Rapporto problematico con mio padre

Gentili medici, vi racconto le mie vicende.

Ho 33 anni ed è da praticamente sempre che soffro di scarsa autostima e di forte insicurezza. Ciò condiziona moltissimi aspetti della mia vita, la situazione è fortemente limitante e si autosostiene. Per dirne una, faccio una fatica estrema ad avere rapporti con altre persone, e quando mi sforzo perché ciò avvenga sono rapporti superficiali in cui mi chiudo mettendomi sulla difensiva. Generalizzando, nelle piccole come nelle cose più importanti (dove serve determinazione, lucidità, responsabilità, ma anche spontaneità per viverle a pieno) mi tiro indietro e riesco solo a vivere con la paura e l'ossessione, quindi parzialmente e in modo poco gratificante e "formativo". Anzi, spesso più che conservare le esperienze le rimuovo.

Ritengo strana questa indole in quanto se fossi libero da condizionamenti mi vedrei come una "bella persona", mediamente intelligente e pure simpatico. Invece sono fragile e mi sottometto agli altri, spesso prendo decisioni "con la testa altrui", con tutto ciò che questo innesca. Sono stato per cinque anni assieme a una ragazza (ora di 27 anni) che mi ha amato, ma che povera lei, ho portato a saturazione e mi ha lasciato. E' da qualche mese che ci rivediamo dopo un anno sabbatico di blackout quasi totale, che ho passato a riflettere su me stesso arrivando ad una *apparente* maturità e autonomia. Ora ci rivediamo come due amici ma mi accorgo che nonostante io sia ripartito bene, ho presto ricominciato ad assillare lei e me con lei solite paure sul nostro rapporto (di fatto ora solo da ex innamorati), necessità di possessione e continuo bisogno di rassicurazioni. Mi sento cattivo, invece di accogliere questo suo atto d'amore con gioia, ho finito col ricominciare ad alimentare un sacco di aspettative (immotivate), dovendomi ricredere su ciò che pensavo di aver messo a posto con me stesso.

Non volendo rovinare la vita a questa ragazza, ma anzi essendoci tra noi un legame reciproco molto forte, oltre a molta stima, sono riuscito a parlarle dei miei problemi, a lei ovviamente noti, e sono arrivato a concludere che i mie atteggiamenti e i miei blocchi siano la conseguenza di qualcosa di più profondo, cioè il rapporto irrisolto con mio padre (anche lei mi ha detto che la pensa così). In effetti ho un pessimo rapporto con lui, non gradisco neanche il contatto fisico e sostituisco mio padre con mia madre ogni volta che posso. Mio nonno è venuto a mancare quando mio padre aveva nove anni, e il suo rapporto con mia nonna è sempre stato critico. Fatto sta che ho subito il trauma dell'autorità aggressiva e delle umiliazioni di mio padre fin da bambino, anche se non mi sembra giusto essere stato tirato in ballo così.

Cosa pensate delle mie conclusioni? Che approccio terapeutico si presterebbe? Posso "guarire"? Da introspettivo mi piacerebbe psicoanalisi classica ma potrei scavare fino a non uscirne più. Cognitivo comportamentale o psi. breve strategica sarebbero valide alternative? GRAZIE
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Dr. Armando De Vincentiis Psicologo, Psicoterapeuta 7.2k 220 122
Gentile utente sembra che lei si sia già analizzato per benino traendo una serie di conclusioni. ora le chiedo: quale giovamento ha ottenuto da questo? La consapevolezza che ha dei suoi rapporti, conflitti e traumi passati ha avuto qualcosa di terapeutico? ha cambiato il suo modo di fare le cose? Forse, senza nulla togliere alla psicoanalisi, dovrebbe richedere un intervento terapeutico più attivo orientato alla soluzione del problema prima di cercare le motivazioni profonde che la inducono ad essere ciò che è. Ne parli direttamente con uno psicologo e dopo una valutazione diagnostica si deciderà quale intervento sarà più adatto a lei.
saluti

Dr. Armando De Vincentiis
Psicologo-Psicoterapeuta
www.psicoterapiataranto.it
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dopo
Utente
Utente
Devo precisare che sono stato sempre consapevole sia dei miei malesseri che del cattivo rapporto con mio padre, ma come due fenomeni a se stanti. Solo da pochi giorni ho avuto la capacità di metterli in relazione causa/effetto. E' successo dopo aver visto una recita teatrale ispirata al saggio "Il perturbante" di Freud, dove in più occasioni mi sono identificato con il personaggio principale e le sue problematiche (che ho riassunto prima). Il giovamento che mi ha dato questa "scoperta" è stato quello avere conquistato qualcosa di "concreto" su cui lavorare, anche semplicemente cercando di accettare la situazione per come è. Posso dire di essere riuscito a trasformare un mucchio di problemi in un qualcosa con un capo e una coda..., di cui riesco a percepire le dimensioni, non so se mi spiego.

Per finire vorrei un chiarimento. Mi sfugge il significato di "intervento terapeutico più attivo". SE si riferisce all'assunzione di farmaci, come agiscono? Presupponendo di non assumere farmaci per una vita, al termine della terapia farmacologica non tornerei al punto di partenza? Potrebbe spiegarmi meglio?

Grazie ancora!
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Dr. Armando De Vincentiis Psicologo, Psicoterapeuta 7.2k 220 122
con intervento terapeutico più attivo facero riferimento ad un modello orientato attivamente alla soluzione dei problemi, ossia terapia cognitivo-comportamentale, strategica o sistemica.
saluti