Cannabis e alzheimer.

È il caso di provare i cannabinoidi per l’agitazione nell’Alzheimer?

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Dr. Mauro Colangelo Neurologo, Neurochirurgo

Nella malattia di Alzheimer (AD) non è coinvolto solo il potenziale cognitivo, ma sono presenti anche sintomi neuro-psichiatrici, quali agitazione, prevalente nel sesso maschile, e depressione, più frequente nelle donne che spesso finiscono per dominare il quadro clinico contribuendo in massima parte alla sofferenza del paziente ed amplificando il carico assistenziale sopportato dai suoi caregiver.

Cosa scatena l'agitazione nei malati di Alzheimer?

L’agitazione, osservata in oltre il 50% dei pazienti con Alzheimer, è stata definita nel 2015 dalla International Psychogeriatric Association come “eccessiva attività motoria con tendenza all’aggressione verbale o fisica, atipica per la personalità e il comportamento del paziente”.

Il meccanismo neurobiologico che contribuisce all’espressione dell’agitazione e dell’aggressività nell’AD è multifattoriale, essendo conseguenza della disfunzione di specifici network cerebrali, della degenerazione dei neurotrasmettitori mono-aminergici e della disregolazione dei ritmi circadiani.

cannabis agitazione alzheimer

L’accumulo extra-cellulare degli aggregati insolubili di Aβ (beta-amiloide) e i grovigli neuro-fibrillari intra-cellulari innescano la cascata neuro-degenerativa che culmina nella morte dei neuroni, con conseguente atrofia a carico della corteccia frontale e del cingolo, dell’ippocampo e dell’amigdala, come rilevato dagli studi con Risonanza Magnetica funzionale e Tomografia Computerizzata a singola emissione di fotoni.

Queste aree cerebrali costituiscono un circuito funzionale che gioca un ruolo nella regolazione dei pensieri emozionali, del comportamento sociale e dell’autoconsapevolezza e la cui alterazione rappresenta il potenziale meccanismo della disinibizione e dell’irritabilità, alla base dell’agitazione nel paziente affetto da Alzheimer, cui contribuisce la distruzione delle vie di trasmissione colinergica e serotoninergica.

Gli anti-depressivi non sono abbastanza efficaci

La maggior parte dei pazienti con AD presenta maggiore agitazione e confusione nelle ore notturne per la coesistenza di disturbo del sonno, causato dal disallineamento dell’orologio biologico per effetto della frantumazione del ritmo circadiano, condizione che finisce per interferire pesantemente sulle persone che li assistono.

Nei casi di lieve agitazione si riesce a ottenere risultati accettabili con strategie non farmacologiche, quali opportune variazioni ambientali, musico/arte-terapia, esercizi fisici ed adeguata istruzione dei caregiver. Nei casi di agitazione più severa, che non rispondono a queste strategie, si ricorre con criterio off-label ad anti-depressivi, anti-psicotici, ansiolitici e stabilizzatori dell’umore, ma essendo il loro utilizzo di modesta efficacia, oltre ad essere gravato da alto rischio di eventi avversi, si rende necessaria la ricerca di trattamenti più efficaci e più sicuri.

Curare l'agitazione con la cannabis

Paul B. Rosenberg, professore di psichiatria e scienze comportamentali alla Johns Hopkins University School of Medicine, di Baltimora, Maryland (USA), il 25. Gennaio. 2021, ha pubblicato su American Journal of Geriatric Psychiatry l’articolo Cannabinoids for Agitation in Alzheimer’s Disease [https://doi.org/10.1016/j.jagp.20221.01.015], illustrando come i cannabinoidi, modulando i recettori endogeni (recettori CB, di tipo 1 e 2) nel sistema cannabinergico, potrebbero costituire una potenziale opzione per il trattamento dell’agitazione.

Nella cannabis, oltre al tetraidrocannabinolo (THC), che è la principale sostanza psico-attiva, sono contenuti altri terpenofenoli, accomunati dalla proprietà di agire sui recettori cannabinoidi, fra cui il cannabidiolo (CBD) ed il dronabinolo, approvati per uso medico.

Nell’articolo di Rosenberg vengono riportati i trial controllati e randomizzati attualmente in corso, finalizzati a testare gli effetti sull’agitazione del dronabinolo, somministrandone differenti dosaggi alla ricerca della dose giusta per sicurezza ed efficacia. I risultati del suo gruppo di studio, al dosaggio di 10 mg/giorno, indicano che il THC ha un generale effetto sedante nei pazienti con Alzheimer essendo contestualmente in grado di regolarne gli aspetti affettivi, senza evidenza di eventi avversi. Tuttavia pur apparendo relativamente sicuro, trattandosi di pazienti particolarmente delicati, Rosenberg segnala un potenziale rischio di convulsioni e di delirio.

Prasad Padala della University of Arkansas for Medical Sciences, Little Rock ritiene che i farmaci derivati da cannabis, attraverso una modulazione del sistema cannabinergico siano in grado di regolare i cannabinoidi endogeni migliorando l’umore, il ritmo circadiano e il flusso ematico cerebrale. Padala mette in guardia sull’utilizzo di elevati dosaggi di cannabinoidi che potrebbero indurre dipendenza e aggiunge che è necessario individuare i sottogruppi di pazienti che non rispondono a questo trattamento.

Data pubblicazione: 10 febbraio 2021

2 commenti

#1
Utente 510XXX
Utente 510XXX

Buongiorno Dott. Colangelo, grazie per il suo interessantissimo articolo. Questa patologia è veramente devastante sia per il paziente che per chi li assiste, la speranza di una cura,veramente efficace, rende un po' più sopportabile la convivenza, e questo suo articolo sulla cannabis alimenta tale speranza. Un dubbio però vorrei che mi chiarisse, ho letto, alla fine dell'articolo,il possibile problema della"dipendenza", qual'e' il suo parere nel merito?

#2
Dr. Mauro Colangelo
Dr. Mauro Colangelo

Gentile Utente 510030,
La ringrazio per il commento e per la domanda. Il cannabidiolo ed il dronabinolo, ossia i i cannabinoidi di uso medico, non creano dipendenza come quelli assunti per mero scopo ricreativo, ma a dosaggi più elevati di quelli utilizzati nei trial in corso potrebbero farlo. E' abbastanza chiaro, comunque, che occorra fare un attento bilancio fra costi e benefici. In ogni modo è una strada nuova che imporrà nuovi criteri di valutazione.

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