Disperazione e indifferenza

Gentili dottori, buongiorno... Non sapendo da che parte cominciare la mia richiesta, inizio presentandomi attraverso un riassunto della mia storia: figlio unico, viziatello, bravissimo a scuola, orgoglioso e perfezionista. A 14 anni vivo una situazione piuttosto traumatica, un inaspettato cambiamento di vita che mi ha disorientato: niente di tragico, ma nel giro di qualche settimana ho perso i punti di riferimento che, si dice, sono così importanti per un adolescente: cambiamento di paese, di lingua, di contesto sociale, e anche un momento di grave crisi economica che ha investito la mia famiglia. Perché parlarne ancora dopo tanto tempo? Perché non sto bene e non so se le mie condizioni attuali siano legate ai piccoli traumi di allora... Ad ogni modo sono anni, da allora, che soffro di un malessere più mentale che fisico, con momenti di grave sconforto, in cui devo farmi violenza per mettere il naso fuori di casa e rifuggo qualsiasi contatto umano, a altri, più tranquilli ma senza mai conoscere un attimo di soddisfazione o di piacere. I momenti di "tranquillità" sono in realtà quelli connotati dal maggiore distacco verso le cose, e razionalmente so che un'indifferenza eccessiva verso la propria vita (perché di questo si tratta) non è sintomo d'equilibrio. I miei momenti di "down", invece, sono notevolmente peggiorati negli ultimi 5 anni: ormai sono frequenti i momenti in cui letteralmente mi sorprendo accasciato sul letto, su una sedia o addirittura per terra, conscio di questo stato di abbandono e per niente disposto a scuotermi e rialzarmi. Ho 25 anni, quasi 26 e tutti, specie i miei famigliari, mi dicono che questi sono gli anni migliori e che li ho lasciati scorrere... Di fronte a questa accusa, certo dettata da una buona volontà di risollevarmi, mi sento ancor più solo, perché mi accorgo che nessuno, nemmeno chi mi sta vicino ogni giorno, è riuscito a capire che ormai la mia barca voga alla deriva. Gli studi, nei quali brillavo, hanno smesso di darmi soddisfazioni tre anni fa ; li sto finendo per inerzia e per dovere, con un certo ritardo del quale il ragazzo studioso che è in me si vergogna amaramente. Che dire ancora... Il pensiero della morte mi accompagna ogni giorno: è il mio piccolo momento di liberazione ; da qui a dire che ho smanie suicidarie il passo è lungo. La mia sciocca domanda è questa: sarebbe ora di consultare uno psichiatra oppure questo stato di indifferente disperazione è soltanto un aspetto caratteriale? Grazie per l'attenzione e molte scuse per la confusione.
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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 43.6k 993 248
Gentile utente,

Uno stato "caratteriale" non significa che non la cosa non sia disturbante, né che non si possa modificare, né che uno se lo debba tenere.

Sarebbe sì, il caso che innanzitutto facesse fare una diagnosi ad uno psichiatra, parlandogli del perché questo stato di cose le dà fastidio. Il suo modo di di vivere la cosa e non il parere degli altri sono criteri diagnostici.

Dr.Matteo Pacini
http://www.psichiatriaedipendenze.it
Libri: https://www.amazon.it/s?k=matteo+pacini

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze 43.6k 993 248
Gentile utente,

Uno stato "caratteriale" non significa che non la cosa non sia disturbante, né che non si possa modificare, né che uno se lo debba tenere.

Sarebbe sì, il caso che innanzitutto facesse fare una diagnosi ad uno psichiatra, parlandogli del perché questo stato di cose le dà fastidio. Il suo modo di di vivere la cosa e non il parere degli altri sono criteri diagnostici.
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Dr. Vassilis Martiadis Psichiatra, Psicoterapeuta 7.3k 161 83
Gentile utente,
da quello che ha scritto credo che ci siano gli estremi per rivolgersi ad uno specialista e non incorrere nell'errore di aspettare, rimandare o rinunciare perchè "sono fatto così" oppure perchè "così è il mio carattere".
cordiali saluti

Dott. Vassilis Martiadis
Psichiatra e Psicoterapeuta
www.psichiatranapoli.it