Psicologia non è marketing: il peso etico delle parole cliniche
Negli ultimi anni, soprattutto online, il linguaggio della psicologia viene usato con una disinvoltura crescente.
Termini clinici, diagnosi, presunte specializzazioni circolano ovunque, spesso senza alcun riferimento alla loro reale definizione scientifica o al contesto professionale in cui dovrebbero essere utilizzati.
Il problema non è parlare di psicologia sul web.
Il problema è come se ne parla.
Quando una parola clinica perde profondità e viene ridotta a etichetta, non stiamo solo semplificando: stiamo svuotando di senso un’esperienza psichica.
E quando il senso viene meno, ciò che resta non è chiarezza, ma rumore.
Specializzazioni che non esistono
Nel nostro ordinamento non esistono specializzazioni per singoli disturbi.
Per gli psicologi, l’unica specializzazione riconosciuta dalla legge è la psicoterapia, conseguita presso scuole quadriennali accreditate dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Espressioni come “specialista in ansia” o “specialista in disturbi alimentari” non indicano dunque titoli professionali ufficiali.
Possono, al massimo, alludere a un’area di esperienza clinica, ma solo se accompagnate da una spiegazione chiara, onesta e non fuorviante del percorso formativo e delle competenze reali.
Quando questo non avviene, il rischio è evidente: creare confusione proprio in chi cerca aiuto.
E chi chiede aiuto, nella salute mentale, non ha bisogno di slogan, ma di orientamento.
Il “narcisista”: dalla clinica alla caricatura
Ancora più delicato è l’uso sempre più disinvolto del termine “narcisista”.
Il Disturbo Narcisistico di Personalità non è un personaggio narrativo, né una scorciatoia interpretativa.
È una psicopatologia complessa, spesso grave, talvolta profondamente invalidante, che richiede valutazioni cliniche accurate e percorsi terapeutici articolati.
Trasformarlo in una parola-contenitore per spiegare relazioni difficili o comportamenti disturbanti significa compiere una riduzione violenta:
la sofferenza viene espulsa dal suo contesto e restituita come colpa, maschera o caricatura.
In questo passaggio si perde qualcosa di essenziale.
La diagnosi smette di essere uno strumento di comprensione e diventa un’etichetta morale.
E quando questo accade, non si chiarisce: si stigmatizza.
Ogni epoca ha il suo modo di difendersi dall’angoscia.
La nostra sembra farlo trasformando la complessità psichica in formule rapide, immediatamente riconoscibili, facilmente condivisibili.
Ma ciò che viene rimosso dal linguaggio ritorna altrove, spesso in forme più opache e dolorose.
Linguaggio, simbolo e responsabilità
Quando il linguaggio clinico viene impoverito, non perdiamo solo precisione tecnica.
Perdiamo la funzione simbolica delle parole, quella che consente alla sofferenza di essere pensata, non solo nominata.
In questo senso, la banalizzazione non è mai innocua.
È una difesa collettiva contro ciò che inquieta, che chiede tempo, profondità, ascolto.
La psicologia online può essere una risorsa.
Può facilitare l’accesso alla cura, abbassare soglie, aprire spazi.
Ma proprio per questo non può permettersi leggerezze.
Chi lavora nella salute mentale sa che le parole non sono neutre.
Sa che un termine usato male può confondere, ferire, allontanare dalla cura.
Quando il linguaggio clinico viene piegato alle logiche del marketing, il problema non è comunicativo.
È etico.
In conclusione
Non tutto ciò che funziona sui social è corretto.
Non tutto ciò che genera attenzione è informazione.
E non tutto ciò che parla di psicologia fa davvero psicologia.
La cura non riguarda solo il sollievo dal sintomo, ma il modo in cui una persona può tornare ad abitare la propria esperienza psichica, senza essere ridotta a una diagnosi gridata o a un’etichetta consumabile.
In un campo così delicato, la chiarezza terminologica, il rigore clinico e il rispetto per la sofferenza psichica non sono optional.
Sono parte integrante della cura.