Impegnati, colti, 35 anni, poche prospettive. Storia di una generazione ampia e spersa
Non mi sorprende più. Probabilmente perché, trentanovenne, capisco. E in molti, anche con "numeri" diversi, comprendono.
Nemmeno partiti...
Vi è una (e non solo) generazione assai diversa dai propri genitori, che poco più che ventenni avevano occupazione, casa, indipendenza (magari anche famiglia), e quell'esistere che un tempo ti pareva "banale", ma era realizzato. E, fondamentale, avevano una prospettiva di crescita. Perché l'essere umano ne ha bisogno: il senso di un domani, di progetti e tappe.
Ovviamente, questi genitori hanno fatto sacrifici per ciò; e ancora più immani e ardui da immaginare, il sacrificarsi di chi è venuto prima, addirittura nella guerra. Ma qui vorrei, senza vittimizzare, parlare di questa "fetta" di popolazione: circa 30-40 anni (e non solo), spesso colti e con un curriculum notevole, e... e poi un lavoro incerto, mal retribuito, una posizione non idonea (senza molte opportunità di migliorarla), un ambiente di lavoro complesso. Non si tratta di "bamboccioni" viziati che vorrebbero un trono senza sforzo; senza dubbio ci sono anche quelli, ma sono una minoranza. I più sono in un ovvio stato di frustrazione, perché l'impegno lo si è messo, per molto. Ci si è formati, si è perseguita e si persegue una meta, senza sfiorarla. E si guarda il "prima" e il futuro, con desolazione. Che si accumula alle conseguenze pratiche: il non distacco dalla famiglia di origine, il non crearsi il proprio spazio adulto, le difficoltà economiche e il non avere quell'emancipazione che ti aspetteresti, per poi magari creare un tuo nucleo famigliare.
Quarantenni che ancora si sentono "nemmeno partiti" pur essendosi "avviati" da un bel po'.
Ecco cosa non mi sorprende.
Quindi nessuna sorpresa, di fronte alla quantità sempre maggiore di chi scrive "mi sento un fallito", con tutti i risvolti emotivi e appunto pragmatici che ne derivano.
E per ogni individuo "viziato" o che poco ha "sudato" e non ha mostrato particolari talenti, molti sono coloro che hanno motivo di lamentare una non congruità tra il dare e avere, potenzialità non messe a fruttare. E non c'entra la scarsa capacità di accettare gli inevitabili rifiuti.
Certo, una generazione che non ha conosciuto guerra e fame, ma non trova dignità e si sente "stagnare".
E non sto certo, come già precisato, "vittimizzando" - molte sono le iniquità, anche ben più crudeli, che la vita può riservare.
Ma non si può sottovalutare la profondità di questo senso di smarrimento, di inconclusione, di stasi. Questo "sono un fallito", spezzato nelle ambizioni e desideri.
In questo senso, la psicologia potrebbe essere di supporto; non certo nel cambiare una situazione dato-di-fatto, ma nell'aiutare la persona a rielaborare il modo in cui si percepisce, e il modo in cui interpreta e affronta i suoi giorni.
Scriveva V. Frankl, psichiatra sopravvissuto all'Olocausto (un apice immane della sofferenza): "Tra lo stimolo e la risposta c'è uno spazio. In quello spazio risiede il potere di scegliere la nostra risposta. Nella nostra risposta c'è la nostra crescita e libertà".
"Su" e "in" quello spazio si può lavorare. È la resilienza, quel movimento di adattamento e resistenza alle avversità.
In questo spazio la psicologia può avere un senso per questi ragazzi, che chiamo tali non perché immaturi, ma perché ancora nel pieno del loro lecito percorso.
Un messaggio.
Perché queste righe vorrebbero essere un messaggio, banale ma da ribadire.
La situazione esterna e globale non è modificabile attualmente.
Ciò che provi e vivi è legittimo e naturale.
Il modo in cui lo affronti non modifica lo stato delle cose, ma può migliorare il tuo stato d'animo.
Non sei "fuori dai giochi", hai un avvenire.
Sei in un lungo attimo difficile, di quelli che la storia e il vivere dispensano con varia gravità da sempre.
Soprattutto, non sei un fallito.
Continua a insistere.
Fai di quello spazio di libertà il tuo mantra per il domani che avrai.
Tra stimolo e risposta ci sei tu.
In divenire.