Sindrome Bipolare e estremismo ideologico

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Gli stati umorali offrono visioni della realtà, non solo di quella esistente, ma anche proiezioni di quella che potrebbe essere, e di quella che non è, che è negata, impedita. Per questo i soggetti con temperamento bipolare sono in grado di concepire visioni estreme della realtà, orientate secondo principi semplici ma totalizzanti, che uniscono i destini dei singoli individui ad un progetto generale (religioso, storico, ideologico). Spesso gli episodi depressivi di un individuo con temperamento bipolare si esprimono con la perdita di questa convinzione, della sicurezza e della fiducia nelle ideologie che prima sembravano così vere e vive. A volte il crollo delle illusioni, o il fallimento dei tentativi di realizzare le proprie utopie producono uno stato eccitato (“patibolare”) in cui si concepisce come unica soluzione quella di andare fino in fondo, magari fino alla morte, per dare in questo un senso al progetto che in vita ormai è fallito.

 

In questo, l’estremismo è diverso dal fanatismo.
Il fanatismo può essere definito come una concezione forzata ed estrema del mondo applicata agli altri, ovvero teorizzare che gli altri siano costretti a determinate regole o che sia loro impedito di vivere secondo i loro orientamenti. Ben diverso è l’estremismo in cui si sceglie di essere protagonisti, nel bene e nel male, come “militanti” e non come “capi che ordinano” quale debba essere la pena per gli altri.

 

E’ abbastanza facile pensare come in una fase euforica, maniacale, un soggetto possa divenire estremo e avere una visione della vita e della storia tutta tesa ad uno scopo chiaro e unico. Per questo non voglio proporre un esempio di questo tipo, già proposto in altri articoli del blog, piuttosto invece partire da due esempi di estremismo “patibolare”.

 

Ne parla in un’intervista un ex brigatista rosso, il prof. Enrico Fenzi. Durante il periodo trascorso in prigione, tra gli altri episodi, fu testimone di questi due casi umani.

Nel primo, un brigatista (Soldati) entrò in carcere dopo una fase di duri interrogatori, che in seguito saranno al centro di polemiche per metodi di tortura utilizzati con successo allo scopo di ottenere informazioni. Il brigatista si mostra preoccupato per le ammissioni e i danni che può aver fatto agli altri, ma il suo comportamento è singolare. Anziché chiedere di non essere messo in contatto con i compagni, o chiedere a quel punto di pentirsi per evitare di essere considerato un “infame”, o semplicemente sperare che si comprenda come può aver ceduto sotto tortura, egli si auto-denuncia ai capi brigatisti. Riferisce di aver fatto dichiarazioni alla polizia, e chiede di essere sottoposto ad un processo interno alle brigate rosse, perché solo al suo gruppo riconosce il diritto di giudicarlo. Così i compagni accolgono la sua richiesta, lo processano ed emettono una sentenza di morte, che eseguono immediatamente. Un caso di “coerenza” e di responsabilità certamente estreme al punto da far pensare che in quel momento il cervello della persona non consentisse altra visione se non quella che morire per l’idea, da traditore che si denuncia da solo, era preferibile a vivere in qualsiasi altro modo. Neanche per suicidio, perché un traditore non deve suicidarsi ma deve immolarsi per la causa, e quindi farsi uccidere dai propri compagni. Quasi una salvezza dell’anima, una redenzione, attraverso una condanna meritata.

Un altro caso, sempre riferito da Fenzi, è quello di Francesco Berardi, un brigatista che è arrestato e probabilmente “fa i nomi” di alcuni altri brigatisti. Nel primo periodo carcerario Berardi appare sereno e vive in gruppo con gli altri brigatisti detenuti. All’avvicinarsi del processo si incupisce, non parla più, e un giorno convoca Fenzi e per confessargli di aver forse fatto il suo nome. Lui lo rassicura dicendogli che capisce la situazione, non gli serba rancore e comunque forse le accuse in questione non peseranno molto rispetto al resto. L’impressione è che stia “ingigantendo” il peso di quella colpa, che forse non esiste. Berardi appare pallido, piange, ha tentato il suicidio tagliandosi i polsi. Insensibile alle rassicurazioni, poco dopo Berardi sarà trovato morto suicida in cella.

Anche in questo caso l’impressione è che la dimensione “gigante” che univa il proprio destino a quello di un’ideologia, passi dal versante positivo a quello negativo, in cui una piccola e scusabile colpa (aver fatto qualche nome per cavarsela un po’ meglio, e forse neanche quello) improvvisamente diviene un peccato insanabile, qualcosa di mostruoso e insopportabile rispetto ad una missione ideologica che è rimane al centro della visione del mondo e del destino. La soluzione in questo caso è suicida.

 

Gli episodi umorali hanno sicuramente entrambi un umore di qualità angosciosa e cupa, eppure la loro essenza è “maniacale” nel senso originario della parola, ovvero non di euforia, ma di “amplificazione”, “assolutizzazione”. La stessa melanconia (umore nero letteralmente) era originariamente definita come una forma di mania (questo è vero specie quando si tratta di depressioni agitate, deliranti o con tematiche catastrofiche), in una visione unitaria del disturbo bipolare.

 

http://www.youtube.com/watch?v=lNsR2PTCZiM

http://www.youtube.com/watch?v=hG8K_JTbYKM&list=PL3456E2F5DCA4ED08

 

 

Data pubblicazione: 20 febbraio 2014

1 commenti

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Foto profilo Utente 171XXX
Utente 171XXX

gran parte delle "confessioni" estorte durante le purghe staliniane erano "sincere", dal punto di vista del partito e degli accusati; i condannati come ad esempio Bucharin, erano talmente convinti dell'infallibilità del partito che si autoconvincevano che le assurde accuse a loro mosse dovevano essere vere per forza; anche Orwell in 1984 illustra un meccanismo simile

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