Disturbi di personalità: prevalenza e trattamento

elisabetta.scolamacchia
Dr.ssa Elisabetta Scolamacchia Psicologo, Psicoterapeuta

L'articolo vuole soffermarsi sulla prevalenza e l'eventuale trattamento dei Disturbi di Personalità, anche a fronte dell'interesse mostrato da recenti consulti

Introduzione

Sempre più utenti, nei recenti consulti, menzionano i Disturbi di Personalità, come strumenti conoscitivi sia per tentare un'autodiagnosi, sia per comprendere e "spiegare" il comportamento delle persone con le quali entrano o sono in relazione.

L'intento di questo articolo è, appunto, di fornire alcune informazioni, certamente non esaustive, relativamente all'argomento in questione.

 

Disturbi di Personalità e prevalenza

Secondo alcune ricerche (Lenzenweger et al., 1977), la prevalenza dei Disturbi di Personalità nella popolazione generale sarebbe stimata tra il 9% e il 13%, arrivando, secondo alcuni autori (Weissman, 1993) addirittura al 15%. Detto in termini più accessibili ed esemplificativi, si può affermare che almeno una persona su dieci, secondo rosee prospettive, soffrirebbe di Disturbo di Personalità, al punto che Lenzenweger ha affermato come tali disturbi costituiscano un vero e proprio problema di salute pubblica.

La percentuale su riportata, oltre tutto, sembra persino essere sottostimata, in quanto la maggior parte delle persone con Disturbo di Personalità non ricerca nè si avvale di alcun servizio psicologico e/o psichiatrico. Quelli che i clinici incontrano nei propri studi privati o all'interno dei CSM e Consultori, infatti, sono generalmente "inviati" da altri: coniugi che minacciano la separazione, familiari ai limiti di una civile e sopportabile convivenza, datori di lavoro che "consigliano" la cura con l'arma del licenziamento, autorità giudiziarie in caso di atti criminosi e illeciti. Gli altri pazienti che, pur in presenza di Disturbo di Personalità, approdano alla valutazione clinica, sono quelli che chiedono un aiuto per altri tipi di disturbi relativi all'Asse I del DSM-IV: disturbi d'ansia, dell'umore, dissociativi, sessuali, dell'alimentazione ecc. Essi, cioè, chiedono al clinico di eliminare i sintomi manifesti, non di curare il sottostante Disturbo di Personalità, del quale difficilmente sono consapevoli.

 

Cos'è un Disturbo della Personalità? E come si riconosce?

Secondo la definizione del DSM-IV e dell'ICD-10, un Disturbo di Personalità è "un modello abituale di esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo", che si manifesta in almeno due aree, quali la cognitività, l'affettività, il funzionamento interpersonale e il controllo degli impulsi (Criterio A), risultando "inflessibile e pervasivo in una varietà di situazioni personali e sociali" (Criterio B) e determinando un "disagio clinicamente significativo e una compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti" (Criterio C). Tale modello presenta anche caratteristiche di stabilità e di lunga durata, relativamente all'esordio, che può risalire all'adolescenza o alla prima età adulta (Criterio D).

In altri termini, sembra che alcuni tratti di personalità che, nel funzionamento "normale", si configurano in Stili di Personalità ( Choca, Van Denburg, 2004, T.Millon, 1983, 1990), nel funzionamento patologico e secondo un continuum diventano disfunzionali per la loro rigidità, pervasività, intensità e numero. Per esemplificare, una persona con salda autostima e buon livello di assertività potrebbe realisticamente ambire ed ottenere risultati  brillanti in alcune aree di sua competenza, mostrando, quindi, uno Stile di Personalità Narcisistica che tuttavia non esita in un Disturbo. Ancora, un individuo può essere tendenzialmente riservato e preferire attività solitarie a quelle di gruppo e non necessariamente soffrire di un Disturbo Schizoide della Personalità.

A conferma dell'esistenza degli Stili di Personalità , in qualche modo differenziati dai Disturbi di Personalita'veri e propri, in ambito clinico e' talvolta utilizzato il test del MCMI (T. Millon, 1983), che è un questionario  psicologico di autovalutazione. Il principale vantaggio del suo utilizzo, rispetto al molto piu' usato e completo MMPI2, e' quello di essere parzialmente basato su categorie ma di offrire, al contempo, punteggi dimensionali per ogni Prototipo di Personalità. Il Millon (1983), cioè, nell'elaborazione del questionario, e' partito dall'assunto che rilevare solo la presenza/assenza di alcuni tratti non avrebbe potuto fornire, da solo, una valutazione onnicomprensiva della personalità in toto. 

Infatti, un importante, ulteriore, elemento che emerge nella letteratura ma che appare  molto evidente nella pratica clinica, e' la difficoltà, e a volte l'impossibilità, di catalogare un paziente all'interno di un tipo specifico di Disturbo di Personalità. L'esperienza sembra indicare che la complessità dell'individuo umano e' tale da presentare tratti personologici sovrapponibili ad altri di diversi Disturbi, sfuggendo, così, a una classificazione netta e precisa. In altre parole, non sembra così comune trovare Disturbi della Personalità "puri" e questo fatto, di per se', costituisce, da solo, una sfida alle capacità e alle competenze del clinico. Ogni paziente e' certamente unico, quindi difficilmente etichettabile in modo univoco.

 

Disturbi di Personalità e Trattamento

In considerazione di questa unicità del paziente, e della relativa difficoltà diagnostica, il trattamento dei soggetti che presentano uno o più Disturbi di Personalità, oltre a un correlato sintomatologico  spesso consistente, richiede grandi capacità e competenze da parte del professionista coinvolto nel processo terapeutico. Su questo fatto concordano sia autori di derivazione cognitivo-comportamentale (M.Linehan 2011, L.Sperry, 2000), sia autori di indirizzo psicodinamico interpersonale (L.S.Benjamin, 1999), secondo i quali tali pazienti sono tra quelli più difficili da trattare.

Un' ulteriore, plausibile, spiegazione riguarda le radici profonde del Disturbo che sembra incistato nel vissuto storico ed esperienziale del paziente il quale, quasi sempre, è del tutto inconsapevole della propria patologia. Il disturbo, infatti, è accettato dal soggetto come caratteristica temperamentale, per la quale è l'ambiente circostante che deve adeguarsi, risultando, nel primo caso, egosintonico, e nel secondo caso, alloplastico.

Quello che manca in tale paziente è la consapevolezza della propria malattia, che viene, infatti, attribuita a cause ed agenti esterni o proiettata su altre persone con cui egli, invariabilmente, intrattiene relazioni conflittuali, disturbate e disarmoniche. Il disagio, pur talvolta profondamente avvertito, è, secondo la sua visione, dovuto all'altro da sè: l'altro che non comprende, non partecipa, non rispetta, si allontana, è aggressivo e non collaborante, rifiutante e denigratorio ecc. L'individuo con Disturbo di Personalità riassume, spesso, la sua "filosofia" di vita con : Se non fosse per colpa degli altri o delle circostanze avverse, potrei essere molto più felice!"

Perchè, a ben vedere, egli si sente, qualche volta e a seconda del tipo di Disturbo, davvero infelice, in quanto la sensazione di rabbia, abbandono, umiliazione e quant'altro,  è percepita soggettivamente con una certa intensità emotiva. Nel Disturbo Borderline di Personalità, ad esempio, questa sofferenza emotiva, di cui, tuttavia, si attribuisce esternamente la causa, e' avvertita cosi' intensamente da non essere, talvolta, ne' contenibile ne' controllabile. Diverso il caso del Disturbo Narcisistico o Antisociale, tanto per citarne solo alcuni, nei quali, al contrario, il distacco emotivo rispetto all'altro da se' costituisce, esso stesso, il nucleo patologico. Non posso, per ragioni di spazio, addentrarmi nella disamina di ogni specifico Disturbo, per i quali rimando all'esaustivo articolo del dottor F.S.Ruggiero, citato in Bibliografia.

Relativamente alla nostra esperienza quotidiana, e senza bisogno di essere clinici attenti, ritengo che noi tutti conosciamo persone che sembrano "naturalmente" predisposte alle liti, ai conflitti, e alle battaglie legali, oppure al vittimismo lamentoso e inconsolabile, o all'esibizionismo sfrenato o, ancora, al ritiro "autistico" dalle relazioni. La sensazione che abbiamo, nell'incontro e nel confronto con loro, è di rabbia, dileggio o rassegnazione, manifestazioni, tutte, di un senso di realistica impotenza.

A livello clinico, tuttavia, il trattamento, pur se spesso lungo e complesso, non solo è possibile ma è anche predittivo di successi significativi, specie se psicofarmacologia e psicoterapia sono abbinate.

Tutti gli approcci terapeutici, da quello cognitivo-comportamentale (Sperry, 2000, Linehan, 2011) a quello psicodinamico interpersonale (Benjamin, 1996) a quelli psicoanalitici classici, sembrano essere efficaci nel trattamento dei Disturbi di Personalità. Non e' mia intenzione, in questa sede, introdurli singolarmente, poiche' ritengo che ognuno di essi meriti almeno un articolo a parte. Tuttavia, quello che mi preme sottolineare sono alcuni aspetti da tenere presenti nella presa in carico e nel trattamento di tali pazienti. Essi riguardano un'accurata ed attenta valutazione rispetto al: a. livello di empatia da parte del clinico; b. capacita'di contenimento degli agiti del paziente; c. un adeguato quadro di riferimento teorico;d.buone abilità' rispetto all' ascolto delle proprie reazioni controtransferali. Molto più onesto e protettivo nei confronti del paziente e del clinico risulta la non assunzione di presa in carico del paziente, in mancanza anche di uno solo di questi elementi, e il successivo invio ad un altro professionista. Se, tuttavia, il terapeuta sente di essere in grado di lavorare con  un paziente "difficile", egli dovrebbe ricorrere al supporto costante della supervisione e al sostegno dei colleghi, con i quali è spesso importante e necessario effettuare una rete, anche a livello di terapie combinate, come è spesso il caso con questi pazienti.

 

Conclusioni

Concludo con una nota di speranza, relativamente al trattamento e alla riuscita della terapia con questi pazienti, che portano spesso una sofferenza non riconosciuta e nascosta da comportamenti talvolta auto o etero distruttivi. In un processo terapeutico, conviene puntare sul potenziamento delle risorse del paziente e alimentare la fiducia nel successo della terapia, non disconoscendo le battute di arresto e il carico di sofferenza emotiva, ma puntando soprattutto all'alleanza con le parti sane del paziente. Un importante segno di progresso e segnale che la terapia sta procedendo nella "giusta" direzione è il passaggio dall'attribuzione causale esterna a quella interna, quando, cioè, il paziente riconosce il ruolo e l'influenza che ha esercitato nel contesto dove vive ed opera, quando, finalmente, può riappropriarsi, non solo della responsabilità, ma anche del potere ad essa connesso, automotivandosi nel percorso di cambiamento, talvolta persino incuriosendosi benevolmente dei propri complessi processi mentali e psichici.

 

Riferimenti bibliografici

  • DSM-IV-TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Masson 2001.
  • L.S.Benjamin, Diagnosi interpersonale e trattamento dei disturbi di personalità. Las 1999.
  • J.P.Choca, E.Van Denburg, Guida interpretativa del MCMI, Las 2004.
  • G.O.Gabbard, Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina 2002.
  • M.F.Lenzenweger, J.F.Clarkin, I disturbi di personalità.Le principali teorie. Raffaello Cortina 2006.
  • M.M.Linehan, Trattamento cognitivo-comportamentale del Disturbo Borderline.Raffaello Cortina 2011.
  • F.S.Ruggiero, I disturbi di personalità in MI+ 17/06/2010.
  • L.Sperry, I disturbi di personalità. Dalla diagnosi alla terapia cognitivo-comportamentale. McGraw-Hill, 2000.
  • M.Weissman, The epidemiology of personality disorders: A 1990 update. In Journal of Personality Disorders, 7, pp.44-62.
Data pubblicazione: 15 maggio 2013

Autore

elisabetta.scolamacchia
Dr.ssa Elisabetta Scolamacchia Psicologo, Psicoterapeuta

Laureata in Psicologia nel 2007 presso Univ.la Sapienza.
Iscritta all'Ordine degli Psicologi della Regione Lazio tesserino n° 16653.

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