Auto-terapia: cure e medicine "viste" con la testa della malattia

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

La diffusione dell'informazione e la presenza permanente di testi e forum da consultare ha evidenziato una questione già esistente, cioè quella della tendenza di alcune categorie di pazienti a individuare e ricorrere a trattamenti auto-gestiti.

I trattamenti auto-gestiti possono essere suddivisi in almeno tre categorie:

- autogestione di medicine prescritte dal medico, con modalità o in dosi diverse

- autogestione di medicine procurate tramite canali non medici (incluso il rapporto diretto con farmacisti nella pratica non corretta della vendita "senza ricetta")

- sviluppo di idee più o meno dettagliate sulle presunte cure migliori per il proprio caso, che poi sono suggerite al medico o con lui concordate in una sorta di cura "a quattro mani"


Occasione per rapporto con il medico

Diagnosi attuale

Tendenza terapeutica

Esperto a cui chiedere informazioni e confidente a cui chiedere rassicurazione

Disturbo Ossessivo

Discutere l'ossessione, ansiolitici

Ripetizione (anche senza discussione) del proprio disagio

Depressione

niente, ansiolitici

Cura per la depressione/ansia

Depressione atipica

ansiolitici (abuso), sedativi

Cura per la depressione/ansia

Disturbo Bipolare I

niente, antidepressivi

Cura per la depressione/ansia

Disturbo Bipolare II

ansiolitici (abuso), sedativi, antidepressivi frequentemente cambiati o associati

Scetticismo

Dismorfofobia

Correzione difetto fisico

Ansia sociale, depressione

Fobia Sociale

ansiolitici

Attacco di panico

Disturbo di Panico

ansiolitici al bisogno

Sintomi vari

Ipocondria

ansiolitici, sintomatici vari

Intossicazione

Dipendenza

Disintossicazione

Uso controllato

Motivazione per uscirne

Cura per star bene dopo aver smesso

Questo fenomeno non è uguale per tutte le categorie, e dipende sostanzialmente dal tipo di diagnosi. Benché i fautori dell'autoterapia ritengano di essere divenuti in qualche modo esperti, o che per certi versi ha più senso che siano loro, diretti interessati, a scegliere le medicine, le tendenze dell'auto-cura non dipendono da intelligenza o rapporto diretto con i propri sintomi, ma dal tipo di visione che le persone malate hanno della propria condizione.

Chi ha un disturbo che coinvolge le funzioni mentali spesso non ne ha una visione corretta, o meglio non ha una percezione corretta del modo in cui si gestisce la cura, secondo quali meccanismi e per ottenere quale sequenza di effetti. Ad esempio, uno psichiatra che fosse egli stesso affetto da depressione ragionerebbe come un depresso, non come uno psichiatra. Uno specialista cardiologo che fosse in preda al panico ragionerebbe come un soggetto in preda al panico. Un medico esperto che divenisse ipocondriaco comincerebbe a chiedere accertamenti e a fare supposizioni così come un qualsiasi ipocondriaco non medico.

Il fatto di saperne di medicina, o di aver capito qualche meccanismo o concetto preso qua e là, è un elemento che accentua la tendenza agli errori spontanei, perché mette al servizio alcune nozioni (sempre che siano corrette) del meccanismo mentale del disturbo. Inoltre, spesso le stesse nozioni che uno crede di avere altro non sono che una distorsione o una versione dell'informazione già distorta nella chiave di questo o quel disturbo: ciò che l'ipocondriaco sa di una malattia è la versione ipocondriaca di quella malattia, e soprattutto è una versione ipocondriaca di come si giunga a parlare di quella malattia.

L'ipocondriaco che si documenta non è "illuminato" dalla propria ipocondria, ma accecato.

Lo stesso dicasi per il soggetto con disturbo bipolare che si ritiene illuminato nella ricerca dell'antidepressivo perfetto, che magari non esiste ma che nella sua mente potrebbe disegnare.

Si possono subito individuare alcune categorie che iniziano a curarsi puntando verso alcuni sintomi isolati o genericamente verso una condizione di "stress", spesso provocato dal lavoro, da altre persone, da eventi negativi o da pensieri che ritengono fondati ma inevitabili. Si tratta di soggetti psicotici che riescono a chiedere aiuto per un malessere mentale, ma non possono vedere il "nocciolo" del loro delirio, semplicemente possono accettare inizialmente di avere meno angoscia, essere meno ossessionati dal pensiero stesso e viverlo con un umore migliore, e con maggiore capacità di distacco. Il delirio rimane una sorta di "macchia cieca". Non è però l'unico caso.

Nel disturbo ossessivo, quanto più l'ossessione riguarda sentimenti, elementi della vita reale, o preoccupazioni su rischi reali, tanto più viene vista come qualcosa con cui fare i conti. Il soggetto ossessivo quindi non tende a lasciar perdere l'ossessione, ma a macinarla, a risolverla con risposte e ragionamenti. Dal medico può quindi pretendere questo, anziché una cura, ovvero la discussione della propria ossessione da parte di una persona di cui si fida e che è tecnicamente competente.
Per questa via l'ossessione - è convinto - dovrebbe essere tenuta sotto controllo o risolta finalmente con una risposta esauriente. Questo percorso altro non è che quello naturale del disturbo ossessivo, lungo il quale il disturbo si aggrava, spesso con l'aiuto proprio di discussioni ragionate. In questo modo anziché focalizzare l'intervento sulla cura dell'ossessione, si parla del suo contenuto.

La medicina che tutti, anche chi è "contro i farmaci" non disdegnano è il tranquillante. Perfino nell'ipocondria grave, con rifiuto di assumere medicinali o necessità di saperne prima tutti i rischi (per poi spesso non assumerle o interromperle subito), il tranquillante invece è ammesso, e spesso consumato regolarmente o con modalità di abuso. Questa caratteristica dipende dal fatto che la tendenza al ricorso in urgenza e in stato di allarme all'ansiolitico è molto istintiva e molto legata alla parte di cui la persona si rende conto, anche in maniera sproporzionata, cioè l'ansia.

I malati non cercano urgentemente medicine che sanno esser loro utili, quasi mai in senso preventivo comunque. L'unica eccezione è appunto quella dei tranquillanti, che sono addirittura sopravvalutati nel loro potere sia di risolvere il panico, sia del prevenirlo.

Ad esempio, la persona con il panico ricerca l'ansiolitico perché convinto che se controlla l'ansia, non avrà l'attacco (il famoso meccanismo per cui qualche volta la persona pensa di suggestionarsi e di "farselo venire da solo" l'attacco). Questo dipende dal terrore dell'attacco, che è al centro dei pensieri della persona, e non da un ragionamento sugli effettivi meccanismi del panico e dell'ansiolitico.

Lo stesso principio vale per altre sindromi ansiose. La persona ossessiva usa l'ansiolitico per scacciare le ossessioni, ma le usa in maniera tale da convincersi che in questo modo può ragionare meglio e mandarle via, cioè scambia la funzione anti-ossessiva con una funzione di maggior lucidità per trovare una rassicurazione. In questo modo l'ansiolitico è una rassicurazione nella mente di chi lo assume, e non porta al miglioramento del meccanismo ossessivo, come tutte le rassicurazioni.

Il soggetto ipocondriaco o con disturbo somatoforme tende ovviamente ad avere analogo rapporto con i farmaci non psichiatrici, cioè focalizzare l'attenzione sul sintomo e usare farmaci indicati per quel sintomo (ma in altri disturbi). Conseguentemente il rapporto con il farmaco in chiave ipocondriaca diviene spesso assurdo: effetto che c'è "a volte sì, a volte no", farmaci assunti per mesi o anni in assenza di miglioramenti chiari, farmaci assunti e smessi dopo poco perché non efficaci (anche se in teoria dovevano coprire situazioni ancora da definire e comunque non immediatamente), farmaci totalmente diversi per diverse ipotesi diagnostiche assunti in contemporanea, per coprire tutte le possibili cause del sintomo in sé, e così via..

Il soggetto bipolare è alla ricerca dell'antidepressivo. Colpa anche del nome "antidepressivo", di solito si è convinti che un antidepressivo sia un farmaco per tener su l'umore, mentre invece si tratta di uno strumento utile in determinati disturbi, tra cui la depressione maggiore (come episodio). La ricerca o la rincorsa dell'umore con l'antidepressivo finisce sempre in un "nulla-di-fatto", e i sintomi specifici della depressione bipolare sono trattati per via antidepressiva con risultati inconcludenti. Se lasciato a sé, il soggetto bipolare tende ad un tipico schema di cura auto-gestito: antidepressivi combinati tra loro e con antipsicotici/sedativi.

Questa cura "sandwich" è il risultato dell'idea che i sintomi vadano gestiti ciascuno separatamente, alla ricerca di un cocktail o di una miscela che copre tutto e quindi produce un risultato completo e virtuoso. Invece, questo cocktail riproduce nient'altro che il disturbo bipolare, e infatti lo aggrava. Il soggetto bipolare ad esempio non assume mai i medicinali in funzione anti-maniacale, e i sedativi sono assunti per controllare ciò che la persona descrive come "ansia", "agitazione".

A ritroso è probabile che chiunque si presenti con una cura autogestita in cui ha ricreato un cocktail a sandwich, spesso condito da alcol o tranquillanti, abbia un disturbo dello spettro bipolare. Non è escluso che questo tipo di cocktail sia anche il risultato di cure empiriche, impilate un farmaco sopra l'altro a seconda dei sintomi denunciati di volta in volta: in altre parole se a suggerire la cura o a motivare il medico a cambiarla di volta in volta è il paziente, la cura finisce per iniziare con un antidepressivo e finire con un cocktail "a sandwich" tra antidepressivi e sedativi. Per inciso, è esattamente quello che i soggetti bipolari tendono a fare quando utilizzano droghe, cioè usarne pià di una e tipicamente una eccitante e una sedativa, nell'idea di trovare il giusto mezzo e sostenere l'euforia. I risultati sono allo stesso modo opposti, cioè il peggioramento del caos umorale.

Il discorso sulle dipendenze è a parte, nel senso che è già stato trattato in altre parti di questo spazio. Si ricorda solo che l'auto-cura del tossicodipendente è una cura per aspetti collaterali. L'auto-cura, quando non è un errore, è un modo per proseguire l'uso della sostanza eliminando aspetti che interferiscono, tipo l'assuefazione (che rende difficile e dispendioso sentire ancora bene la sostanza).

Quindi il dipendente tenderà a cure mirate all'astinenza o all'intossicazione, brevi, senza legame e soprattutto nessun legame con la medicina in sé, che può sospendere quando vuole. Le cure autogestite dei pazienti eroinomani con i medici spesso consistono nell'uso di farmaci di qualsiasi genere (antidepressivi, ansiolitici, etc) tranne che quelli oppiacei. Infatti, nell'ottica del tossicodipendente un "farmaco" ha senso così come lo ha una sostanza, per cui se è "buono" è utilizzato in maniera libera, se non è "buono" (così come i farmaci oppiacei terapeutici) è usato quel poco che serve, alle dosi minime (non efficaci) e sospeso il prima possibile.

L'alibi è una funzione (non esistente) di altri medicinali dal nome promettente (antidepressivo) sulla dipendenza, cosa che al momento non sussiste. La stessa visione la hanno anche soggetti dipendenti da altre sostanze, in cui le cure non sono prese in considerazione come strumenti di cura, ma come "sostanze" da usare contro alcuni sintomi in alcuni periodi. I farmaci anti-desiderio sono tipicamente visti come un "niente" che non si sa cosa ci stia a fare, e quindi sono sospesi o non compresi nella loro funzione.

In conclusione, la preferenza terapeutica o l'auto-cura sono da vedersi a tutti gli effetti come sintomi del disturbo. Sono aspetti che consentono di evidenziare in maniera spesso chiara e meno soggettiva le tendenze comportamentali proprie dei vari disturbi. Come uno concepisce le medicine, come le immagina, come le usa quando le ha a disposizione e su quali fa resistenza, sono tutti aspetti che seguono le dinamiche dei vari disturbi. Non dovrebbero quindi essere una guida per un migliore rapporto con il paziente (assecondando i suoi suggerimenti o le sue tendenze) o una guida per scegliere addirittura le cure perché siano gradite e anzi abbracciate dal paziente.

Data pubblicazione: 27 febbraio 2012

Autore

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1999 presso Università di Pisa.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Pisa tesserino n° 4355.

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1 commenti

#1
Utente 171XXX
Utente 171XXX

Il problema è forse anche quello di attribuire un potere "miracolistico" ai farmaci, mi spiego: nel mio caso il farmaco è indispensabile, però si tende a pensare che possa risolvere tutto, far sparire completamente nel mio caso il doc. Invece secondo me, almeno per quanto mi riguarda, una radice rimane, alle volte ci si ride sopra, alle volte da più fastidio, ma lo si deve accettare come si accetta un'artrite, basta che non rovini completamente la vita. Poi ci saranno anche quelli fortunati che guariscono del tutto.

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