Depressione? ansia? aiuto

buonasera dottori, sono un ragazzo di 33 anni, da circa due anni sto soffrendo di colite nervosa che mi ha letteralmente condizionato la vita: sono sempre di più chiuso in casa, le mie relazioni sociali si sono ridotte all'osso, gli affetti in questo periodo sono lontani e quindi vivo/mangio/dormo molto spesso da solo in casa, provando di conseguenza un senso di solitudine invasivo e tenace che prima invece (a 20 anni) quasi mi piaceva; ultimamente non provo più piacere per le cose che prima adoravo: ascoltare musica, andare in palestra, leggere romanzi, camminare senza meta anche per ore e liberare i pensieri.... all'inizio di questo anno ho deciso dunque di iniziare un percorso psicoterapeutico, a cadenza settimanale, durato 6 mesi. devo dire che la professionista era davvero in gamba ma non ho riscontrato miglioramenti. a distanza di 4 mesi dalla fine di questa terapia mi sento molto peggio: sono ancora più chiuso in casa e non sento alcuna motivazione ad riiscrivermi in palestra, passeggiare, andare al cinema, incontrare persone, insomma nulla di nulla, il mio migliore amico è diventato il letto, soprattutto quando sento arrivare una specie di attacco di panico che mi raggiunge a volte dopo cena e dal quale riesco a sfuggire stando al buio e in silenzio sotto le coperte già alle nove di sera (in genere mi addormento sempre dopo mezzanotte). ho inoltre frequenti crisi di pianto da un paio di mesi, immotivate, cioè non piango perchè ho ricevuto una brutta notizia o penso a qualcosa di negativo, mi arrivano all'improvviso e se dovessi descriverle direi che somigliano a conati di vomito, questa è l'immagine a cui le associo; sembrano getti impetuosi di energia che mi si scarica con un pianto di pochi secondi, ma molto forte e che mi piega letteralmente. sono consapevole di vivere in una sorta di limbo, in cui la vita è sospesa, e trovo difficile, quasi come se fosse ogni volta una sfida con me stesso, fare delle cose semplicissime come vestirmi e prendere la macchina: tutto ciò è esattamente il contrario di come vivevo prima, quando non riuscivo a stare fermo e ogni festa, invito a cena, visita, uscite varie, erano una gioia per me.
come ho già accennato il mio alvo è del tutto irregolare pur avendo un'alimentazione sana ed equilibrata, mi capita inoltre di non avere appetito pur essendo a digiuno, e se mangio e poi ho un impegno avverto il bisogno di vomitare. ho chiesto un consulto psichiatrico al cim ma mi è stato negato, la motivazione è che devo avere l'indicazione di un loro psicologo per potervi accedere e la lista d'attesa è comunque lunghissima. sento addosso una paura generalizzata , che non riesco a motivare, e che spesso mi sveglia la notte verso le 4 e non mi permette più di dormire. da un mese circa sto prendendo lo xanax che mi permette di trovare un po' di conforto a questo malessere generalizzato che avverto da quando mi sveglio a quando mi riaddormento, ma vorrei capire se ho necessità di una terapia farmacologica aggiuntiva, ad esempio antidepressivi o altro (che vorrei davvero tanto evitare!) o può essere sufficiente tornare da uno psicoterapeuta. e in generale vi chiedo: qual è una vostra opinione sulla mia situazione?
grazie molte! luca
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Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
Gentile Luca,

leggendo il suo racconto vorrei lasciarle alcune impressioni che ha evocato in me la sua narrazione. Ha comunicato in modo vivido il suo stato d'animo, immagino quanto debba soffrire per non riuscire a sbloccare una situazione che è per lei fonte di malessere.

Potremmo dire che da una parte vive uno stato d'animo di paura e angoscia. Sente di essere isolato, vive un senso di chiusura, ci parla di una dimensione in cui sembra non esserci più il tempo, in cui tutto cioè è fermo e sospeso. Ci comunica un senso di solitudine e distanza dalle relazione, di freddo.
Da un'altra parte, tuttavia, possiamo anche dire che sta cercando di cambiare se stesso, come se ci fosse una parte di lei che non vuole più vivere così. Questo è importante.

Il lavoro psicoterapeutico svolto sembra però non avere dato esiti positivi. Lei infatti dice di sentirsi peggio, di ricercare attivamente il letto, come se fosse protettivo rispetto a uno stato angoscioso e spaventoso che la assale. Sceglie di coricarsi a letto, nonostante sembri sentire di non avere bisogno di riposo, riconoscendo che "sfugge" a qualcosa, poiché magari ne sente il peso e l'inquietudine, e forse non può concepire la possibilità di affrontarla diversamente.

La parola "sfuggire", che ha utilizzato, mi è parsa suggestiva, assieme alla "colite nervosa" di cui ha parlato all'inizio del suo racconto. Sarebbe importante conoscere alcuni dettagli legati alla manifestazione della colite, se ha voglia di parlarne di più, potrebbe aiutarci. Come suggestione, potrei dire che attraverso il corpo esprime un suo dolore, come se al momento non potesse ancora farlo suo e gestirlo. Deve, come dire, "scaricarlo", potremmo dire "sfuggirlo" appunto, per usare le sue emblematiche parole.

La mia suggestione deriva anche dalla lettura delle sue frequenti crisi di pianto che sopravvengono improvvisamente, come lei dice: "Ho inoltre frequenti crisi di pianto da un paio di mesi, immotivate, cioè non piango perchè ho ricevuto una brutta notizia o penso a qualcosa di negativo, mi arrivano all'improvviso e se dovessi descriverle direi che somigliano a conati di vomito, questa è l'immagine a cui le associo; sembrano getti impetuosi di energia che mi si scarica con un pianto di pochi secondi, ma molto forte".
Come la colite, sembra descrivere queste crisi di pianto anch'esse con un carattere evacuativo, come se scaricasse una grande tensione ("i getti impetuosi di energia"), buttandola fuori, senza però poterle dare consistenza né parola né senso. Resta qualcosa di evanescente e fortemente doloroso, che non può contenere. E tutto resta sospeso.

Immagino che dev'essere stato frustrante accorgersi che la terapia non l'abbia fatta stare meglio, nonostante il suo impegno settimanale e le speranze che aveva riposto. Non conosco il tipo di terapia che ha svolto. Io abbraccio un orientamento teorico psicoanalitico, e sei mesi non sono tanti per un lavoro profondo su di sé. Come lei dice, con un nesso prezioso, anche quando aveva 20 anni il suo vissuto aveva delle similitudini con quello attuale. Sembra riconoscere cioè che caratterizzi la sua persona, potremmo dire da tempo, come se avesse radici molto antiche.

Dicevo che sei mesi non sono tanti perché bisogna piano piano riappropriarsi di sé e comprendere quelle parti angosciose che forse oggi lascia andare via. Affinché questo possa avvenire è necessario tempo, parliamo di un cambiamento emotivo strutturale, una trasformazione che mira a essere duratura nel futuro.
Se ha voglia di parlare di più del tipo di lavoro che ha svolto potremmo provare a capire meglio cosa è potuto succedere.

Il suo tentativo respinto di rivolgersi allo psichiatra sembra rappresentare un'ulteriore difficoltà, come se qualcosa remasse contro, considerando anche i tempi di una lista d'attesa molto lunga.

Mi colpisce che pur non volendo assumere i farmaci chiede un consulto psichiatrico, forse è particolarmente sfiduciato e vuole trovare un rimedio una volta per tutte.
Questo è comprensibile, ma non vorrei che fosse rassegnato e cercasse ancora di mettere a tacere i suoi vissuti, continuando ad annientare se stesso. Una parte di lei sembra sapere qual è la strada invece, e cioè "riuscire a dare voce al suo malessere" senza più sfuggirlo, senza più cercare il "conforto" del letto.

Non è facile, ma non è impossibile. Senz'altro la mia opinione è di valutare una psicoterapia adatta alla sua ricerca esistenziale, affinché lei possa coltivare le sue energie senza "vomitarle", affinché possa riavviare la dimensione del tempo nel suo divenire, affinché possa comprendere le emozioni di paura che la schiacciano. Potrà così acquisire un senso di sicurezza e fiducia, potrà dare sostanza a se stesso, senza più "ridursi all'osso" ma anzi rivitalizzandolo, riuscendo quindi a essere se stesso e a esprimersi liberamente in mezzo agli altri.

Un saluto cordiale,
Enrico de Sanctis

Dr. Enrico de Sanctis - Roma
Psicologo e Psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico
www.enricodesanctis.it

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dopo
Attivo dal 2016 al 2017
Ex utente
Gentile dottore, rispondo con sincero piacere alla sua richiesta di approfondimento, nella speranza che possa inquadrare meglio la situazione e scegliere un percorso più adatto a me. Mi chiede di parlare della colite nervosa: sento il bisogno di evacuare ogni volta che devo uscire di casa e percorrere un tragitto medio-lungo, che comporta ad esempio l’uso della macchina, o di mezzi pubblici (per intenderci: se devo andare al supermercato sotto casa non mi succede nulla), ma a volte anche a piedi. Lo stesso vale per lo stomaco: ho appetito se resto a casa, ma in caso di appuntamenti o impegni il mio pasto assomiglia a quelli ospedalieri, fino ad arrivare al digiuno vero e proprio rimandandolo a un orario in cui mi sento meglio: per me già solo questo stravolgimento è inaccetabile avendo praticato sport per 15 anni, con una nutrizione quindi studiata e un appetito sempre presente. Questa situazione si verifica anche se ho di fronte a me una serata o un pomeriggio leggero: un aperitivo, una passeggiata in centro, ecc. Mi ha condizionato e cambiato la vita perché l’esordio (circa due anni fa) è stato terribile: più di una volta mi è successo di dover prenotare la fermata del tram in anticipo o fermare la macchina in doppia fila, per cercarmi un bagno nel bar più vicino. Da quei momenti, ravvicinati tra loro, una paura generale si è impossessata di me, e la mia vita si è condizionata in senso anticipatorio: ogni uscita di questo tipo deve essere da me organizzata in largo anticipo in modo da uscire di casa “libero”, senza correre il rischio di dover correre in bagno una volta fuori, o di avere lo stomaco “troppo” pieno. Il risultato è che dalla mia vita ho fatto fuori, nei pensieri e di fatto, ogni possibilità di imprevisto, e da qui è nata una lenta e strutturata chiusura in casa. Ho deliberatamente creato un circolo vizioso per proteggermi dal “rischio”, nel senso più generale del termine, accettando il male minore di chiudermi in gabbia che però mi ha portato come conseguenza la distruzione della mia autostima: mi sento del tutto inutile per la famiglia, la società, pur essendo un professionista laureato e cercato dai miei affetti.
Il medico di base mi prescrisse un anno fa un palliativo, un mix di tranquillanti e sostanze che agiscono a livello intestinale, adducendo come causa l’ansia, ma il risultato è stato uno stordimento generale, dunque ho troncato la terapia dopo una settimana perché non volevo essere ancora più fermo e vegetale di così. Da lì ho deciso allora di intraprendere un percorso psicoterapeutico. Mi chiede che tipo di terapia: psicodinamica. Non l’ho interrotta io: dopo 6 mesi è arrivata alla sua “naturale” conclusione su parere della dottoressa. Il tema della colite non è stato pressoché toccato, pur avendolo io sollevato diverse volte: la consapevolezza che mi ha trasmesso la dottoressa è che me la dovrò portare dietro per tutta la vita e che ci saranno dei periodi di pausa anche lunga, alternati a periodi in cui mi metterà a dura prova: tutto qui. È stato frustrante e depressivo per me sentirmi dire che praticamente non c’è soluzione, da qui la scelta di chiedere un aiuto allo psichiatra: è vero che preferisco non prendere farmaci, ma se esiste una terapia che può arginare anche in parte i miei disturbi fisici e farmi ingranare la marcia , allora accetterei di ingoiare la pillola amara pur di non continuare così.
Trovo conferma nelle sue parole: capisco che i miei disturbi psicosomatici siano tentativi di liberarmi di un peso a cui non riesco a dare dei confini, e il mio corpo quindi si rifiuta di portarne il fardello scaricandolo come meglio crede, la dottoressa mi ha detto che sono tentativi di “svuotamento depressivo” (se non ricordo male). Sento come se nella mia vita fosse arrivato un terremoto ed io ora a fatica cammino sopra le macerie ma non faccio nulla per ricostruire o almeno fare ordine. Il problema è che non ho subìto alcun trauma, ed è questo l’interrogativo a cui non riesco a dare risposte. Cosa è successo? Di fatto niente, è stato evidentemente un lento scivolare che mi ha portato a vivere cosi facendomi accorgere del cambiamento solo alla fine, adesso. Tuttavia nonostante la psicoterapia, la consapevolezza generale e generica di quello che mi sta succedendo, non riesco a controllare questi disturbi, ad arginarli, a non pensarci: sono loro che mi dominano e mi condizionano a loro piacimento come se fossi un burattino che segue gli ordini del suo corpo capriccioso, con un forte impatto sull’umore sempre basso e àtono, e sento la mia vita scivolare via pericolosamente senza più senso.
Aggiungo un forte senso di rabbia verso me stesso perché sono cambiato diventando non una persona diversa, ma letteralmente opposta a quello che ero prima: amavo tutto ciò che era energia e movimento, ero progettuale e la mia vita era in generale talmente piena di idee e strade da percorrere che facevo anche “fatica” a scegliere di volta in volta. Mi resta la nostalgia di quello che sono stato per ben 30 anni, mi sto tenendo in piedi grazie a dei rari slanci che mi restano e mi fanno ricordare il ragazzo che ero, ma ovviamente non bastano e sento che non sono eterni, ed è per questo che mi guardo intorno decidendo anche di scrivere qui per orientarmi. Grazie.
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Dr. Enrico De Sanctis Psicologo, Psicoterapeuta 1.3k 66
La colite presenta una forma di evacuazione, che sembra in linea con il nostro discorso. L'evacuazione sembra mostrare una coerenza con le crisi di pianto, getti impetuosi di energia simili a conati di vomito. Tutte espressioni che appaiono su uno stesso filo rosso.

Lei dice di esserne sopraffatto, si sente governato dal suo corpo, senza la possibilità di gestirsi liberamente.
Dalle sue parole, infatti, l'aspetto evacuativo della colite è un condizionamento rilevante per la sua vita. Le impedisce lo svolgimento delle sue attività, compromettendo di fatto la sua quotidianità. Genera inoltre in lei un carico emotivo di paura e tensione, che la fa stare male, lo sente comprensibilmente "terribile".

Sembra significativo anche un ulteriore aspetto su cui lei riflette, mi corregga pure se mi sbaglio, cioè che questa difficoltà le impedisce di aprirsi all'esterno, con tutto quello che questo ha comportato per lei nell'ultimo periodo della sua vita, portandola a un prolungato e attuale ripiegamento su di sé, "distruggendo la sua autostima", potremmo dire mortificandola.
Questo è un punto importante, che può avere molti significati, che sarebbe necessario approfondire dal vivo.

Relativamente alla terapia, forse il suo è stato un intervento psicodinamico breve. Purtroppo non sono competente di interventi brevi, e penso che non si possa stabilire a priori la durata di un intervento. Credo, inoltre, nella necessità di un cambiamento emotivo profondo, duraturo e stabile della persona.

Comprendo il suo stato d'animo, quando dice che è "stato frustrante e depressivo per me sentirmi dire che praticamente non c’è soluzione". Un intervento serve per trovare una soluzione, cambiare la propria vita, altrimenti non ha senso. Questo sentimento di frustrazione e depressione che ha vissuto, inoltre, andava preso in considerazione in terapia. Non so se questo è accaduto o se invece è stato trascurato.

Sono anche colpito dal fatto che "il tema della colite non è stato pressoché toccato, pur avendolo io sollevato diverse volte".
Penso che ogni esperienza e bisogno che il paziente abbia interesse a portare in seduta ha valore, merita tutta la nostra attenzione e il massimo rispetto.

Inoltre, dal mio punto di vista legato al pensiero psicoanalitico, la fine di un percorso terapeutico è tale solo se si è decisa in due, altrimenti è un'interruzione. Attraverso il suo stato d'animo lei sembra testimoniare questo, cioè sente che è stata una decisione prematura, che non ha preso lei, non sentendo di essere pronto.

Sto cercando di parlarle in questa sede del mio modo di intendere un percorso terapeutico, tenendo presente che il luogo adatto dove approfondire questo discorso è necessariamente una consultazione dal vivo. Provo comunque a darle alcune linee e suggestioni, in modo tale che possa avere un orientamento di massima.

Personalmente non credo che alla diagnosi corrisponda un tipo di terapia più di un altro. Io credo piuttosto nella complessità della persona che dev'essere presa in considerazione nella sua interezza, rispettando il suo malessere umanamente e valorizzando la sua soggettività.

Mi sento anche di aggiungere che il percorso più adatto a lei dipende anche dalle sue aspettative, dagli obiettivi che desidera raggiungere e dal modo che ritiene più giusto per farlo. So che non è facile orientarsi, ogni professionista abbraccia un orientamento teorico e modo di pensare che può essere molto differente l'uno dall'altro, e questo può disorientare la persona.

Dal suo racconto, riterrei utile per lei la possibilità di valutare un percorso psicoanalitico classico perché il suo malessere a me sembra complesso e radicato, e sento in lei il desiderio di affrontarlo nella sua complessità.
Ha già provato con dei farmaci per la colite, e non si è trovato. Sente forse che Xanax ha un effetto relativo. Personalmente non agirei primariamente sul sintomo né cercherei di modificare i suoi comportamenti forzatamente, a livello razionale. Può ingranare la marcia, può ricevere una spinta, ma guidare è più complesso di così, e comunque le forze che non le consentono di ingranare la marcia possono essere molto tenaci e potenti. Il cambiamento dev'essere, a mio avviso, a livello emotivo e più globale, in modo tale che lei sia equipaggiato nella guida di se stesso.

Nel mio modo di lavorare, infatti, conta la relazione tra paziente e terapeuta, lo scambio riflessivo ed emotivo consente l'avvio di un processo trasformativo che modifica la vita del paziente e ciò che gli genera malessere. Quindi anche la sua colite deve modificarsi, poiché ha constatato che non ha una ragione organica.

Sento in lei la capacità di provare emozioni e poterne parlare riflessivamente, sento in lei il desiderio di aprirsi e raccontarsi. Questi sono punti essenziali di una terapia psicoanalitica, e anche per questo la terrei in considerazione, durante una consultazione dal vivo, come la terapia giusta per lei.

Confrontandosi poi con altri colleghi, potrà conoscere terapie di altro tipo. Ci sono numerosi tipi di intervento, ad esempio alcuni terapeuti assegnano compiti o viene comunque spiegato il modo in cui bisogna comportarsi. Ci sono interventi focali che agiscono sul sintomo come i farmaci. Ci sono interventi che possono essere brevi, con un numero di sedute diluito nel tempo e una durata simile al percorso che ha già svolto.

Io opero invece diversamente, per me la relazione tra paziente e terapeuta è come un laboratorio di espressività e libertà, uno spazio creativo per essere se stessi e riprendere in mano la propria vita. Affinché questo possa avvenire, sono necessari impegno, costanza, continuità nella frequenza delle sedute, che dev'essere intensiva.

Si lasci dire che non è vero che non sta facendo nulla per "ricostruire o fare ordine", anche se capisco che è scoraggiato per diversi motivi. E capisco che è faticoso. Ma so anche che può farcela, mi sento di dire che ne ha tutte le potenzialità, come mostra nel suo desiderio di orientarsi sul modo migliore di procedere.

Un saluto cordiale,
Enrico de Sanctis
[#4]
dopo
Attivo dal 2016 al 2017
Ex utente
la ringrazio per il suo contributo che è stato molto prezioso!
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