Quando lo psicologo dice di non riuscire ad aiutare

Buongiorno,

sono una ragazza di 27 anni, in psicoterapia da febbraio e fin'ora non ho avuto il minimo cambiamento, lo psicologo stesso mi ha detto che non sa come aiutarmi, ha provato diverse strade ma tutte hanno portato a un "vicolo cieco", se così posso chiamarlo. La cosa mi sconforta non poco, mi rende molto confusa e insicura.
Non capisco quello che devo fare per cambiare ma mi rendo conto che fin'ora ho continuato a vivere la mia vita come faccio sempre, l'unico cambiamento è stato quello di chiamare lo psicologo e andare da lui un'ora alla settimana, per il resto tutto è sempre uguale.
Secondo lui sono io a non voler cambiare e forse inconsciamente è davvero così; personalmente sento come se non capissi il significato della parola "cambiamento", cosa devo fare per attuarlo. Comprendo che è molto difficile spiegarmi in un testo scritto, io stessa faccio fatica a trovare le parole.

Ho iniziato la psicoterapia per mia scelta (nessuno in famiglia ancora lo sa) per problemi di ansia e insicurezza. Ciò che di nuovo sono riuscita a scoprire su me stessa è il senso di colpa che mi accompagna costantemente, oltre a un'autostima inesistente (cosa che prima sospettavo e basta) e un'autocritica molto alta. Non riesco ad accettare che la causa di questo potrebbe ritrovarsi anche nel modo in cui sono stata cresciuta in famiglia: da non fraintendere, ho genitori fantastici ma da mia madre ho sempre ricevuto piccole critiche continue e con mio padre non c'è molta comunicazione. Non riesco a dare parte della responsabilità per le mie insicurezze ai miei genitori e di conseguenza colpevolizzo solo me stessa.
Non riesco neanche a parlare con i miei genitori del mio malessere e lo psicologo mi ha fatto capire (ma ha dovuto dirmelo chiaro e tondo perché prima non sono mai riuscita a captare i suoi suggerimenti, a volte mi sembra di essere un po' "ritardata") che questo era uno dei cambiamenti che si aspettava da me ma che non è avvenuto.

Adesso dovrei trovare un modo per aiutarlo a farmi aiutare ma il concetto mi sembra così astratto che non so come fare. Ho pensato che potrei iniziare a parlargli di tutte le piccole cose che fin'ora non gli ho detto (perché mi sembravano ininfluenti) come il fatto che "vivo tanto nella mia testa" o che "ho dei gesti ripetitivi" ma non ho idea se possa davvero servire raccontargli queste cose di poca importanza.

I miei non sono problemi gravi come possono essere quelli di altre persone ma mi condizionano comunque nella vita quando devo fare qualche nuova esperienza. L'insicurezza mi frena costantemente sia che si tratti di andare al bar con persone che conosco, sia che si tratti di mandare curriculum per lavoro. Poi magari lo faccio perché è quello che devo fare e non sono più una bambina ma ci impiego mesi a decidermi.

Ringrazio anticipatamente per l'ascolto e resto in attesa di qualche consiglio.
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Dr.ssa Giselle Ferretti Psicologo, Psicoterapeuta 615 14 22
Gentile ragazza,
le chiedo qualche chiarimento per capire meglio: lei è seguita da uno psicologo regolarmente iscritto ad Albo Professionale? Se sì, sa se è anche psicoterapeuta? Con quale frequenza effettua le sedute? Avete concordato obiettivi e metodologia di lavoro?
MI permetto di fare delle osservazioni su quanto ci scrive: "la gravità" delle problematiche di una persona non sono mai oggettive, ovvero, se qualcosa ci disturba compromettendo significativamente la vita quotidiana, quella cosa è grave e va trattata. Le faccio un esempio molto semplificato per aiutarla a capire: un trauma oggettivamente grande (es. incidente stradale con pericolo effettivo di morte) può creare meno problemi di numerosi traumi piccoli relazionali (es. mia madre mi rivolge ogni giorno, da sempre, parole degradanti e offensive).
I traumi relazionali in famiglia potrebbero richiedere molto tempo per essere riconosciuti e "lavorati".

Se lo psicologo che la segue ha verbalizzato esplicitamente di non sapere aiutarla è stato professionale ed onesto. C'è un articolo del codice deontologico che ci obbliga a riconoscere i nostri limiti, se ci rendiamo conto di non essere in grado di aiutare dobbiamo dirlo ed inviare a qualcuno di più adatto o esperto. Se non lo fa lui, lo può decidere lei, trovare un altro psicoterapeuta.

Un caro saluto,

Dott.ssa Giselle Ferretti Psicologa Psicoterapeuta
www.giselleferretti.it
https://www.facebook.com/giselleferrettipsicologa?ref=hl

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dopo
Utente
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Gentilissima Dr.ssa Ferretti,
La ringrazio intanto per la pronta risposta.

Il mio psicologo psicoterapeuta è regolarmente iscritto all'Albo, ho controllato prima di chiedere appuntamento la prima volta. Gli incontri avvengono una volta a settimana, inizialmente mi aveva proposto la tecnica emdr, riguardo gli obiettivi il mio desiderio principale era liberarmi dall'ansia e riuscire ad affrontare la vita serenamente.

Riguardo la gravità delle mie problematiche anche il mio psicologo mi ha più volte ripetuto ciò che mi ha scritto lei, quello che intendevo dire è che io sono convinta che, per quanto io possa provare disagio per queste cose, non saranno mai oggettivamente gravi come i problemi di chi affronta un lutto o subisce un abuso ad esempio (e io, situazioni gravi come queste non ne ho mai avute).

Secondo lo psicologo io inconsapevolmente non voglio cambiare come sono adesso, da qui deriva la difficoltà a trovare uno spiraglio per aiutarmi. Il problema, a mio parere, sono effettivamente io, ho sempre avuto difficoltà con chiunque ad aprirmi, così come a "lasciarmi andare" quando si tratta di provare emozioni.
Non vorrei cambiare psicologo perché con lui mi trovo bene, l'idea di dover ricominciare da capo con una persona diversa (quando ci ho messo anni per decidermi a fare questo passo) mi paralizza e temo che finirei per mollare tutto definitivamente.

Lui dice che non ci ho messo tutta me stessa, pur eseguendo regolarmente tutti i compiti che mi dava, riflettendo attentamente su ciò che veniva fuori in seduta, in realtà non ho mai provato realmente ad attuare un cambiamento, sono rimasta ferma e questo è vero.
Temo che ciò si verificherebbe anche con un altro psicologo, per questo dico che è un problema mio. Problema che però non so come superare. Ho vissuto 27 anni in questo modo e mi sembra di non avere i mezzi per "cambiare prospettiva".
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Dr.ssa Giselle Ferretti Psicologo, Psicoterapeuta 615 14 22
>>io sono convinta che, per quanto io possa provare disagio per queste cose, non saranno mai oggettivamente gravi<<

Questa sembra proprio una tipica "convinzione negativa" su se stessa. Di solito si forma su specifiche esperienze di vita relazionali . Forse ha sperimentato di non valere abbastanza. Non serve essere stati abusati per sperimentare questo, può bastare molto meno. Soprattutto non servono fatti "oggettivi" di non valore, a volte sono episodi semplici e banali, che però possono essere stati vissuti soggettivamente come squalificanti (ad esempio quando cadevo da bambina non mi consolavano a sufficienza. Questo non significa che i genitori erano cattivi, loro in buona fede potevano cercare di spronarla a reagire,mentre lei aveva bisogno di più attenzioni)

>>io, ho sempre avuto difficoltà con chiunque ad aprirmi, così come a "lasciarmi andare" quando si tratta di provare emozioni.<<

Anche questo lo avrà sicuramente "imparato" nella sua storia di vita (così come facciamo tutti, siamo quello che siamo per quello che abbiamo vissuto e per come lo abbiamo rielaborato), le ragioni possono essere infinite, le dovrebbe trattare con il suo terapeuta.

Le sue difficoltà in terapia che lei ci ha descritto e che io le ho sottolineato, sono tecnicamente delle "difese", ovvero dei modi che lei ha imparato ad usare nella sua vita per sopravvivere al dolore. Le "difese", da un lato ostacolano il lavoro terapeutico, ma dall'altro bisogna considerarle come delle preziose "alleate" perché l'hanno aiutata nella vita in momenti di difficoltà: "spegnere" le emozioni quando succede qualcosa di troppo doloroso o che non si riesce a capire, è un'arma molto preziosa e bisogna riconoscerne il valore.

Trovare il modo di "allearsi" con le difese e volgerle al suo favore, è un compito dello psicoterapeuta.
Il suo compito invece sarebbe quello di capire a cosa le potrebbe "servire" mantenere il suo stato di disagio.
Se lei si fida davvero del suo terapeuta, un ostacolo al cambiamento potrebbe essere proprio questo: sta male, ma se stesse meglio potrebbe succedere qualcosa di altro da cui è spaventata.

>>Temo che ciò si verificherebbe anche con un altro psicologo, per questo dico che è un problema mio. <<

E' proprio così, quindi, a meno che lo psicologo non riconosca effettivamente ed esplicitamente di non avere strumenti, provi ad affrontare le sue resistenze con lui.

Un caro saluto
[#4]
dopo
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Gentilissima Dr.ssa Ferretti,

quello che posso dire è che mia madre mi ha sempre criticata molto, forse anche non consapevole di quanto questo mi ferisse. Questo effettivamente potrebbe avermi portato a svalutarmi ed è ciò su cui sto lavorando con lo psicologo. Lui insiste sul fatto che dovrei accettare che anche i genitori possono avere comportamenti sbagliati in certi momenti e che non devo lasciare che ciò che mi dicono mi definisca come persona.
A parole, adesso, mi rendo conto che tendo a colpevolizzare sempre me stessa e giustificare sempre i miei genitori ma non riesco ancora ad accettare pienamente che loro possano sbagliare o comportarsi male con me perché sono i miei genitori e hanno dato più loro a me di quanto io abbia mai dato loro.

Non sono critiche pesanti quelle di mia madre ma a lungo andare, negli anni, credo che abbiano alimentato le mie insicurezze (per fare un esempio "hai i capelli color topo" quando sono di un castano normale e mi chiedo se non sia per questo che ho iniziato a tingermeli di rosso. Oppure "non sai fare niente" riferito alle faccende domestiche, così alla fine ho finito per non fare nemmeno più quelle. Invece di insegnarmi mi diceva "faccio prima a fare io"). Sono sciocchezze alla fine e un'altra persona forse avrebbe reagito con più forza, io per qualche motivo non ce l'ho fatta.

Mi è piaciuto molto quello che ha scritto sulle difese che uso per sopravvivere al dolore e che posso vederle come qualcosa anche di positivo perché non ci avevo mai pensato. Mi sembra di essere così anaffettiva verso gli altri che non ho mai colto nulla di positivo in quello che ho sempre considerato come un mio difetto.
L'unica cosa che mi viene in mente se dovessi pensare a fidarmi completamente di qualcuno (genitori o amici o altri) è la paura di riporre male la mia fiducia. Essere tradita, derisa e giudicata ma credo che debbo rifletterci ancora più attentamente.

La ringrazio per i consigli.