La diagnosi psicopatologica ed il problema della sua validità culturale

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Dr. Armando De Vincentiis Psicologo, Psicoterapeuta

Uno dei primi tentativi di inquadrare le patologie psichiatriche sotto categorie diagnostiche che potessero essere esplicative di tutte le razze, a prescindere dalle culture, fu uno dei padri della moderna psichiatria Emile Kreapelin

Corre all’impazzata tra le strade, urla, ferisce la gente gravemente, dimentica subito dopo l’accaduto. Di quale sindrome psichiatrica può trattarsi?
Secondo quale categoria diagnostica può essere spiegato un tale comportamento?

Uno dei primi tentativi di inquadrare le patologie psichiatriche sotto categorie diagnostiche che potessero essere esplicative di tutte le razze, a prescindere dalle culture, fu uno dei padri della moderna psichiatria Emile Kreapelin, già alla fine del 1800. Attraverso uno studio che lui definì psichiatria comparativa, mediante l’osservazione ed il confronto dei disturbi psichiatrici in diverse parti del mondo, si convinse di una certa uguaglianza di questi ultimi. Egli osservò che le manifestazioni comportamentali dei pazienti psichiatrici ricoverati negli ospedali dei vari paese erano sovrapponibili a quelli presenti in Germania, paese dal quale il medico proveniva. Kreapelin, però, non considerò il fatto che osservava qualcosa di fortemente condizionato dal contesto di contenimento di questi malati che tendeva ad uguagliare e a categorizzare i loro comportamenti, “il manicomio”. Tuttavia, sentiva l’esigenza di effettuare una classificazione per tipi, classi e categorie basate esclusivamente sull’osservazione dei fenomeni in sé, al pari delle scienze naturali.

Nel tentativo di classificazione, Kreapelin espresse una certa difficoltà quando, in un suo viaggio, si trovò di fronte ad un tipo di manifestazione difficilmente inquadrabile in qualche categoria. Ebbe a che fare con una strana sindrome in cui certi individui correvano all’impazzata tra la folla governati da una sorta di raptus omicida urlando ripetutamente “Amok! Amok! “ per poi dimenticare completamente l’accaduto.

Erano i cosiddetti corridori di Amok, individui spinti da un comportamento dettato da una specie di inconscia protesta verso alcune condizioni di vita del luogo (Malesia) e che, dagli stessi abitanti, veniva considerato normale a tal punto da ritenere questi corridori dei veri e propri eroi, gli unici in grado di ribellarsi ai soprusi. Essendo tuttavia fuori dalla norma e dalla sua cultura, Kreapelin classificò tale comportamento come l’espressione di una malattia mentale. In seguito, altri autori lo definirono invece come una manifestazione (sindrome) legata alla cultura (Coppo, 1996).

Diversi possono essere gli esempi clinici, anche attuali, che evidenziano come una categorizzazione diagnostica possa essere piuttosto fuorviante quando si estrapola il comportamento di un individuo dal suo mondo, quest’ultimo inteso come quel particolare contenitore in cui si condividono credenze, simboli e tradizioni tipiche di una cultura o di una micro cultura in essa inserita.

Un esempio è dato dal caso clinico di una donna meridionale che, dopo la morte del coniuge ed il trasferimento in una città settentrionale, fu ricoverata per deliri e allucinazioni poiché veniva vista parlare, dai parenti nordici, con la foto del marito e ad intrattenersi in interi discorsi. Un’abitudine che fondava le sue radici nella tradizione del suo paese e adottata da quasi tutte le donne anziane del luogo.

Giorgio Nardone, nel suo saggio Manuale di sopravvivenza per psicopazienti , riporta un caso simile in cui una donna, scambiata per folle da un gruppo di infermieri, reagì in un modo piuttosto vivace (come farebbe chiunque) da confermare ogni suo atteggiamento come patologicamente aggressivo e ogni espressione verbale fu vista come la conseguenza del suo disturbo psichico.

Non solo la diagnosi ma la stessa prognosi di una determinata patologia mentale varia a seconda dell’approccio culturale e teorico sulla sua eziopatogenesi. Nel suo saggio Etnopsichiatria Piero Coppo evidenzia che l’evoluzione della schizofrenia non è legata alla natura del disturbo ma a fattori sociali, relazionali ed ambientali e che la prognosi è peggiore se il curante ha delle aspettative di inguaribilità nei suoi confronti.

Come ribadisce Coppo, ogni modello teorico, nelle sue azioni, conferma la cultura da cui deriva, lo psichiatra farmacologo convalida il contesto scientifico che produce il farmaco mentre scrive la sua ricetta e il terapeuta , durante la messa appunto della sua tecnica psicoterapica, partecipa alla convalida della sua teoria.

C’è da considerare, quindi, che durante la formulazione di una diagnosi, lo stesso diagnosta, in qualità di osservatore e portatore di una cultura, non ha un ruolo passivo in tale processo. Come afferma Haley, l’osservatore deve considerare che il risultato di un lavoro diagnostico non è qualcosa che esiste indipendentemente da lui, ma che lui stesso ha contribuito a costruire sulla base del suo modello teorico di appartenenza.

La diagnosi ha un valore se essa non la si considera come un criterio assoluto e definito una volta per tutte ma solo come un mezzo la cui funzione è quella di raccogliere informazioni necessarie per intervenire terapeuticamente. La diagnosi, in psicopatologia, è operativa se si orienta innanzitutto su come una malattia si esplica (anche culturalmente) affinché si possano attuare delle soluzioni in grado di interromperne la sua espressione. Quindi una diagnosi deve essere, prima di ogni cosa , una diagnosi culturale tesa non solo a valutare il retroterra di un paziente ma, in virtù di quanto detto, anche il retroterra culturale dello stesso diagnosta che con quello del paziente può incontrarsi o scontrarsi.

In tal modo si eviterà il rischio di classificare come malata una semplice espressione culturale (si veda la povera donna meridionale) o, al contrario, classificare come normale, perché possibili nella cultura di appartenenza del diagnosta, alcuni comportamenti realmente patologici. Esempi di quest’ultimo processo sono le visioni della Madonna che, in un contesto cattolico, non sono considerate come allucinazioni ma autentiche possibilità sovrannaturali.

Fonti:

  • Piero Coppo, Etnopsichiatria, il saggiatore, Milano 1996.
  • Giorgio Nardone : manuale di sopravvivenza per psico-pazienti - Ponte alle grazie editore 1994 – 2002.
  • Marisa Malagoli et al. Dall’individuo al sistema, Boringhieri, Torino, 1992.
Data pubblicazione: 02 giugno 2010

Autore

a.devincentiis
Dr. Armando De Vincentiis Psicologo, Psicoterapeuta

Laureato in Psicologia nel 1996 presso Università La sapienza di Roma .
Iscritto all'Ordine degli Psicologi della Regione Puglia tesserino n° 1371.

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