La volpe e l’uva: autoinganni e dissonanza cognitiva
Il concetto di autoinganno è fra i più usati in terapia breve strategica. Esso non è nuovo ed è vicino ad altri ben noti e studiati in psicologia come l’aspettativa, la razionalizzazione, la profezia autoavverantesi, l’effetto Rosenthal e la dissonanza cognitiva.
Gli antichi pensatori si erano resi conto che le persone si comportano e fanno dichiarazioni in base a un effetto che potrebbe essere definito: “L’abbiamo fatto apposta”. Per soddisfare l’umano bisogno di sentirsi in un certo modo, ci si convince che una data realtà interna o esterna sia diversa da com’è. Potrebbe essere meglio, ma siccome è peggio ci accontentiamo. Ci si fa bastare ciò che sentiamo di avere a disposizione.
Narra la fiaba di Esopo che una volpe voleva mangiarsi dell’uva che aveva visto alta su dei filari, ma non riuscendo a raggiungerla saltando, se ne andò brontolando fra sé e sé: “Tanto era acerba!”
La volpe mette in atto un autoinganno per ridurre la sensazione di scorno e delusione. Il senso apparente della conclusione dell’astuta volpe sembra: “Tanto era acerba, anche se l’avessi raggiunta non ne avrei tratto un piacere così grande. Perciò non vale la pena prendersela”.
Il ragionamento che però accade realmente, più o meno consapevole, è questo: “Quell’uva sembrava ben matura e succosa, ma siccome non sono riuscita a raggiungerla, per non sentirmi un’incapace mi convinco che fosse acerba”.
Un autoinganno consiste nel prendere dei dati di fatto, nel modificarli o distorcerli anche a costo di mistificarli, allo scopo di ricavarne maggiori sensazioni di autostima, serenità o soddisfazione.
È un processo che ognuno di noi compie di continuo senza rendersene conto. A nessuno piace sentirsi incapace, stupido, inadeguato, impotente o immorale. Perciò, costretti a confrontarsi con gli scogli aguzzi della realtà, gli esseri umani s’inventano convinzioni o atti di segno opposto per ridurre l’impatto e l’intensità delle sensazioni sgradevoli.
Ma si può far di meglio: si può elevare la mancanza a virtù.
Esempio tipico degli anni 70: il proletario che poteva al massimo permettersi una Fiat 127, modesta utilitaria, riempendola però di tutto il kitsch e gli orpelli immaginabili: antennona lunga ripiegata su stessa, impianto stereo da 1.000 W, tappetini di leopardo, sedili in pelle, doppia marmitta con tappo rosso a croce, sterzo e pedali da competizione, cofano in posizione leggermente aperta (per meglio raffreddare il “potente” motore), pneumatici ribassati. L’epitome del vorrei ma non posso.
Altro esempio è il forzato dello sport non professionista, che si costringe a esercizi fisici massacranti - pagando magari bei soldi in quote associative - pur di ricavarne un qualche senso di adeguatezza. Dovendo fare i conti con quel fondamentale vuoto di autostima che madre natura, impietosa, gli ha scavato dentro, solo così riesce a dar senso alla propria vita. Vittima del proprio autoinganno, riesce addirittura a capitalizzarvi: ostenta ghigni di superiorità verso chi, molto più tranquillamente, non aveva lo stesso vuoto da riempire. Un simpatico autoinganno costruito su un autoinganno: “Voi non riuscite a correre un mese di seguito senza mangiare, ma io sì! Voi siete delle pappemolli, io invece sono in gamba!”
Si tratta evidentemente di casi estremi, nulla a che vedere con chi pratica sport da professionista o dilettante o con chi aspira semplicemente a mantenersi in buona forma fisica.
Altro esempio ancora è quello che pretende e cerca sempre il meglio, in tutto. Tutto si trasforma in occasione di confronto e solo chi sta in cima ai ranghi è degno di essere preso in considerazione. Il resto non conta. I primi arrivati, i più ricchi, i più capaci, i più bravi, chi ha il sito più visitato, chi ha il Page Rank più elevato. Ovviamente il nostro non mancherà di far notare di sfuggita come lui sia piuttosto ben collocato in una o più di queste classifiche.
Fumo e dissonanza cognitiva
Comuni autoinganni sono anche le giustificazioni addotte per l’abitudine al fumo. Interrogato sul perché fumi, non esiste praticamente individuo che, a fronte dell’enorme mole di ricerca ormai accumulata sui danni perniciosi prodotti dal vizio, non replichi prima onestamente, ammettendo di sapere a cosa potrebbe andare incontro, ma solo per ribattere subito dopo con una o più frasi tipiche:
1) “Cos’è che non fa male a questo mondo? Il fritto, non fa male? E il mercurio nei pesci? E gli anticrittogamici? E ad andare in macchina, non si rischia grosso?”
2) “Eh, lo so, ma di qualcosa bisogna pur morire! Tanto vale godersela, nel frattempo.”
3) “Tanto, smetto quando voglio.”
Si tratta evidentemente di autoinganni, di razionalizzazioni per ridurre l’ansia del sapere di essere preda di un vizio pericoloso. Le traduzioni sono rispettivamente:
1) Cecità selettiva (scotoma percettivo): decido di non vedere l’ovvio, ma sono attentissimo a tutto il resto.
2) Non riesco a ricavare molto piacere dalla vita; uno dei piaceri più grossi che ho è il fumo.
3) Purtroppo, non sono capace di smettere.
La psicologia sociale ha studiato a lungo quest’abitudine, ad esempio nell’ambito del fenomeno noto come dissonanza cognitiva. Il concetto si deve a Festinger e in modo semplice può essere riassunto così: quando un individuo mette in atto idee o comportamenti fra loro coerenti, si produce una situazione di assonanza cognitiva; quando invece le idee o i comportamenti attivati sono incoerenti, si produrrà dissonanza cognitiva; la dissonanza a sua volta provoca disagio, che la persona tenterà di ridurre modificando o l’idea o il comportamento, al fine di ripristinare l’assonanza.
L’indagine sperimentale della dissonanza cognitiva iniziò con la pubblicazione da parte di Festinger di Venti dollari per una menzogna, uno studio basato sul cosiddetto accordo forzato (forced compliance). Lo studio generò un mare di ricerche successive, tanto da rendere l’argomento uno dei più studiati (se non il più studiato) in psicologia di tutti i tempi.
Lo schema sperimentale era il seguente. A un gruppo di soggetti venivano offerti 20 dollari per dire una piccola bugia, ossia riferire ad altri soggetti ignari che un certo compito che si apprestavano a fare sarebbe stato interessante, quando invece era noiosissimo. A un altro gruppo di soggetti veniva assegnato lo stesso compito menzognero, ma la ricompensa era di un dollaro soltanto. Secondo la teoria comportamentista del rinforzo, all’epoca il paradigma dominante, avrebbe dovuto essere più convincente - e convinto - nel mentire chi riceveva 20 dollari. Invece il risultato fu l’opposto: chi ricevette un solo dollaro non solo risultò più convincente nel mentire, ma anche più convinto nel giustificarsi per aver dovuto dire una menzogna.
L’interpretazione del fenomeno di Festinger e collaboratori fu che la sgradevole sensazione del sentirsi disonesti, per aver dovuto mentire, poteva essere ridotta meglio da una ricompensa piccola anziché da una grande. Infatti, se la ricompensa era piccola significava tutto sommato che la menzogna non era così grave. Se invece ricevevo ben 20 dollari per mentire, cifra che 50 anni fa era ben più consistente di oggi, voleva dire che “la stavo raccontando grossa”. E alla maggior parte delle persone non piace dare o avere di sé l’immagine del contaballe.
Con esperimenti altrettanto ingegnosi è stata studiata l’abitudine al fumo. Le conclusioni sono che autoconvincersi o convincere qualcuno a smettere di fumare può essere un’impresa ardua, essendo implicati oltre a convinzioni e motivazioni personali anche valori, risvolti sociali ecc.
Leggendo autori controversi come Allen Carr (Smettere di fumare è facile se sai come farlo) sembra che un mezzo potenzialmente efficace consisterebbe nel togliere al fumatore la possibilità di crearsi alibi, ovvero impedire la creazione di autoinganni protettivi, inchiodando la persona a un’idea tanto semplice quanto spietata: se fumi, sei uno stupido. Senza però dirlo in modo diretto. A sentir l’autore, il suo metodo funzionerebbe - quando funziona - perché riuscirebbe a far capire alla persona che il fumo è una dipendenza, non un piacere. Ma leggendo il libro è difficile non sentirsi davvero stupidi, mettendosi nei panni del povero fumatore. Chi afferma di aver smesso di fumare leggendo il libro, quindi, si è probabilmente trovato a sperimentare una dissonanza per eliminare la quale il modo più semplice consisteva nello smettere di fumare, ossia cambiare il comportamento dissonante. “Se fumo, vuol dire che sono stupido. E siccome non voglio avere di me stesso quest’idea, preferisco smettere di fumare”.
Ma non c’è limite alle forme svariate sotto le quali l’autoinganno può manifestarsi. A volte il bisogno di salvaguardare un’autostima debole e traballante è così forte e pressante, da trasformare gli ex-fumatori in una specie di nazisti anti-fumo. Esistono individui che dopo aver smesso di fumare sono diventati persecutori implacabili di tutti i sordidi peccatori che ancora indulgono nel vizio. Non perdono occasione per lanciare strali, per mettere gli infedeli di fronte alla Verità che loro sono stati in grado di abbracciare: se li vanno a cercare nei luoghi frequentati da fumatori - assorbendo loro stessi fumo passivo - pur di diffondere il nuovo Credo. Tanto, nel loro intimo sanno già che sarà difficile convincerli. La debole autostima resta così al sicuro.
Traduzione: “Mi stimo così poco, che l’unico modo che ho trovato per innalzarmi è sminuire chi ancora fuma”.
Procedendo ancora, ci sono coloro che predicano bene e razzolano male, ossia che ancora fumano, ma che vorrebbero insegnare a tutti come difendersi dal cancro. Si tratta di persone che in genere hanno studi formali o da autodidatti alle spalle e sanno tutto sulle cause e sul rischio tumori. Peccato, però, che fumino...
Anche qui è in azione una forma di cecità selettiva: vedo tante pagliuzze, ma non la trave. “Mangiate questo, non mangiate quello, utilizzate quest’integratore, che previene il cancro. Come, tu non previeni il cancro? E allora che razza di essere umano saresti?”
Traduzione: “Non riesco a smettere di fumare. Però so che il fumo provoca il cancro. Perciò mi sforzo di prevenirlo in tutti i modi possibili. Ma non smettendo di fumare, perché non ci riesco”.
Tutti i casi esemplificati finora sono autoinganni funzionali di tipo compensativo, ossia hanno la funzione di ristabilire un minimo di equilibrio e serenità. Si parte da una situazione di svantaggio e si ricorre all’autoinganno per “raccontarsela”, ovvero per illudersi più o meno benevolmente che il problema non esista o stia da un’altra parte.
Autoinganni e psicologi
Ce n’è anche per gli psicologi.
Alcune persone con problemi psicologici decidono d’iscriversi alle facoltà di psicologia animati dalla seguente convinzione: “Studiando a sufficienza, alla fine riuscirò a guarire anche me”. Si tratta della stessa convinzione ritenuta anche da gran parte degli utenti che scrivono agli psicologi di questo sito: “Dottore, mi dica cosa devo sapere o capire per guarire dalla mia ansia”.
La differenza è che l’utente è meno raffinato, perciò non si accorge d’incorrere in un paradosso: “Mi rivolgo a voi, psicologi, perché mi diciate come poter fare a meno degli psicologi”.
L’aspirante psicologo turbato, invece, ci si mette d’impegno. Fa le cose per benino. Studia lunghi anni per addivenire alla conclusione che ha sempre gli stessi problemi, solo è diventato dottore. La tentata soluzione dello studiare psicologia si è trasformata nel riconoscimento ufficiale di poter aiutare gli altri, sulla premessa fallace e non dimostrata che: “Se sono in grado di aiutare gli altri, allora dovrò saper aiutare anche me stesso”. Ed è proprio qui che casca l’asino, anzi l’autoinganno: saper aiutare gli altri non è automaticamente garanzia di saper aiutare se stessi. All’università il concetto viene ribattuto quasi ogni giorno, ma all’inizio lo studente lo nega: “Con me sarà differente”. Ma quando ormai, anno dopo anno, corso dopo corso, lo avrà capito davvero, sarà troppo tardi: gli mancheranno pochi esami per laurearsi e smettere ora sarebbe una sciocchezza.
Non c’è limite all’intensità cui si può giungere con le ipersoluzioni, insegna Watzlawick. Si può sempre far di meglio (e di peggio): “Ma certo! Se l’università non è stata in grado d’insegnarmi ad autocurarmi, basterà che m’iscriva a una scuola di specializzazione post-laurea in psicoterapia!”
Perciò l’aspirante terapeuta si sottoporrà al suo bravo pellegrinaggio, frequentando gli open day organizzati dalle varie scuole per poi scegliersi quella di suo gradimento. Disposto a pagarsi altri 4 o 5 anni di formazione in un istituto privato, dopo i 5-6 dell’università più l’anno di tirocinio obbligatorio, il nostro eroe è deciso ad andare fino in fondo.
Ma durante la scuola di specializzazione la frustrazione aumenta. Un po’ per le sollecitazioni e le punzecchiature che gli arrivano dai didatti dalla scuola - per scopi formativi - un po’ per l’autoguarigione che non arriva, il futuro aspirante psicoterapeuta turbato è sempre più smarrito.
E non sempre una psicoterapia gli potrà esser d’aiuto. Specie se imposta dalla sua scuola di specializzazione. Già stressato di suo, il poveretto deve pagarsi pure la terapia obbligatoria oltre alla retta, il materiale didattico, le trasferte. Esasperato, potrà con facilità giungere a un autoinganno di questo tipo: “Meno male che almeno sto andando in terapia, altrimenti scoppierei!”.
A cui si potrebbe rispondere, a buon titolo: “No, meno male che sei così bravo a raccontartela così bene!”
Amore e autoinganni
È però in campo amoroso che l’autoinganno si mostra in tutto il suo affascinante potere. Infatti, per dirla con Proust: “L’amore è il più sublime degli autoinganni”.
Tutti abbiamo conosciuto persone che decidono di rimanere in una relazione ormai logora (“In fondo, l’amo ancora”) quando non ci sarebbe bisogno di essere psicologi per capire che la reale motivazione è la paura di affrontare un periodo di solitudine post-separazione, con le incertezze che ne conseguono. E mettiamoci pure il timore dei costi economici, dato che non tutti oggi possono permettersi il lusso di una separazione.
Ancora: tutti abbiamo saputo della donna a cui, guarda caso, la vita ha riservato solo partner violenti o abusanti.
E tutti abbiamo sentito gongolare nostra moglie, di fronte a un superbo esemplare di specie femminile che esibisce se stessa in televisione: “Uh, guarda! Ha una smagliatura di 0.1mm sul lato interno della coscia! Come sarebbe a dire: ‘Dove’? Lì, non lo vedi?!”
Tutti abbiamo visto persone attraenti e intelligenti stare con altre non così belle e non così intelligenti. Anche qui la parola d’ordine è: accontentarsi, farsi bastare ciò che passa il convento, sulla premessa che: “Valgo poco, quindi non potrei aspirare a niente di più”.
Infatti, come ammoniva Nietzsche: una cosa bella non ci piace, se non ne siamo all’altezza.
Ma può anche darsi il caso opposto (per fortuna): aspettandosi che una cosa buona accada, si riescono a creare le condizioni per far sì che accada davvero. Una profezia autoavverantesi resa possibile dalla forza dell’aspettativa. Ad esempio, rovesciando l’esempio sopra, la persona poco attraente o poco intelligente che sta con una molto attraente o molto intelligente.
Fede e dissonanza cognitiva
Anche la fede può esser letta in termini di autoinganno.
Festinger riuscì a infiltrarsi con dei colleghi in una setta religiosa basata sugli UFO. Dagli alieni del pianeta Clarion, gli umani veninvano avvertiti dell’imminente pericolo di un’alluvione, che avrebbe spazzato via la vita dal pianeta prima dell’alba del 21 dicembre 1954.
Il culto riesce a convincere i fedeli della necessità di riunirsi prima della mezzanotte di tale giorno, in un luogo dove un alieno sarebbe arrivato per scortarli fino all’astronave madre e trarli in salvo. Come suggerito, i fedeli rimuovono ogni oggetto metallico dal proprio corpo: occhiali, cerniere, chiusure di reggiseno ecc.
Alle 00:05 il gruppo si trova sul luogo prestabilito, ma l’alieno non è ancora arrivato. Qualcuno fa notare che altri orologi segnano le 23:55. Il gruppo concorda perciò che non è ancora mezzanotte (già un autoinganno collettivo, di per sé).
Alle 00:10 un altro orologio batte la mezzanotte. Ancora niente alieni. Il gruppo siede in silenzio, atterrito: al cataclisma mancano non più di poche ore.
Alle 04:00 la leader del gruppo, che aveva ricevuto i messaggi alieni attraverso la scrittura automatica, scoppia a piangere. Si tentano spiegazioni del perché gli alieni non si siano fatti vedere.
Ore 04:45, un altro messaggio in scrittura automatica è inviato alla signora: afferma che il Dio del Culto ha deciso di risparmiare gli umani dall’estinzione, il cataclisma non avrà luogo. “Il vostro piccolo gruppo, riunendosi in così religiosa osservanza, ha diffuso talmente tanta luce da convincere il Dio a salvare l’intera umanità”. È un tripudio.
Il mattino successivo la leader e i suoi fedeli rilasciano entusiastiche interviste ai giornali: la loro fede è diventata più forte che mai, malgrado la disconferma.
La storia è descritta nel libro When Prophecy Fails (Quando la profezia non si avvera) di L. Festinger, H. Riecken e S. Schachter.
Conclusioni
L’autoinganno sembra esprimere la capacità degli esseri umani di far avverare la cosiddetta Preghiera della serenità: “Signore, fa’ che possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, e l'intelligenza di saper distinguere fra le due”.
Possiamo affermare, pertanto, che la qualità della vita non dipende dalla presenza o assenza di autoinganni, ma dalla funzionalità degli autoinganni che ognuno di noi è in grado di scegliersi. Perché tanto saranno sempre con noi.