Maps to the stars: libertà, psicosi e normalità

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

 

Maps to the stars è uno dei film che mi ha recentemente più incuriosito, se non altro perché opera di un autore che solitamente mi coinvolge, Cronenberg.

E' un film che tocca direttamente elementi psichiatrici, come del resto molti altri, che però lo facevano in maniera indiretta. Una ragazza ricoverata per (lo dice durante il film Lei) una “doppia diagnosi” (cioè disturbi mentali e problemi di abuso di droghe) esce dalla clinica e arriva a Hollywood per cercare i familiari, in particolare il fratello, che anni prima aveva cercato di uccidere appiccando fuoco alla casa. Lavora come dama di compagnia per un'attrice in crisi di popolarità, e in cura da un famoso psicologo di Hollywood, ovvero suo padre.

La famiglia della tipa è strana quanto Lei: i genitori sono due fratelli separati alla nascita, che poi si sono conosciuti e sposati per scoprire solo dopo la realtà. Dall'unione sono nati due figli, con la prima che ha già avuto problemi mentali, il secondo adolescente che fa l'attore di successo ma inizia già ad avere problemi di abuso di droghe, oltre che le prime allucinazioni.

Nel film si contrappongono presto due percorsi. Il primo, quello dei genitori, è di allontanarsi da ogni squilibrio attraverso il successo, la promozione di sé, la costruzione di una identità sociale. Da tutto ciò si ottiene però un nulla di fatto, e anzi le pratiche dello psicologo sembrano indurre nei suoi pazienti disturbi e convinzioni fasulle, anziché condurle ad un equilibrio.

L'attrice che si cura, anziché consolidare la sua identità, si lega al ricordo della madre, probabilmente anche costruendo false memorie di abusi, e vive sul doppio binario dell'odio verso la madre ma anche della smania di identificarsi in Lei.

La ragazzina rintraccia genitori e fratello, cerca di trovarsi un fidanzato e di svolgere il suo lavoro, ma lo scopo per cui è venuta prevarrà. Getterà via le medicine, e ripeterà il copione di anni prima, che dal suo punto di vista è quello di “sposare” il fratello in un rito di reciproco amore e morte, stavolta non con il fuoco ma, significativamente, con i medicinali.

Ad una prima visione il film è criptico. Molti ci hanno visto l'ennesima satira su Hollywood, sul mondo del cinema e dell'apparenza, altri lo hanno bollato come confuso e inconcludente.

 

L'aspetto che personalmente ho notato è proprio quello psichiatrico. La salute mentale è vista come qualcosa a cui, tragicamente, l'uomo tende attraverso la falsificazione dei fatti. Le persone non sono “libere”, libere di essere se stesse, se non celebrando la propria verità, altrimenti si produce una sorta di virus. Un disturbo che possiamo chiamare spirituale, o mentale, e che sembra anche propagarsi, perché chi è disturbato e cerca di reprimerlo finisce poi per “contagiare” gli altri, peggiorandone la vita. Lo psicologo “guru” cura se stesso manipolando gli altri, ma in realtà produce le loro allucinazioni per poi essere chiamato a tenerle a bada. Tutti sembrano in bilico tra un paradiso esteriore, fasullo, e un inferno che si affaccia continuamente, sotto forma di allucinazioni, di rimorsi, di alibi che cadono.

 

L'inferno, si dice ad un certo punto “è un mondo senza narcotici”. I narcotici e l'alcol sono onnipresenti tra i personaggi, e servono loro a crearsi altri mondi, altre dimensioni, almeno per un po'. Questi mondi poi inquinano, prendono il sopravvento, perché il cervello, sparato in varie direzioni dalle droghe, finisce per riproporre se stesso in forma allucinata. E anche nell'affidarsi a presunte “terapie”, la persona finisce per coltivare le proprie ossessioni.

 

La soluzione che Cronenberg vede, per il mondo, è una sorta di eutanasia spirituale. Non fuggire la propria verità mentale, ma celebrare il funerale dei propri idoli, per poter così rinascere nella propria realtà. Non a caso sono le medicine a compiere questo passaggio. Le medicine, inutili se lo scopo era adattarsi ad una realtà corrotta e fasulla, diventano invece uno strumento per iniziare una nuova vita.Questo nel film è raffigurato come un suicidio a due, ma a mio avviso è una rappresentazione non limitata a quei due personaggi. Il personaggio della psicopatica rappresenta un “nodo” generale del mondo, che si congiunge con l'altra metà (il fratello), cosa che i genitori non sono riusciti a fare, nella ricerca di una normalità e di un successo che nasconda la loro realtà. Il richiamo anche ai modelli psicanalitici è chiaro, il “tabù” come nodo mentale che può essere sbrogliato oppure rimosso e quindi annodarsi ulteriormente.

I sani sono quindi gli psicotici, di fronte a un mondo che cade a pezzi e si tiene in piedi su un'apparenza scricchiolante? Non so se sia questo il messaggio, che sarebbe però banale. In realtà si ha l'impressione che da una parte vi sia la “libertà” della psicosi, che chiaramente non è più realtà, né ha una sua logica interna. Dall'altra vi è la realtà, condita di narcotici, terapie, pseudo-terapie, e smania di popolarità.

Un vicolo cieco spirituale, soprattutto per chi è avviato alla riabilitazione, come la protagonista, e che cerca di venire a patti col mondo, ma non vi trova posto. Il mondo la trova strana (il fidanzato), o un corpo estraneo (la famiglia che vive disconoscendola), o ne invidia le piccole conquiste (come l'attrice presso cui lavora).

La vera implicazione psichiatrica di questo film è quindi che la libertà è un ricongiungimento con se stessi, e che chiunque neghi o rifiuti la malattia mentale fa esattamente lo stesso errore di chi la rifiuta per pregiudizio o per ostilità, e di chi la esalta come vera fonte di libertà.

 

Data pubblicazione: 25 agosto 2016

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