La nevralgia trigeminale essenziale o idiopatica

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Dr. Marco Mannino Neurochirurgo

La nevralgia trigeminale essenziale o idiopatica è un disordine neuropatico del V nervo cranico caratterizzato da intense algie localizzate ad una metà del viso (emivolto).

Che cos’è la nevralgia trigeminale essenziale o idiopatica?

La nevralgia trigeminale essenziale o idiopatica è un disordine neuropatico del V nervo cranico caratterizzato da intense algie localizzate ad una metà del viso (emivolto).
Si colloca come una tra le condizioni più dolorose conosciute. A causa dell’elevato numero di suicidi messi in atto dalle persone affette ed impossibilitate a controllare in alcun modo le crisi dolorose è stata etichettata in passato come “la malattia del suicidio”.

Ha una prevalenza nel sesso femminile con un rapporto maschio/femmina di 1,8:1 ed è più frequente oltre i 50 anni con un’età media di circa 60 anni. Ha un’incidenza annua di 4 nuovi casi ogni 100000 abitanti.

La struttura nervosa coinvolta nella malattia è il V nervo cranico, nervo misto deputato all’innervazione sensitiva del volto e motoria dei muscoli masticatori. Tale nervo è detto anche nervo Trigemino per la sua caratteristica di dividersi in tre branche di innervazione: frontale (I o V1), mascellare (II o V2) e mandibolare (III o V3). Ciò significa che alcuni pazienti riferiscono intensi dolori alla fronte o ad un occhio mentre altri lamentano dolori alla guancia, al labbro o al mento in relazione al territorio nervoso interessato.

La nevralgia trigeminale si manifesta caratteristicamente in modo improvviso, in uno o più territori di innervazione delle tre branche trigeminali e, tipicamente, in modo unilaterale. I rari casi di nevralgia bilaterale sono spesso associati alla sclerosi multipla. E’ inoltre noto che il 2% di pazienti affetti da sclerosi multipla svilupperanno una nevralgia trigeminale.

Frequentemente il territorio di irradiazione dolorosa è molto esteso per il contemporaneo coinvolgimento più territori di innervazione trigeminale. Percentualmente (Fig. 1) la nevralgia si manifesta in tal modo: solo V1 (4%), solo V2 (17%), solo V3 (15%), V1 e V2 (14%), V2 e V3 (32%), V1 V2 e V3 (17%).

L’insorgenza è caratteristicamente fulminea talvolta spontanea, descritta come una “scarica elettrica”. Meno frequentemente la nevralgia viene riportata come intenso bruciore. Il più delle volte è scatenata da un gesto comune della vita quotidiana, come il bere, il mangiare, il lavarsi il viso o il radersi. Nei casi più gravi è lo stesso atto del parlare ad innescare la nevralgia. Tuttavia è generalmente possibile individuare una “trigger zone”, cioè una zona “grilleto” la cui stimolazione porta all’insorgenza della sintomatologia.

Il tempo di durata del dolore varia da pochi secondi ad alcune ore. Nei periodi intercorrenti tra le crisi il paziente non avverte alcuna sintomatologia. Dopo i primi episodi l’intervallo intercorrente tra un accesso doloroso ed il successivo può essere abbastanza lungo. Purtroppo col passare del tempo si fa via via più breve fino a diventare una drammatica costante che non da tregua al paziente.


Fig. 1. Percentuali di interessamento trigeminale.

 

Qual è la causa della nevralgia trigeminale?

Per diversi decenni la causa è rimasta sconosciuta. Solo con l’utilizzo del microscopio operatorio (Fig. 2) è stato possibile documentare che la causa della nevralgia trigeminale risiede, nella maggior parte dei casi, in un contatto tra il V nervo cranico ed una struttura vascolare (Fig. 3) a livello della sua emergenza dal tronco encefalico, la cosiddetta “root entry zone” (REZ).

Tale contatto che in genere coinvolge una struttura arteriosa (nella maggior parte dei casi l’arteria cerebellare superiore) altera il normale rivestimento del V nervo cranico determinando delle profonde alterazioni funzionali. In altre parole il cosiddetto “conflitto neurovascolare”, mediante la generazione di un arco riflesso patologico, porta all’attivazione del nervo ogni qual volta si ha una stimolazione sensitiva della zona cutanea “trigger”, con una intensa scarica neuronale responsabile della nota sintomatologia.


Fig. 2. Microscopo operatorio.

Fig. 3. Immagine da microscopio con evidenza di conflitto trigeminale.

 

Come si arriva alla diagnosi di nevralgia trigeminale?

La diagnostica della nevralgia trigeminale essenziale si basa sulla analisi attenta della storia clinica raccontata dal paziente e sull’esclusione di altre cause di nevralgia trigeminale (in questo caso secondaria) come ad esempio la già citata sclerosi multipla o altre patologie che possono dare una compressione del V nervo cranico lungo il suo decorso.
Altre patologie con cui necessariamente dovrà esser fatta una diagnosi differenziale sono:

  • Nevralgia post-erpetica
  • Problematiche dentali
  • Dolore sinusitico o post-sinusitico
  • Cefalea a grappolo
  • Arterite temporale
  • Problematiche dell’articolazione temporo-mandibolare.

A tal fine la diagnostica prevede in prima istanza il ricorso alla Risonanza Magnetica dell’encefalo (Fig. 4).
L’esecuzione di quest’esame, peraltro, ha una duplice finalità: da un lato consente l’esclusione delle cause di nevralgia trigeminale secondaria; dall’altro permette, mediante la scansione con specifiche sequenze tomografiche di evidenziare eventuali conflitti tra il V nervo cranico alla sua emergenza dal tronco encefalico e delle strutture vascolari.

Questo non consente di porre diagnosi di nevralgia trigeminale a cui si arriva, come già detto, per esclusione di patologie concomitanti e mediante la scrupolosa esamina dell’anamnesi, ma avvalora l’ipotesi formulata sulla base dell’esame clinico.


Fig. 4. Freccia verde: nervo trigemino. Freccia rossa: arteria in conflitto.

 

Come si cura la nevralgia trigeminale?

Per ovvie motivazioni, il trattamento delle nevralgie trigeminali secondarie (quelle in cui è stata riconosciuta la causa) risiede nella rimozione, se possibile, della causa stessa.
Per quanto riguarda la nevralgia trigeminale essenziale il trattamento prevede quattro possibilità: medico, locale o percutaneo, radiochirurgico e chirurgico.

Il trattamento medico o conservativo è la prima arma da utilizzare. Solo negli ultimi decenni, da quando cioè è stata formulata l’ipotesi patogenetica, ha iniziato ad avere una valenza teorica e pratica: essendo un disturbo della trasmissione nervosa i farmaci utilizzati con un buon successo sono stati da subito gli antiepilettici o anticomiziali. Tutt’oggi il trattamento medico di scelta prevede la somministrazione di molecole utilizzate nel trattamento dell’epilessia, come ad esempio la carbamazepina o il gabapentin che assunti in maniera cronica e ad un dosaggio progressivamente crescente sono in grado, nella maggior parte dei casi, a controllare le crisi dolorose.

Il trattamento locale o percutaneo è riservato ai casi in cui il trattamento medico non è risultato efficace o, come sovente accade, il paziente ha sviluppato una farmaco-resistenza. Si concretizza nel provocare un danno sulle branche nervose interessate con tecniche percutanee mediante l’utilizzo di radiofrequenze, sostanze chimiche (alcolizzazione) o compressione diretta della branca periferica del nervo (tecnica con palloncino). Tuttavia tali metodiche non sono scevre da complicanze anche gravi fra cui vengono annoverate le meningiti da fistola liquorale, l’anestesia dolorosa e la cheratite neuroparalitica. Per di più non risolvono il problema definitivamente essendo gravate da un alto tasso di recidiva che varia dal 20% all’80% rispettivamente a 5 e 10 anni. Sebbene le procedure possano essere ripetute si assiste tuttavia ad un progressivo abbandono del loro utilizzo.

Il trattamento radiochirurgico implica l’utilizzo di una strumentazione “ad hoc” e può essere eseguito con un acceleratore lineare, con la Gamma-Knife o con il Cyber-Knife. Consiste nella somministrazione di un alta dose di raggi mirata all’ emergenza del V nervo cranico dal tronco encefalico (REZ). Le fibre sensitive che sono le più fragili perdono così la loro funzionalità mentre quelle motorie usualmente non riportano alcun danno. Sfortunatamente questa metodica, oltre ad essere praticata in pochi centri è gravata da un’alta percentuale di disturbi disestesici al volto. In altre parole, il dolore può trasformarsi in sgradevole sensazioni di formicolii o bruciori spesso più fastidiosi della nevralgia trigeminale stessa, su cui però poi non è più possibile eseguire altre procedure essendosi oramai perpetrato un danno del nervo. Questa situazione può esser vissuta molto male dal paziente. Infine se si considera che anche con la radiochirurgia si registrano recidive nevralgiche, il buon senso suggerisce di praticare un trattamento radiochirurgico su chi non è in condizioni cliniche tali da poter affrontare un intervento chirurgico: pazienti molto anziani o con comorbidità.

Il trattamento chirurgico rappresenta, invece, il trattamento di scelta in tutti i pazienti giovani o che non presentano delle condizioni cliniche generali particolarmente compromesse. E’, in ogni caso, l’ultima alternativa proponibile a coloro che hanno ottenuto dei risultati scarsi o nulli con la terapia medica e/o con un trattamento percutaneo o radiochirurgico.
L’intervento (Fig. 5), eseguito in anestesia generale, prevede l’esecuzione di una craniectomia retrosigmoidea (in pratica un piccolo sportello osseo dietro l’orecchio) attraverso il quale accedere ad una regione chiamata angolo ponto-cerebellare, dove risiede appunto l’emergenza del nervo trigemino e l’ipotetico vaso responsabile del conflitto.
Il passo successivo prevede l’identificazione delle due strutture (il nervo ed il vaso) e la loro separazione mediante l’interposizione di un “cuscinetto” in teflon (Fig. 6) che non consenta più un contatto. Al fine di ridurre le complicanze neurologiche legate alla procedura oltre al valido ausilio offerto dal microscopio operatorio, durante la manovra chirurgica viene eseguito un monitoraggio continuo della funzionalità del nervo e soprattutto dei nervi vicini, in particolar modo del nervo facciale che più frequentemente può subire un danno.
Le complicanze del trattamento eseguito da mani esperte hanno un incidenza molto bassa (< all’1%) e la percentuale di successo dell’intervento è del 90%, con una risoluzione completa e duratura dei sintomi. Dopo una degenza di alcuni giorni, il paziente potrà sospendere definitivamente la terapia farmacologica e riprendere tutte le proprie attività quotidiane tornando a condurre un’esistenza più serena.


Fig. 5. Rappresentazione schematica dell’intervento chirurgico.

Fig. 6. Interposizione del teflon tra arteria e nervo.
Data pubblicazione: 27 maggio 2010

Autore

mannino.marco
Dr. Marco Mannino Neurochirurgo

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 2002 presso Università degli Studi di Messina.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Reggio-Calabria tesserino n° 7910.

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