L'altro lato della scrivania (prescrivere i farmaci)

francascapellato
Dr.ssa Franca Scapellato Psichiatra, Psicoterapeuta



 

Un problema piuttosto importante spesso sottovalutato, e non solo in psichiatria, è l’atto medico della prescrizione dei farmaci.

Lo psichiatra (ma la situazione si adatta a qualsiasi medico), dal suo lato della scrivania, dopo aver raccolto l’anamnesi, cioè la storia del paziente e della sua famiglia, aver analizzato insieme a lui la sintomatologia attuale, preso visione di eventuali esami, prescritto altre analisi ecc ecc, alla fine prescrive la terapia.

Se è un medico coscienzioso, si premura di spiegare al paziente, con parole semplici e comprensibili, gli effetti terapeutici che si aspetta dalla medicina, gli effetti collaterali, le modalità di assunzione: a stomaco pieno, a stomaco vuoto, al mattino, ecc., nonché le avvertenze più comuni, come evitare l’ingestione concomitante di alcolici.

Il paziente se ne va col suo foglietto e allo psichiatra sembra di aver svolto al meglio il proprio compito.

Siamo sicuri che sia davvero così?

Se facciamo il giro della scrivania ci possiamo rendere conto che nel paziente, che è “paziente” solo di nome, si muovono tutta una serie di aspettative, sentimenti, brani di articoli letti dalla parrucchiera, nozioni di Wikipedia, commenti degli amici, che rendono emotivamente carico il discorso “farmaco” e compromettono la comprensione della prescrizione, nonché la cosiddetta “compliance” (cioè la collaborazione del malato).

Spesso si arriva dallo psichiatra come ultima spiaggia, sentendosi in colpa perché non si è riusciti a “farcela” da soli. La speranza (non importa quanto irrazionale) è quella di sentirsi dire: “Caro/a signore/a, lei non ha nulla che una bella vacanza non possa guarire”. Esagero? Forse sì, ma alle volte già ottenere una diagnosi psichiatrica, depressione maggiore (o peggio, bipolare), disturbo di panico, fobia sociale ecc, produce una delusione nel paziente, che sperava di sentirsi dire ben altro: è solo un po’ di stress, ha problemi di lavoro, la sua autostima è bassa, o altre banalità da bar. Che poi si vada da uno specialista sperando di sentirsi dire tutto ciò è uno dei tanti misteri della mente umana. Altri pazienti invece sperano di aver sbagliato specialista, e che lo psichiatra li indirizzi nuovamente dal cardiologo o dall’endocrinologo, che ormai li hanno visitati in lungo, in largo e per traverso...

La domanda successiva, dalla parte “sbagliata” della scrivania è “Si guarisce?”. Non sempre viene espressa, ma è quella. Il medico dice “si può curare con...” , il paziente capisce “si guarisce”, e lì si apre un altro grosso capitolo, che può far naufragare anche la terapia tecnicamente più corretta.

Una volta metabolizzato il concetto che la malattia c’è, e che bisogna ricorrere alle medicine (i temibili “psicofarmaci”) il problema di comprensione si ingrandisce progressivamente.

Il modello di terapia farmacologica preferito del paziente è quello degli antibiotici: due scatole di x, e sei a posto, guarito, l’infezione batterica è scomparsa. Se il paziente è abbastanza colto, non ne parla, perché si rende conto che non è un modello corretto per la cura (ad esempio) dell’attacco di panico, ma la speranza rimane quella di una risoluzione in tempi rapidi non solo della sintomatologia, cioè dei disturbi, ma anche della terapia farmacologica. Infatti, appena inizia a stare meglio, spesso riduce o sospende di propria iniziativa la cura, col rischio di una ricaduta, che però dal medico viene interpretata come ricaduta, dal paziente spesso come un nuovo episodio patologico: “Ho preso tante medicine, per tanto tempo, ma non è servito a niente” .

Spesso invidio la mia amica veterinaria, che con cortisone e antibiotici risolve brillantemente tanti problemi, anche se ormai, con l’aumento dell’età media dei pet, anche lei deve affrontare sempre più spesso le malattie croniche degli animali anziani, come diabete, insufficienza renale ecc, che richiedono cure lunghe.

La mia vuole essere solo una riflessione sul tema, non pretendo certo di esaurire la casistica, ci vorrebbe un trattato.

Non intendo ovviamente essere offensiva nei confronti dei pazienti (ci mancherebbe!), ma soltanto porre l’accento sul diverso peso che hanno le terapie prescritte (e comprese razionalmente dal paziente) e le terapie emotivamente “vissute”, spesso come una condanna, una sconfitta, un “sono diverso dagli altri perché assumo (psico)farmaci”.

La funzione delle terapie in psichiatria, come in tutte le branche della medicina, è quella di alleviare la sofferenza e permettere alle persone di vivere nel miglior modo possibile. In molti casi queste cure si possono interrompere, ma dopo mesi o anni e non poche settimane. Se a chi deve assumere le medicine sembra un tempo troppo lungo, dovrebbe anche essere confrontato sul fatto che la sua patologia non è stata provocata dall’incontro con un batterio qualche giorno prima, ma che ha una storia lunga: il paziente ha impiegato 20 o 30 anni per sviluppare eventuali atteggiamenti, paure o risposte disfunzionali, e quindi potrebbe concedere qualche mese della sua esistenza perché lo psichiatra trovi la terapia più indicata al dosaggio più adatto.

Lo psichiatra dal canto suo dovrebbe tener conto che la visuale dall’altra parte della scrivania è differente, e lasciare un po’ di spazio all’espressione dei dubbi, dei timori e a volte della frustrazione di chi deve assumere i farmaci: noi medici diciamo spesso “Proviamo questo, proviamo quello” ma chi inghiotte le pasticche e conta le gocce non siamo noi...

 

 

 

 

Data pubblicazione: 18 febbraio 2011

8 commenti

#1
Utente 192XXX
Utente 192XXX

Non ho potuto evitare di leggere questo post! Innanzitutto mi complimento perchè è davvero uno scrivere empatico. E'esattamente così che mi sento io, che non sono la diretta interessata ma mia madre, quando ci sediamo davanti la scrivania dello psichiatra o quando lo chiamo per telefono. E' vero, ad inghiottire i farmaci è mia madre, per questo tartasso di domande il suo dottore su eventuali effetti indesiderati delle medicine e voglio interpretare quel "proviamo questo, proviamo quello" con un "guarirà, ce la farà". Certo è che sto vivendo la situazione depressiva di mia madre in modo molto ansioso, per colpa di un dottore che appunto non ci dava ascolto e soprattutto per colpa mia che non ho trovato prima una soluzione diversa, giusta. Per questo secondo me è importante riuscire ad instaurare un buon rapporto con il proprio psichiatra/medico, porgli le domande giuste al momento giusto. Spero, in questo caso, di aver trovato la persona giusta. Aspetteremo, perchè per queste cose ci vuole tempo.
Grazie per il suo contributo dottoressa!

#5
Utente 169XXX
Utente 169XXX

Bell'articolo dottoressa Scapellato, come altri articoli che Lei ha postato sul Suo blog; cito tra tutti "La sidrome del Paradiso perduto". Lei e altri Suoi colleghi agirete così, ma non posso dire altrettanto dello psichiatra, e anche quelli prima di lui, che stà "seguendo" un mio carissimo amico che dopo anni di benessere grazie ad una cura azzeccata, è ricaduto nel disturbo d'attacchi di panico in maniera piuttosto pesante. In 6 mesi ha cambiato 3 psichiatri; il secondo, il ordine di tempo, durante la visita, mentre il mio amico piangendo come un bambino gli esponeva il suo assedio d'angoscia, il medico gli si è addormentato davanti; non parliamo poi dell'ultimo, che lo segue tutt'ora con risultati pari a zero, che nonostante vanti collaborazioni con "mostri sacri" della psichiatria italiana, sono mesi che lo stà facendo andare avanti con una cura a vuoto, lo incontra in media una volta al mese per il controllo e lo liquida dicendogli "porti pazienza, ci vuole tempo, la cura è questa..." o peggio ancora mortificarlo nelle sue iniziative di iniziare un percorso psicoterapeutico definendo la categoria psicologi cialtroni, mangia-soldi e venditori d'illusioni. Eh si. Aggiungo per rendere meglio il quadro che proprio durante l'ultima visita il suddetto medico, più che ascoltare il paziente si dilettava a mandare sms a chissà chi sorridendo beffardo nel leggersi le risposte. Una cosa a dir poco vergognosa. E mi creda Dottoressa Scapellato, che assistere a simili comportamenti sconcerta lasciando spazio solo ad una grossa dose di sfiducia. La saluto con stima e colgo l'occasione per augurarLe un sereno fine settimana.

#6
Dr.ssa Franca Scapellato
Dr.ssa Franca Scapellato

Gentile signore,
dato che il suo amico pur sofferente non è afasico o in arresto cardiaco, se non ottiene l'attenzione del terapeuta lo dovrebbe educatamente richiamare all'ordine; se il medico persiste nel comportamento, chiede al responsabile di cambiarlo e scrive (se si tratta di specialista ASL) al servizio URP (non è un rutto, ma Ufficio Relazioni col Pubblico) oppure al giornale della sua città (senza citare il nome dello specialista, per non rischiare querele) o al direttore ASL o tutte e tre le cose. Se è privato, lo manda a quel paese.
Una mia affezionata cliente una volta, vedendo che stavo appuntandomi una cosa sull'agenda per non scordarmi, mi disse ironicamente: "Faccia pure dottoressa, io aspetto" e non l'ho scordato.
Buon fine settimana anche a lei.

#7
Dr.ssa Michela Giugiario
Dr.ssa Michela Giugiario

Complimenti, un'articolo che in poche righe affronta con chiarezza un'argomento che chi fa il nostro lavoro affronta quotidianamente investendoci tante energie.

#8
Medico di medicina generale
Medico di medicina generale

In Italia, per motivi storici e sociologici si ha una paura del disagio mentale e dello Psichiatra che in altri paesi non esiste. Anche per questo è un'impresa inviare a consulenza psichiatrica: il Paziente andrà da chiunque altro, come una mosca impazzita, spesso dilapidando patrimoni. In altre realtà Europee dove ho lavorato, lo Psichiatra cura i casi particolarmente difficili e resistenti e la terapia della maggior parte dei casi viene affrontata tranquillamente dai medici di famiglia ma in Italia anche questi skills si sono quasi del tutto persi. Lo vedo tutti i giorni. In aggiunta, il Paziente italiano è quello con meno compliance che io abbia conosciuto, interrompe le terapie di propria inziativa, le modifica di testa propria, avvertito degli effetti collaterali le interrompe ugualmente, consulta un altro medico perché, magari, il giorno dopo non è guarito. E' un insieme di problemi che derivano dalla nostra mancanza di disciplina e autorevolezza interpersonale. E anche, e forse più di ogni altra cosa, dal fatto che troppi medici non si disturbano a parlare o ad ascoltare. Negli UK devi dire al Paziente TUTTO, anche che i sonniferi fanno venire sonno, se no da soli non ci arrivano. Con queste abitudini diventa facile educare i Pazienti perché si riesce a prevedere il problema successivo. Ma bisogna capire come si sente chi ci stia davanti e per questo bisogna trovare il modo di comunicare anche con se stessi.

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