Michael Jackson e le morti da dipendenza

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

A proposito del caso Michael Jackson, emergono alcune informazioni mediche che meritano un commento.

L'artista è deceduto per arresto respiratorio avendo in corpo un insieme di sostanze oppiacee e benzodiazepiniche, oltre che un antidepressivo. Ultimamente però è emerso anche che aveva un "impianto" di antagonista degli oppiacei (non chiaro se sia naltrexone o naloxone a lento rilascio).

Questo non stupisce, e anzi chiarisce la dinamica degli eventi. L'antagonista oppiaceo è un tipo di farmaco che serve a impedire l'effetto degli oppiacei, ma non riduce il desiderio, semplicemente impedisce a chi usa oppiacei di sentire l'effetto. Nel tempo si può produrre un distacco dall'uso di oppiacei, e anche il desiderio di può ridimensionare, ma questo accade raramente, perché in 9 casi su 10 la persona smette di assumere il naltrexone per poter tornare a sentire l'oppiaceo. Per questo più recentemente si è inventato "l'impianto", cioè una specie di serbatoio che basta per un tot di tempo, in maniera che per questo periodo la persona sia "bloccata" e non possa sentire gli oppiacei che si fa.

Anche in questo caso però i rischi rimangono, e anzi possono aumentare. Poiché il desiderio non si riduce subito, e anzi subito può subire un'impennata, la persona proverà in tutti i modi a scavalcare il blocco degli effetti: un modo può essere usare mega-dosi di oppiacei, un altro abbinare agli oppiacei altri prodotti che ne amplificano gli effetti, ma che funzionano solo se l'oppiaceo agisce, e non finché è bloccato. Per questo tipicamente le persone sotto antagonisti come il naltrexone tendono a "riempirsi" di sostanze diverse, con il rischio che appena un poì di oppiaceo riesce a superare il blocco, l'effetto compare in maniera esplosiva, e non controllabile (overdose).

ll cocktail quindi sarebbe stato composto da idromorfone, petidina (meperidina), idrocodone (tre oppiacei) assunti recentemente, amplificati da tranquillanti di tipo benzodiazepinico, e combinati al naloxone/naltrexone a lento rilascio, che bloccava l'effetto di tutti questi. In più, vi era un antidepressivo che condivideva alcune proprietà stimolanti con la petidina.

Il quadro effettivamente somiglia a quello di una dipendenza da oppiacei, che qui erano i farmaci chiaramente ricercati in maniera priva di controllo, poiché prima era stato fatto un impianto per non poterli più sentire (il che indica che la persona riteneva di dover ricorrere a questo strattagema per evitare di usarli in maniera ripetuta e pesante) ma poi la stessa persona ricercava questi farmaci combinandoli anche insieme, nel tentativo di sentire qualcosa. Questi più che altri, visto che se si fosse trattato di controllare il dolore, il sonno, o altro ci sono medicinali che non funzionano con un meccanismo oppiaceo e quindi possono essere usati senza problemi di conflitto con il naloxone/naltrexone.

I casi come questo nella pratica clinica sono numerosi, e le overdose che ne risultano non sono né errori, né fatti imprevedibili, ma sono morti da dipendenza, perché il comportamento che crea il cocktail mortale, o che espone al rischio di effetti mortali, è proprio quello della dipendenza. Sono frequenti i casi di overdose tra chi esce dal carcere dopo essere stato "disintossicato", o anche da una clinica, o da una comunità dove non ha usato niente. I casi di overdose in queste situazioni sono addirittura più probabili che non "per strada", cioè in persone che stanno usando regolarmente oppiacei d'abuso, e derivano dalla combinazione di un desiderio alto, o che ritorna in maniera esplosiva all'uscita nell'ambiente libero, all'assenza di una cura che protegga dal desiderio e quindi dall'overdose. L'overdose si genera perché il desiderio è misurato su "quanto uno desidera", e quindi "tutto quello che ha", oppure "tutto insieme", o ancora "l'ultima dose assunta" prima della disintossicazione.

Chiaro che quindi non è un errore d'uso, ma un uso privo di contollo. Le terapie protettive sono quelle a base di agonisti, cioè di metadone o buprenorfina, con cui ogni tossicodipendente dovrebbe uscire da carceri, comunità o cliniche, almeno per evitare questo tipo di eventi, e poi per cercare un controllo e una riabilitazione completi CON, e non SENZA, la terapia oppiacea addosso.

 

http://www.huffingtonpost.com/2009/06/27/michael-jacksons-supposed_n_221808.html 

http://sandrarose.com/tag/naltrexone-implant/ 

Data pubblicazione: 02 maggio 2013

3 commenti

#2
Foto profilo Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Dunque, ci sono alcuni punti da chiarire.
1. L'impianto è un'iniezione, quindi non c'è niente di evidente all'ispezione autoptica, né alla dissezione o alla radiologia. Si tratta di una miscela a lento assorbimento iniettata con una siringa nel tessuto del muscolo. La "notizia" mio sembrava comunque più recente dell'autopsia, quindi allora forse non era venuta fuori la questione del naltrexone.
2. I medicinali dosati nei fluidi corporei sono stati quelli trovati sulla scena della morte, per stabilire se e quando ne avesse fatto uso, oltre a comuni droghe d'abuso (devono aver raccolto informazioni da qualche fonte, perché sono inclusi anche ossicodone e idromorfone appunto, oltre che codeina, che di solito non si cercano così di routine (si cerca la morfina, cocaina, amfetamine, benzodiazepine e thc). Quindi la ricerca degli oppiacei sembra "mirata".
3. Nel fluici corporei risulta il propofol e alcune benzodiazepine (midazolam e lorazepam), oltre che efedrina (c'era un medicinale antidolorifico-antinfluenzale che ne conteneva).
Curiosamente c'erano lidocaina e flumazenil (la lidocaina già comprata con ricetta). Potrebbero essere farmaci che hanno usato i rianimatori, ma da come sono elencati e dalla data della ricetta sembrerebbero proprio farmaci che erano lì tra i suoi. Strano che uno abbia farmaci che servono per essere rianimato in caso di arresto cardiaco e di intossicazione da benzodiazepine (il flumazenil serve specificamente a questo e chiaramente ci vuole qualcuno che lo somministri alla persona che è in coma).

#3
Foto profilo Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Il messaggio rimane lo stesso. Questo tipo di morti sono legate non solo all'intossicazione (in questo caso da propofol-benzodiazepine), ma dalle modalità con cui le persone le usano. Se le modalità rispondono ad un istinto ad assumerle insieme, ripetutamente, in maniera rischiosa pur di provare ad ottenere un effetto (sedativo o altro), si creano dei rischi che altrimenti risulterebbero fin troppo ovvi.
Chi ha un desiderio per varie sostanze, tra cui oppiacei o sedativi, tende a intossicarsi non tanto per sbaglio o per superficialità, ma per perdita del controllo sul tipo di dosi che "carica" e su ciò che associa.

La notizia in sé potrà rivelarsi falsa forse, però non sarebbe strana se invece fosse vera. Non mi sembrerebbe neanche disdicevole o "denigratoria", nel senso che la questione del propofol-benzodiazepine già di per è indicativa di una certa situazione (che non costituisce motivo di vergogna in ogni caso), poi se c'era anche una medicina che doveva in teoria servire per migliorare le cose, non vedo cosa cambi.

Da come la mette l'autopsia (omicidio) è ovvio che l'uso improprio di quelle medicine ha prodotto un effetto letale che era nei rischi prevedibili, ma quel tipo di trattamento non mi pare plausibile che sia una trovata del medico e basta. Non sarebbe strano se un medico, sollecitato a trovare qualcosa di "potente" per addormentare una persona in maniera controllata si fosse improvvisato anestesista per compiacere il paziente, senza seguire alcun principio curativo, ma seguendo una richiesta di tipo tossicomanico.

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