Interruzione delle terapie in psichiatria: una questione di equilibrio clinico
Nel suo articolo pubblicato su Psychiatric Times [1] il Dr. Joseph F. Goldberg, psichiatra e presidente dell’American Society of Clinical Psychopharmacology (ASCP), propone una riflessione critica sull’introduzione del termine deprescribing nel lessico psichiatrico. Il concetto, nato in ambito geriatrico nel 2003, si riferisce all’“interruzione intenzionale di farmaci inappropriati” e implica una valutazione attiva e ponderata del trattamento in corso.
Tuttavia, se in altre discipline mediche il termine è stato accolto con relativa serenità, in psichiatria ha generato forti reazioni.
Deprescribing in psichiatria
Goldberg osserva che alcuni movimenti — come quello antipsichiatrico — hanno strumentalizzato il concetto per sostenere che tutta la psicofarmacologia sarebbe “intrinsecamente inappropriata”, promuovendo la sospensione radicale dei farmaci al di fuori di ogni logica clinica. Questo approccio, denuncia l'autore, “rinuncia alla condivisione decisionale e non promuove un dialogo costruttivo tra paziente e curante”.
Il punto centrale dell’articolo, però, non è tanto una difesa o una condanna del deprescribing in sé, quanto la rivendicazione di un processo clinico attivo, che contempli sia l’interruzione sia la continuazione delle terapie, secondo criteri di appropriatezza, efficacia e sicurezza.
Goldberg afferma chiaramente:
Sapere quando un trattamento ha raggiunto la sua conclusione logica resta una sfida per condizioni psichiatriche spesso croniche e ricorrenti.
Infatti, l’autore sottolinea come il mantenimento della terapia psicofarmacologica, in alcune situazioni, rappresenti la scelta clinicamente più appropriata a fronte dell’incertezza sull’evoluzione del disturbo o della ricorrenza dei sintomi. A differenza di altre specialità, dove il trattamento ha una durata definita (come un ciclo di antibiotici), in psichiatria le linee guida rimangono generiche e spesso non indicano chiaramente quando sospendere una terapia efficace.
Per affrontare queste complessità, Goldberg presenta le raccomandazioni preliminari della task force dell’ASCP, che si articolano in quattro direzioni operative:
- Incrementare gli studi clinici sulla sospensione dei farmaci per stabilire criteri validi basati sull’evidenza clinica.
- Rivalutare regolarmente l’appropriatezza dei farmaci in corso, anche nei controlli clinici routinari.
- Riconoscere che non tutti i disturbi psichiatrici richiedono un trattamento farmacologico a lungo termine, come nei casi di disturbi dell’adattamento o delle fobie semplici.
- Formare i clinici "all’arte del deprescribing", inteso come parte integrante della pratica clinica e non come atto passivo o reattivo.
In conclusione, l’autore sottolinea l’importanza di mantenere il paziente al centro del processo decisionale: l’unione della competenza professionale e l’assunzione di decisioni terapeutiche condivise fra medico e paziente, tenendo conto dei propri bisogni e delle informazioni cliniche appropriate, consente la miglior cura possibile, libera da pressioni esterne e centrata sui bisogni individuali.
In psichiatria, quindi, parlare di “deprescribing” non significa negare il valore della terapia farmacologica, ma piuttosto saperla contestualizzare, rinegoziare, talvolta sospendere, ma anche giustificare e mantenere, quando necessario.
Fonte
- Deprescribing: Does the Term Belong in the Psychiatric Lexicon? - Joseph F. Goldberg, Psychiatric Times - May 5, 2025