Il nalmefene II: rivediamo i principi di cura dell'alcolismo

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

(Premessa: si leggano anche, indietro nel blog, gli articoli sul naltrexone e il nalmefene, nonché quelli sull’alcolismo per chiarire meglio i vari punti del discorso).


Andiamo a vedere come si può utilizzare il nuovo farmaco per l’alcol. Per molti è una sorpresa, perché nonostante fosse già disponibile un farmaco con queste caratteristiche e queste modalità d’uso, ai più non è ancora chiaro come funzionano i metodi per curare l’alcolismo.

Questo medicinale può essere assunto in due modi: o sempre, tutti i giorni, o “al bisogno”. Si può partire con un periodo di somministrazione regolare, e poi passare alla seconda modalità.
Il meccanismo con cui agisce il medicinale è un’azione antagonista sul sistema oppiaceo, almeno sul sistema recettoriale MOP. Con questo effetto farmacologico, quando l’alcol arriva nel cervello non riesce a produrre alcuni suoi effetti. Uno di questi è “l’appetito” per se stesso: bevendo vien voglia di bere ancora, fino a un certo punto.

Questo punto è variabile nel bevitore controllato, che può scegliere se ubriacarsi o meno, può avere voglia di essere sotto l’effetto dell’alcol o fermarsi dopo un primo bicchiere. Nell’alcolista questo meccanismo è molto più sensibile, e quindi il primo bicchiere se ne tira dietro altri dieci. Poco importa quali fossero le intenzioni, che ovviamente non potevano essere sempre quelle di bere troppo, e di farlo in qualsiasi circostanza.

L’alcolismo è infatti perdita di controllo, automatica. Il farmaco si mette in mezzo e cerca di ricreare il controllo.
Si può anche pensare che la voglia di bere possa nascere anche “a freddo” senza alcol, e nell’alcolista è certamente così. Prima del primo bicchiere, sale la voglia attraverso il ricordo degli effetti positivi, la voglia di euforia, la voglia di non sentire dolore etc. Questo alimenta un primo appetito, anche questo “bloccabile”.

Il farmaco per funzionare deve agire su un alcolista che sta bevendo, anche se non regolarmente. Più passaggi ci sono con il farmaco addosso, più si riesce a capire se funziona nell’arco dei primi mesi. In altre parole: se nei primi mesi la persona non beve più, è dubbio che sia merito del farmaco, se invece ha bevuto ancora, ma non ha avuto vere ricadute, è probabile che sia il farmaco che sostiene questo tipo di equilibrio, altrimenti impossibile, L’alcolista riesce a sospendere, ma non a bere senza “degenerare”.

Il primo scopo è quindi invertire questa tendenza e riportare a un equilibrio, dopo si tende all’astinenza. Questo dipende anche da quanto l’alcolista è arrivato a “odiare” la presenza dell’alcol nella sua vita. Se la odia, una volta ripreso il controllo potrà desiderare di non bere più in assoluto.
In una seconda fase del trattamento si può optare per l’assunzione non regolare, ma al bisogno. Il bisogno è quando il bere è imminente.

Quando l’alcolista, che ormai non sta bevendo quasi più, sente che il desiderio cresce o che sta pensando di bere e si sta sforzando di resistere, ha due possibilità pratiche. La prima è cercare di resistere con tutte le sue forze, mettere in atto metodi per distrarsi, per ravvivare il ricordo delle conseguenze negative delle ultime bevute, insomma cercare di evitare la bevuta. La seconda possibilità invece è lasciar perdere gli sforzi mentali per evitare la bevuta, e predisporre invece uno scudo contro la bevuta che potrà verificarsi, in modo che si fermi lì e non prosegua con una vera e propria ricaduta.


Almeno in chi assume la terapia con antagonisti, funziona meglio il secondo metodo. Poiché l’alcolista sostanzialmente non ha il controllo, di fronte alla probabilità di una ricaduta è più saggio concentrarsi sul come gestirla che non su come prevenirla. Agire di scudo e non di spada. L’alcolista che ragiona così si porta dietro il farmaco, e quando sente che è a rischio di bere lo assume, così la probabilità di ricadere in pieno si riduce, dopo aver iniziato a bere il primo bicchiere.


La cosa più difficile è mettere il paziente in questo ordine di idee, perché la maggior parte dei pazienti credono di dover dare una prova di controllo agli altri, di dover resistere e di dovercela fare con le proprie forze, o comunque di sviluppare la propria forza di volontà, Questa forza si sviluppa attraverso le ricadute controllate (con la cura addosso) e non si sviluppa invece con i tentativi frustranti di trattenersi.

Data pubblicazione: 13 ottobre 2013 Ultimo aggiornamento: 26 giugno 2017

Autore

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1999 presso Università di Pisa.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Pisa tesserino n° 4355.

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