Case di paglia, case di mattoni: crisi economica e depressione
Siamo in guerra. É una guerra economica che colpisce più o meno tutta l’Europa.
Non è una guerra dichiarata, non c’è un nemico che possiamo odiare, temere, combattere, anche se i vari partiti politici fanno a gara per indicare questo o quel colpevole. Leggiamo sui giornali, ascoltiamo in televisione i continui bollettini di guerra, ci sono i caduti, quelli che non ce l’hanno fatta: fabbriche che chiudono, aziende che falliscono, imprenditori che si uccidono. Camminiamo per città bombardate, fra cartelli “affittasi”, “vendesi”.
Ricordate la favola del lupo e dei tre porcellini? Il porcellino che si salvava era quello con la casa bella grossa, solida, di mattoni. Oggi forse la favola andrebbe riscritta al contrario: il porcellino più furbo è quello con la casa di paglia, tanto il lupo arriva, ed è un lupo grosso, che butta giù anche le case più resistenti. La casa di paglia vola via, ma il porcellino scappa veloce, tanto non ha carichi da portare. Quell’altro con la casa di mattoni ci resta sotto, schiacciato.
Per alcuni questo periodo è più difficile, perché si sono identificati col loro lavoro e con la sicurezza economica che ne deriva: la perdita del posto di lavoro, le difficoltà economiche, il fallimento, è il fallimento della loro vita. Si chiudono in se stessi, pieni di rabbia e di disperazione, e a volte arrivano a gesti estremi.
Non ci sono ricette precostituite per evitare l’amarezza e l’angoscia che accompagnano questo periodo storico: “le magnifiche sorti e progressive” sono il passato, e il futuro è incerto.
Però non bisogna colpevolizzarsi, pensare che non si trova lavoro o lo si è perso perché non si è abbastanza bravi.
I familiari devono prestare attenzione, perché chi si isola, rifiuta di parlare dei problemi, non vuole vedere più gli amici, può avere un problema di depressione che si può e si deve curare.
É importante parlare con gli amici, condividere le preoccupazioni e non vergognarsi di non avere più un certo tenore di vita. Anche i figli vanno resi partecipi se sono abbastanza grandi, i bambini si angosciano di più a vedere facce tristi e occhi gonfi senza sapere il motivo delle preoccupazioni.
Dopo l’ultima guerra mondiale la gente non solo non aveva il lavoro, ma spesso neanche la casa, perché bombardata, bruciata, saccheggiata. In Italia c’erano vedove, orfani, mutilati, c’erano epidemie di tifo, c’era la malnutrizione, il rachitismo; eppure in qualche modo gli italiani ce l’hanno fatta, e il futuro dei loro figli è stato molto migliore. Noi siamo i nipoti e i pronipoti di quelle persone, forse abbiamo dimenticato qualcosa lungo la strada, qualcosa che non si trova sull’i-Pad, e che si chiama solidarietà, è l’attenzione verso chi ci è vicino e sta soffrendo, è l’aiuto a chi non ce la fa più da solo. Non è retorica, il volontariato e la solidarietà sono ottime ricette antidepressive, che hanno come effetto collaterale un senso di utilità e di benessere, e migliorano l’autostima. Prendersela rabbiosamente con Tizio, Caio o col destino invece non porta da nessuna parte.
Allego il link di un articolo molto interessante, che in parte mi ha ispirato queste riflessioni, del Prof. Piero Barbanti, primario del Centro delle Cefalee e del dolore dell’IRCCS San Raffaele Pisana:
http://www.sanraffaele.it/comunicazione/news/11500/crisi-economica-e-depressione-psicologica-la-parola-al-prof-barbanti-primario-del-gruppo-san-raffaele