devono essere queste. Mentre gli altri vivono questo come in parte ridicolo e in parte mortificante, lui lo percepisce come un sincero atto di identificazione, di riconoscimento. Viceversa, rifiutare di obbedire “letteralmente” a indicazioni che lo riguardano può essere percepito come un tradimento, perché chi rifiuta di chiamarlo “capo”, sta quasi forzandolo a non esserlo, mette in dubbio la sua identità. Non è solo una contestazione o una diminuzione, è un fastidio più profondo, come se qualcuno gli usurpasse o rubasse la sua identità a cui ha diritto. Quando l’altro è riconsciuto come “un’altra persona”, con suoi pensieri, affetti e comportamenti, egli è qualcuno che si appropriato dei diritti del paranoico.

 

 

La chiusura col mondo, di chi si sente oltraggiato, o quella di chi si sente assediato possono essere comportamenti premonitori di atti violenti, o rivendicativi, così come accade nel film. Al contrario della paranoia “calda”, tipica del disturbo bipolare, in cui l’agitazione, la polemica verbale e l’espressività accentuata fanno presagire il rischio, nella paranoia “fredda” il soggetto rimane enigmatico, apparentemente impacciato o distaccato.

 

L’interpretazione in questo caso rende molto bene il personaggi: stralunato, assente, spersonalizzato, in grado di mettere a disagio per questa sua innaturalezza. La difficoltà comunicativa è evidente, tanto che il paranoico ricco, potendolo fare, incarica altri di mediare i suoi contatti col mondo, e si espone in prima persona parlando in maniera grandiosa ma ingessata di sé.

 

Nel film ci sono anche un paio di allusioni a pulsioni omosessuali di DuPont, e alla cocaina e all’alcol, ma sostanzialmente non è questo il tema centrale né l’elemento decisivo. Certamente alcol e cocaina affilano la paranoia, e possono scatenare comportamenti che altrimenti restano spesso bloccati, proprio per una difficoltà del paranoico a trovare il canale di espressione. Quando lo trova, spesso è un canale di vendetta.

Data pubblicazione: 22 aprile 2016 Ultimo aggiornamento: 26 aprile 2017

Autore

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1999 presso Università di Pisa.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Pisa tesserino n° 4355.

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