L’Ernia discale cervicale e le attuali tecniche chirurgiche per il suo trattamento

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Dr. Claudio Bernucci Neurochirurgo

L’Ernia discale cervicale e le attuali tecniche chirurgiche per il suo trattamento

 

I dischi intervertebrali sono strutture gelatinose che consentono alle vertebre di muoversi una rispetto all’altra in tutte le possibili direzioni, assicurando un’adeguata mobilità di tutte le porzioni della colonna vertebrale. Ogni disco è costituito da una porzione fibrosa e resistente più esterna, l’anulus, all’interno della quale è racchiuso un nucleo più morbido

Quando l’anello fibroso viene rovinato a causa della naturale degenerazione o di stress ripetuti ed eccessivi e si indebolisce, nel punto di maggior cedimento la spinta del nucleo gelatinoso porta alla fuoriuscita di parte del nucleo stesso, l’ernia appunto. L’ernia discale cervicale si forma prevalentemente ai livelli C5-C6 e C6-C7, cioè quelli dotati di maggiore mobilità in flesso-estensione e quindi più soggetti a ripetuti microtraumi.

In alcuni casi, queste lesioni compaiono come conseguenza diretta di un trauma cervicale (il tipico colpo di frusta).

Fig 1. Immagine schematica di una sezione assiale passante per un disco cervicale che mostra in rosa la presenza di un’ernia discale preforaminale dx.

Clinica

Se l’ernia è laterale, cioè destra o sinistra, il materiale discale comprime le radici nervose che si diramano dalla colonna, dando i sintomi tipici: dolore che, dalla regione cervicale, si irradia lungo un lato del braccio e dell’avambraccio fino a interessare le prime o le ultime dita della mano. Il paziente potrà anche riferire sensazioni di formicolio o intorpidimento e perdita di forza nell’eseguire specifici movimenti del braccio o della mano. Questa condizione è definita radicolopatia.

Il problema è più delicato quando il disco ernia nella zona centrale e va a comprimere direttamente il midollo spinale provocandone la sofferenza. In tali circostanze, i problemi maggiori non si hanno alle braccia, ma alle gambe, e comprendono sensazione di pesantezza e rigidità, scarso controllo muscolare o effettive difficoltà nella deambulazione. Questa condizione è definita mielopatia.

Il semplice dolore a livello della nuca e del collo invece può essere presente in entrambe le forme di ernia, ma non è mai la componente predominante, così come si deve sfatare la convinzione che l’ernia cervicale possa provocare attacchi vertiginosi o capogiri.

Si deve sapere poi che esistono due tipi di ernia: quella “molle” e quella “dura”. La prima, che è la forma classica con fuoriuscita del nucleo del disco intervertebrale, interessa soprattutto persone giovani, d’età compresa tra i 25 e i 40 anni. Quando compare dai 45 anni in su, invece, si tratta quasi sempre di una forma “dura” o mista, innescata dall’assottigliamento del disco, seguito da un processo più simile all’artrosi con formazione di osteofiti.

Diagnosi

Nel sospetto clinico di ernia discale cervicale l’esame che meglio consente di fare la corretta diagnosi e quello che non comporta alcun rischio di esposizione a radiazioni ionizzanti è la Risonanza Magnetica (RM).

Questa apparecchiatura consente di identificare tutte le componenti della colonna cervicale (vertebre, dischi,legamenti, articolazioni, ecc), l’ernia, la sua sede, la sua estensione e il coinvolgimento delle strutture nervose, siano esse le radici nervose o il midollo spinale. Essa rivela anche eventuali segni di sofferenza del midollo che sono alla base della mielopatia.

Gli esami radiologici, Tomografia Computerizzata (TC) e Radiografia tradizionale, andrebbero richiesti dal consulente neurochirurgo come completamento, con l’obiettivo di definire il ruolo clinico di possibili osteofiti associati all’ernia, oppure per pianificare l’intervento chirurgico.

La radiografia tradizionale, con l’aggiunta delle prove dinamiche (ovvero radiografia effettuate mentre il paziente muove il collo in flessione ed estensione) servono qualora si pensi di eseguire un intervento di artroplastica.

Accertamenti neurofisiologici, come l’ElettroMiografia, i Potenziali Evocati Motori e Somatoestesici, servono per definire meglio il grado di sofferenza radicolare o midollare, per valutare la prognosi funzionale di un deficit neurologico e per la diagnosi differenziale con altre patologie che causano sintomi simili a quelli dell’ernia discale (es. sindrome del tunnel carpale, sindrome dell’egresso toracico, malattie primitive del midollo spinale, ecc.)

 

Fig 2. Immagine schematica di una sezione assiale passante per il disco C6-C7 che mostra la presenza di un’ernia discale foraminale sin. (N.B. sulle immagini RM e TC il lato è indicato al contrario rispetto all’osservatore)

Terapia

In persone giovani, di fronte a un’ernia discale “molle” che provoca i sintomi tipici della cervicobrachialgia, quando il sintomo predominante è il dolore e vi è assenza di deficit neurologici, deve essere tentato in prima istanza un trattamento conservativo, che consiste in:

  • moderato riposo
  • fisioterapia, ginnastica funzionale o stretching, nuoto, massaggi;
  • terapia farmacologica. 

La radicolopatia si può risolvere senza intervento chirurgico in quasi l’80% dei pazienti.

In questi soggetti, così come quelli affetti da spondilosi cervicale lieve, l’uso della trazione o l’immobilizzazione in un collare rigido ha prevalentemente un effetto placebo, piuttosto che una reale azione sulle cause.

Assolutamente controindicate sono le manipolazioni; sono stati descritti casi di pazienti che sono peggiorati drammaticamente (addirittura gravi danni midollari) dopo brusche mobilizzazioni passive del rachide cervicale.

Se tutti questi provvedimenti non ottenessero benefici duraturi, verrà presa in considerazione la necessità dell’intervento chirurgico.

L’operazione è invece consigliabile nel più breve tempo possibile quando ci sono chiari segni di sofferenza del midollo spinale, cioè nel caso della mielopatia.

Trattamento chirurgico

I primi interventi chirurgici sulla colonna cervicale volti a risolvere i disturbi causati da ernie discali sono stati presentati verso la metà degli anni Cinquanta.

Il Dott Cloward sviluppò un intervento di discectomia associato ad una successiva fusione o artrodesi, che con alcune varianti viene utilizzato tuttora. Durante questa operazione, la colonna vertebrale cervicale viene “aggredita” attraverso un’incisione nella parte anterolaterale del collo e dopo averlo identificato mediante radiografia, il disco incriminato viene rimosso insieme a eventuali protuberanze ossee dette osteofiti, se presenti. Dopo avere decompresso adeguatamente le radici nervose e il midollo spinale, per mantenere la distanza tra le due vertebre, altrimenti in contatto tra loro, e favorire la fusione vertebrale, si interpone tra le  vertebre stesse un frammento osseo prelevato da un’altra zona del corpo, di solito dalla cresta iliaca (il margine superiore dell’anca).

Questa metodica era e rimane tuttora efficace per eliminare i sintomi dati dall’ernia, ma causa la perdita della possibilità di movimento a livello delle due vertebre coinvolte, che finiscono con il diventare un blocco unico.

Proprio per evitare il “blocco articolare”, nell’ultimo decennio si è iniziato a cercare soluzioni alternative con lo scopo di mettere a punto protesi capaci non soltanto di ristabilire un’adeguata architettura articolare, ma anche di garantire la normale funzionalità.

Dopo l’artrodesi cervicale, in realtà, il problema principale – ieri come oggi - non riguarda tanto la parziale rigidità che si instaura in corrispondenza delle vertebre trattate, quanto il fatto che le articolazioni tra le quelle vicine devono muoversi di più per compensare il difetto. Questo stress aggiuntivo porta a una maggiore usura degli altri dischi intervertebrali e a una loro più rapida degenerazione. Ne consegue che tipicamente i pazienti sottoposti ad artrodesi, per esempio, tra la 6° e la 7° vertebra cervicale, nell’arco di alcuni anni sviluppano una seconda ernia in corrispondenza del disco soprastante, quello presente tra la 5° e la 6°. In aggiunta, nella versione originaria dell’intervento, il prelievo dalla cresta iliaca presentava ulteriori inconvenienti non trascurabili. Innanzitutto, si dovevano effettuare due incisioni, anziché una sola; subito dopo l’intervento era poi sempre presente un discreto rischio di infezione a livello dell’anca e, a distanza di tempo, in questa sede spesso comparivano dolore o altri fastidi.

Per sostituire il disco intervertebrale degenerato e vicariarne le funzioni nel tempo sono stati messi a punto dispositivi diversi: inizialmente, sono stati usati sostituti ossei di derivazione animale, seguiti poi da bioceramica e infine da gabbiette in titanio e quindi in carbonio e attualmente in PEEK. Tutto questo per evitare di dover danneggiare la cresta iliaca.

Qualunque dispositivo venisse utilizzato, fino a non molto tempo fa, il risultato era comunque sempre un’artrodesi, con la relativa perdita di mobilità. Le cose sono cambiate negli ultimi cinque anni, quando hanno iniziato a rendersi disponibili le prime protesi discali vere e proprie, capaci di mantenere la mobilità tra le vertebre.

L’intervento chirurgico di sostituzione con i nuovi dispositivi avviene in modo del tutto simile a quello utilizzato per l’artrodesi, in particolare nella prima parte, che consiste nel raggiungere e nel rimuovere il disco danneggiato e gli eventuali osteofiti che hanno determinato i sintomi. Anche nella seconda parte dell’operazione le differenze sono minime, limitate in particolare all’inserimento tra le vertebre della protesi discale, anziché della gabbietta da artrodesi. Anche per questa ragione, benché si tratti di un sistema ancora parzialmente sperimentale, il nuovo approccio è ormai divenuto routine nella pratica neurochirurgica.

Il fatto che l’intervento sia in buona parte simile a quello che porta all’artrodesi è un indiscutibile vantaggio non soltanto dal punto di vista tecnico, ma anche in termini di sicurezza per il paziente, dal momento che la pratica è ampiamente collaudata e lo spettro dei possibili inconvenienti perfettamente noto.

Oggigiorno esistono diversi modelli di protesi discali, ognuna frutto di una specifica filosofia di ricerca e con un suo meccanismo di funzionamento. La protesi ideale non è stata ancora sviluppata e i diversi modelli riflettono diverse concezioni biomeccaniche.

Dal punto di vista terapeutico, ci si attende che, mantenendo una mobilità vertebrale omogenea nel tratto cervicale della colonna, queste protesi riescano a prevenire lo sviluppo di ernie e artrosi a livello dei dischi adiacenti. Ad avvantaggiarsi della nuova metodica sono soprattutto i pazienti più giovani che, in considerazione della aspettativa di vita più lunga, hanno una maggior probabilità di sviluppare degenerazioni secondarie in seguito ad artrodesi.

Le indicazioni per l’applicazione delle protesi discali si stanno ampliando, anche se, in media su dieci persone che devono essere operate di ernia cervicale o patologie analoghe, soltanto a tre-quattro vengono proposti i nuovi dispositivi. Il principale criterio di selezione è l’età: in genere, si scelgono pazienti con meno di cinquant’anni, sia perché i vantaggi interessano soprattutto i giovani, sia perché i soggetti anziani spesso presentano una degenerazione generalizzata dei dischi e delle superfici vertebrali, dovuta all’artrosi naturalmente associata all’invecchiamento e avrebbe poco senso cercare di prevenire un fenomeno che è già in corso. Peraltro, il secondo criterio di selezione consiste nella presenza di una singola lesione ben localizzata, nel contesto di una colonna cervicale complessivamente sana.

 

Fig. 3. Radiografie in flessione e estensione di un paziente sottoposto a intervento chirurgico per un’ernia discale C5-C6 con inserimento di una protesi discale.

Che si tratti di un intervento di microdiscectomia con fusione o con inserimento di protesi, il ricovero è breve: in genere, si viene dimessi dopo 48 ore dall’operazione. Ciò che cambia è il periodo postoperatorio, che nel primo caso è più impegnativo.

Il processo che porta alla fusione tra due vertebre è del tutto analogo a quello necessario per ottenere la guarigione di una frattura: deve formarsi un callo osseo. E ciò richiede l’immobilizzazione dell’articolazione coinvolta per un certo tempo. Per questa ragione è consigliabile che i pazienti indossino un collare rigido per almeno cinque o sei settimane, con forti limitazioni nelle attività quotidiane, nella vita lavorativa e un certo disagio anche sul piano psicologico. Dopo l’applicazione della protesi discale, al contrario, il collare non è necessario, perché l’obiettivo di quest’ultima è proprio quello di consentire una piena mobilità articolare. Il paziente può iniziare a muovere il collo già il giorno successivo all’intervento, magari, all’inizio con una certa cautela, ma soltanto per non mettere troppo in tensione la ferita. L’unica avvertenza è evitare per circa tre mesi movimenti o attività che mettano fortemente a rischio le vertebre cervicali, come fare motocross o sbizzarrirsi in contorsioni e capriole. La riabilitazione non è necessaria, mentre si dovranno effettuare alcuni controlli con radiografie dinamiche per verificare che la protesi discale sia ben posizionata e in grado di assicurare un adeguato movimento.

Il principale inconveniente a cui si può andare incontro dopo l’intervento è comunque tutto sommato relativo e consiste nella possibilità che la protesi discale anziché mantenersi mobile vada incontro a un processo analogo alla fusione. Ciò significa che, nella peggiore delle ipotesi, se l’intervento di sostituzione“fallisce”, ci si ritrova nelle stesse condizioni di chi è stato sottoposto all’operazione classica, ovvero comunque “guariti”. In ogni caso, i risultati ottenuti finora ci dicono che si tratta di un’eventualità che si verifica in una percentuale limitata di pazienti.

Data pubblicazione: 05 agosto 2010

Autore

claudiobernucci
Dr. Claudio Bernucci Neurochirurgo

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1990 presso Università degli Studi di Genova.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Imperia tesserino n° 1466.

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