Disturbo Bipolare: "La caduta" all'indietro dalla mania

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Lunedì scorso è andato in onda “La caduta”, il film che ricostruisce le vicende degli ultimi giorni di Hitler, nascosto insieme ad alcuni fedelissimi in un rifugio sotterraneo antiaereo, mentre l’armata rossa strada per strada avanza attraverso Berlino. La rappresentazione cinematografica coglie bene un aspetto, cioè quello della distanza, sempre più surreale, tra la volontà di vittoria di Hitler come guida del suo esercito, e il volgere rovinoso delle sorti militari. La caduta del regime hitleriano non si svolge quindi in un’atmosfera di resa, che una specie di sorpresa. Se ormai nessuno poteva più credere razionalmente in una vittoria, agli occhi di chi ha creduto nella vittoria della Germania, la resa è altrettanto incredibile, inimmaginabile. Le persone che prima o dopo depongono le armi, o semplicemente finiscono le munizioni, non sanno immaginare cosa verrà dopo la sconfitta. L’atmosfera in questione ricorda molto il ciclo ascesa e caduta del bipolarismo, in cui dalla vetta della mania si precipita in basso. Non si tratta appunto di una discesa, che gradualmente vede calare la quota e ridimensionarsi la prospettiva: si tratta di una caduta a picco di una grandezza che non ha il tempo di divenire nuovamente “a misura d’uomo”. Per questo quando la mania cade fa così male, e lascia un cratere come un meteorite che non ha il tempo di disintegrarsi e raffreddarsi prima di schiantarsi al suolo.

Certamente durante la caduta la grandiosità cambia tinta, e diventa tragica. Viene meno la visione della vittoria, si intravede la morte, la sconfitta. Eppure, non venendo meno la grandiosità, morte e sconfitta non sono una buona ragione per fare un passo indietro e pensare ad una ritirata strategica, sono semplicemente un muro contro cui continuare a correre a tutta velocità. Hitler stesso, nel tentare di trovare una spiegazione del fallimento, arrivò a concludere che il popolo tedesco non era stato abbastanza “convinto”: nella visione grandiosa, umorale, quel che non riesce non era stato sufficientemente voluto. Se volere è potere, non aver potuto è non aver voluto abbastanza. Così, nella mania, la persona che sta fallendo, non volta le spalle al progetto maniacale per tornare indietro sui suoi passi, e cercare una posizione più bassa meglio gestibile: dalla mania non si scende, si cade; e si cade all’indietro, con lo sguardo rivolto verso la vetta che si allontana. Il vissuto di una persona bipolare è infatti riferito sempre alla mania, ed è anche per questo che la depressione può essere molto intensa anche da un cratere poco profondo: la distanza dalla vetta è la profondità vera, la distanza dalla mania e dai suoi sogni irrealizzati e adesso impossibili.

Il momento più delicato è proprio la fase di transizione. Quando si passa alla fase depressiva, sul fondo del cratere, la persona ormai è vinta, ha dichiarato la resa, non può far altro e non vuole più fare altro. Quando però si sta sempre cadendo, spesso l’idea rimane sempre quella di rimanere coerenti con il progetto grandioso: se avesse avuto successo, sarebbe stata una celebrazione “euforica”, visto che invece ha fallito allora sarà una celebrazione tragica. Le ultime risorse, gli ultimi soldati dovranno essere sacrificati, non salvati. Così, negli ultimi giorni di Berlino, gli utimi civili rimasti, compresi donne e bambini, sono inquadrati nelle formazioni dei “lupi mannari”, che hanno il compito di spuntar fuori a sorpresa, muniti di una sola dotazione di armi (bombe a mano e panzerfaust) per distruggere uno a uno, strada per strada, i corazzati nemici. E’ ovvio che questa reazione non è essenzialmente militare, ma ideale. L’immagine di Hitler che passa in rassegna truppe di giovanissimi in uniforme è quindi una buona metafora della “mania mista”, cioè la mania in caduta, in cui la missione rimane ma le energie sono ridotte, rimane la spinta ideale ma la prospettiva gira verso la sconfitta certa. In alcuni casi, proprio in questa fase, la spinta del soggetto bipolare si amplifica ulteriormente, perché quando la meta si allontana la reazione si fa furiosa e ancora più tesa fino allo spasimo. E’ lo stesso tipo di fenomeno che si osserva nel soggetto tossicodipendente quando la droga non è più disponibile, il desiderio cresce spasmodicamente e diventa rabbioso.

Al di là delle metafore, il vissuto dell’ultimo Hitler, diciamo dall’invasione della Russia in poi, ricorda effettivamente la parabola di tanti generali vittoriosi e grandiosi nei loro progetti di conquista, che dopo rapide avanzate rimangono impotenti di fronte ad una “caduta” di rimbalzo. Il seme di questa caduta è proprio in una componente maniacale, e cioè la tensione e l’impegno concentrati sulla fase di ascesa, di espansione, con poca o scarsa pianificazione degli imprevisti e con scarsa capacità di attendere e di lasciar maturare le condizioni migliori per le mosse, di volta in volta. I generali dell’esercito, da tecnici militari, rimanevano perplessi di fronte all’atteggiamento “intuitivo”, quasi da divinazione, che Hitler aveva nel decidere le proprie mosse. Rimanevano inoltre perplessi per il fatto che l’unica lingua della guerra Hitleriana sembrava essere quella dell’attacco, e per l’atteggiamento paradossale di rilancio che Hitler aveva di fronte ai resoconti sempre più negativi. Un’interpretazione “bipolare” della guerra hitleriana vede quindi come unite in un unico ciclo la guerra lampo e la caduta. Il bipolare, quando è in mania, vola in alto per lo stesso motivo per cui cadrà in basso dopo, perché si sta muovendo su una ruota.

Intorno alla caduta del capo, si disegnano le storie, molto simili, di tutti gli altri gerarchi, ben descritte in un libro di Knopp dal titolo “Tutti gli uomini di Hitler”, o meglio “tutti i bipolari di Hitler”.

Data pubblicazione: 01 febbraio 2012

3 commenti

#1
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Utente 171XXX

Sulla presunta follia di Hitler sono stati spesi fiumi di parole. E' interessante notare come pressochè tutti i tedeschi lo seguirono fino alla fine e lo rimpiansero ancora per molti anni, anche dopo essere venuti a conoscenza dell' Olocausto. Disturbo bipolare collettivo?I tedeschi come popolo delle caverne, a loro agio solo in un clima di tensione continua, in parte artificialmente prodotto da Goebbels. E' anche vero che negli ultimi mesi di guerra si era craeta una sorta di "assuefazione alla morte" (vedi anche i miti di salò sulla "bella morte"). Probablimente a forza di vedere cadaveri dappertutto, la morte non importa più. Inoltre, si era creato una sorta di clima romantico per cui tutto doveva essere suggellato dalla morte, dalla catastrofe finale. Il fascismo e il nazismo sono due movimenti che hanno sempre visto nella morte e nel lutto la meta finale, secondo me. Il nazismo in particolare ebbe la sua ragion d'essere nell'esistenza di nemici, esisteva in quanto esisteva un nemico.

#2
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Dr. Matteo Pacini

Certamente l'idea di morte non aumenta l'evitamento della morte, come è facilmente desumibile dal fatto che gli uomini tendono collettivamente a cercare, o comunque non evitare, guerre per lo più decise da altri, e che non le interromponono automaticamente ai primi morti.
L'idea della grandiosità ha in sé la morte, perché è necessariamente intransigente e assoluta, e quindi non può realizzarsi "evitando" l'eventualità della morte, ma inglobandola e anzi facendone per assurdo il momento più alto (se non della morte in sé dello sprezzo della morte). Essere ultra-umano per essere veracemente umano. Questo tipo di concezione però non è limitata alle ideologie totalitarie o fasciste, si ritrova nel mondo militare in generale, e nelle popolazioni arcaiche, in cui il rischio della morte dà dignità alla vita. Nel mondo greco ad esempio la cosiddetta filo-psichia, cioè "tenerci alla pelle" era considerato un disvalore, una debolezza. Vender cara la pelle era un valore, ma appunto perché era una soluzione logica (cercare di sopravvivere e di prevalere) non attraverso l'evitamento del rischio (come nella filo-psichia).
Sulle figure dei capi assoluti si potrebbero fare ragionamenti simili, Hitler è solo un esempio e di fatto la dimensione dello spasimo finale come reazione alla sconfitta è comune a molti uomini di potere che non concepiscono la resa. E' stato ipotizzata una "malattia mentale" peraltro non documentata e senza elementi clinici definitivi, e una sindrome da intossicazione da stimolanti e tranquillanti nella fase finale, ma anche questa non risulta dai diari del dottore di Hitler, che sono stati recentemente pubblicati. Forse dietro presunti integratori si nascondono ingredienti non dichiarati che all'epoca già esistevano ed erano utilizzati in ambito militare (amfetamine), e che giustificherebbero anche il parkinsonismo (tremore involontario alla mano) che aveva Hitler negli ultimi giorni, ma anche qui niente di sicuro. Ci sono invece degli episodi indicativi di disturbo bipolare in altri gerarchi, tra cui Goebbels (depressione prima dell'adesione al nazismo) e Goering (tossicomania).

#3
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Utente 171XXX

In realtà pare che Goering non fosse un morfinomane, gli americani in prigione lo disintossicarono in e quattr'otto.Il mio professore di diritto penale parlava anche di una sorta di incapacità, da parte dei giovani (ventenni e trentenni) di rendersi conto della brevità e della insostituibilità della vita. Infatti i sacrifici sono quasi sempre compiuti da persone giovani. Quando si ha 50 anni ci si rende conto della brevità della nostra esistenza. Comunque di capi malati di bipolarismo è piena la storia, Napoleone, Murat. Anche uno mio grande conterraneo come il nostro caro Conte di Cavour, credevo fosse una persona equilibrata, invece ne ho letto la biografia e era sempre sull'orlo della depressione, ed una volta fu salvato dal suicidio da un servo. Suo nipote mori pazzo dopo aver cercato di ammazzare la sorella. Invece re Vittorio aveva delle crisi di notte e dovevano uscire per Torino a cercargli una prostituta perchè non ce la faceva più.Come vede l'Italia nasce sotto buoni auspici.

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