Depressione: stato o moto? L'autoritratto di Leopardi
"Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere alla tua del primo. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch'io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolore gravissimo; e sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch'è un niente anche la mia disperazione. [...]"
In questo passo di Leopardi del 1819 si trova una descrizione di uno stato depressivo. Leopardi è uno scrittore noto alla maggioranza per essere "un depresso", al punto da fare del sentimento depressivo il terreno della sua poesia, con una teoria del pessimismo come destino dell'uomo e come impostazione dell'universo stesso rispetto all'uomo. Nelle sue poesie però si nota subito una cosa, e cioè il tema della fuga dalla depressione, del desiderio di una vita diversa, che poi rimane un sogno o un rimpianto magari. La depressione di Leopardi non nasce quindi in sé da una situazione di buio, ma da una oscurità che crea sofferenza proprio perché colpisce un mondo teoricamente pieno di colore. Questo contrasto significa vivere la depressione non come limite alla sopravvivenza, ma come negazione della felicità. Il depresso "Leopardiano" si muoverebbe, spiccherebbe il volo, saprebbe dove andare, di solito ha aspirazioni anche grandi, ma è come ancorato, zavorrato, frenato da una depressione che lo magnetizza dalla parte opposta, come in un crudele sberleffo. Crudele è il constatare di esser fermo e inchiodato quando invece dentro si sente un moto ad andare lontano, a sognare. Per questo a parità di limiti, i depressi "in movimento" con il pensiero soffrono molto di più di quelli semplicemente "spenti". Soffrono in maniera più concitata, e a volte quest'idea di doversi muovere per andare altrove a trovare un senso sfocia nella progettazione del suicidio, non tanto come resa al peso della depressione quando come fuga all'angoscia di voler fare ed essere invece frenato. Oppure, nel voler stare in pace, fermi ma essere costretti a muoversi a vuoto, inutilmente, in maniera frustrante, senza uno scopo e una destinazione reale. Nel passo Leopardi infatti dice che non si muove se non perché "costretto" a farlo, da una forza che lo vorrebbe altrove rispetto al dolore, ma non ha nessun luogo felice a cui inviarlo, riesce solo a farlo spostare inutilmente da seduto a sdraiato, da sdraiato a seduto, o a farlo camminare da un punto all'altro senza prospettiva. I pazienti in questo stato solitamente dicono in maniera angosciata "non so cosa fare, non so dove andare", il che evidenzia la discrepanza tra la spinta a fare e ad andare ed un cervello spento e nebuloso che non riesce a concepire la benché minima azione o iniziativa, ma rende insopportabile lo stato in cui si è.
Si sarebbe portati a pensare che quando più la depressione si aggrava, tanto più toglie energia al corpo. In realtà l'aggravamento della depressione può segnare il passaggio da una forma "calma" ad una forma "agitata", in cui cioè non c'è più una perdita di quota equilibrata, ma una caduta a picco. In termini matematici, il "vettore" della depressione può variare in lunghezza (lieve, media, grave), ma anche in orientamento, cioè puntare più o meno in basso, come l'ago di una bussola magnetica. Ora, questa sensazione di non essere fermo verso il basso ma di essere "magnetizzato" o inchiodato da una forza che schiaccia verso terra è una sensazione comune a molti depressi, ed è la parte che produce il grado maggiore di sofferenza.
Nel racconto delle persone, o semplicemente nel modo di esprimere la depressione, questo principio di "moto" depressivo e non di staticità semplice si percepisce come idea di andar via, di muoversi, di fuggire dal dolore attivamente, oppure, come percezione di una sofferenza che entra dentro, che si muove, quindi lacera, si conficca, spinge avanti i pensieri in una ruota dolorosa e dentata. La "noia" di Leopardi quando diventa depressione non è più poesia, non lo spinge a produrre nulla, ma non si limita a schiacciarlo, lo agita, lo lacera e lo affanna. Per affannarsi significa che si sta correndo o opponendo strenuamente resistenza ad una forza che schiaccia. C'è un moto, c'è un dispendio di energie, c'è un affaticamento. Come accelerare con la macchina rivolta contro un muro, tra fumo, rumore e odore di freni che stridono, calore che si accumula dentro l'abitacolo. Alla fine sempre fermi si resta, e questa è la "gravità" della depressione intesa in senso statico, ma il grado di stress è molto maggiore. Lo stesso concetto di "eternità" del dolore, o di profondità, sono proiezioni, e quindi un equivalente di un movimento, per questo il dolore "eterno" è straziante più di quello che avrà un termine, perché un dolore che tira all'infinito, non raggiunge un equilibrio e non finisce, anche se con la morte. Questo a logica non significa niente, l'eternità non è un'esperienza, è una proiezione "come se" il movimento di aggravamento del dolore dovesse continuare all'infinito. Parallamente a questa "destinazione" immaginaria infinitamente lontana dalla felicità la speranza crolla e non sembra più ragionevole.
Non di rado dopo questi momenti di "moto depressivo" il moto diviene anche corporeo, cioè la depressione si fa agitata, oppure subentra invece un moto tutto opposto nell'umore, e la persona diventa iperattiva e magari euforica, e si sente di produrre, scrivere, parlare. Leopardi nelle sue poesie infatti non parla di depressione, poiché nella depressione non ci sarebbe niente da raccontare (neanche la disperazione non ha un senso dopo un po'), ma di ciò che la depressione ostacola, della felicità che è al di là della siepe oscura (come nell'infinito) o che è sopra le case all'altezza del volo degli uccelli (come nel "passero solitario"). Anche la fretta e l'urgenza di godere la vita perché c'è la minaccia costante di una depressione che interromperà la felicità c'è nel Sabato del Villaggio. La percezione della depressione mentre ancora è in corso "la festa" è caratteristica, perché è proprio segno che la depressione (almeno quella bipolare) non è uno stato, ma un movimento, che quindi si percepisce perché è in corso anche se per il momento la situazione generale è ancora "allegra" o "neutra". Ci si sente sprofondare, attirare dal magnete depressivo.
Alcuni psichiatri del secolo scorso dicevano che proprio nella depressione loro riconoscevano il seme dell'eccitamento, e non negli stati euforici, più comuni in generale ma meno caratteristici della bipolarità. Oggi questo concetto è appunto ripreso dal quello di "mixity" e "switchity", cioè di instabilità interna agli stati depressivi e di presenza di eccitazione e inibizione contemporaneamente nello stesso stato mentale.