Come si calcola il rischio reale per il tumore al seno
Forum RFS: come stimare il rischio individuale di tumore al seno (modelli Gail/NSABP), fattori di rischio e indicazioni per una sorveglianza attiva e personalizzata.
Paola di Loris
Io ci sono
Ily 82 fiduciaria
Annina:
ily82 ... Scarpa in matematica... Presente! tutt'ora mi vanto che non mi sia mai venuta un espressione...


Coccinella75
Danicz:
Siamo già in ansia per l'intervento. Ci hanno parlato di circa 6 ore a cuore aperto. Perché se ci sarà da sostituire la valvola sono pronti



Paola di Loris
Didi fiduciaria
Ily 82 fiduciaria
Siamo una bella squadra di schiappette in matematica 🎉😄
Coccinella75
Dada 62:
Perchè prima sapevi cosa ti aspettava?
Nessuno lo sa...
Io credo ti aspetti una Vita da onorare
Ha ragione Dada! Nessuno/a sa cosa gli aspetta! E sinceramente non vorrei neppure saperlo...Da un giorno all'altro la nostra vita è cambiata! E chi lo avrebbe mai detto? Pensa che è andata bene e che ci sei!
Danicz
Ikigai
❤️❤️❤️
❤️❤️❤️
Ily 82 fiduciaria
Maddy:
Ci sono
Il 21 gennaio di due anni fa mi vedevo con Lara e il prof Catania alla libreria che adorava tanto ....
Il 21 gennaio dell'anno scorso
Te ne sei andata ....ci hai lasciato ma ...non voglio usare la parola vuoto perché hai scritto tanto hai dato tutto ciò che potevi dare ....e io oggi ti chiamo tutti I giorni nel nome di mia Figlia ....perché sei stata e lo sarai sempre importante ...
Tu le parole io i dipinti...
La tua amica Empatica ....come mi chiamavi tu
Ti voglio bene Lara
Mi manchi ...spero hai visto da lassù la mia Lara ....
Maddy ogni volta che scrivi di Lara si sente tutto l'amore che provi per lei e mi emozioni ogni volta... Ti abbraccio forte
Danicz
Coccinella75




salvocataniaMedico Chirurgo
Maddy:
Ci sono
Il 21 gennaio di due anni fa mi vedevo con Lara e il prof Catania alla libreria che adorava tanto ....
Il 21 gennaio dell'anno scorso
Te ne sei andata ....ci hai lasciato ma ...non voglio usare la parola vuoto perché hai scritto tanto hai dato tutto ciò che potevi dare ....e io oggi ti chiamo tutti I giorni nel nome di mia Figlia ....perché sei stata e lo sarai sempre importante ...
Tu le parole io i dipinti...
La tua amica Empatica ....come mi chiamavi tu
Ti voglio bene Lara
Mi manchi ...spero hai visto da lassù la mia Lara ....
Mi ricordo bene il 21 gennaio del 2020 .
Mi ricordo che fosse il 21 gennaio perchè dopo che lei è andata via noi, io e Lara, ci siamo trasferiti in un altro locale per discutere con l'editore del libro che stavamo scrivendo a quattro mani.
Me lo ricordo perchè eravamo nei pressi di Corso Cavour a Roma e poi tornato a Milano avevo scoperto che in un albergo della stessa via e nella stessa giornata erano arrivati i due cinesi che poi sono stati ricoverati allo Spallanzani e affetti da Covid. Il 21 gennaio 2020 tutti eravamo certi che quel virus fosse una roba tutta cinese e che noi con questo mai avremmo avuto a che fare.
Il 21 gennaio 2021 nella stessa giornata si sono trasferite Linda e Nina !
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Non riporto l'ultima mail che mi aveva scritto ........Lara
Riporto invece uno degli ultimi pezzi del libro che stavamo scrivendo e che stavo rileggendo oggi e non potevo non condividerlo con quanti le hanno voluto bene.
"Cammino e davanti a me c'è una salita. L'obiettivo è a circa cento metri. Pochi in generale, una montagna per me in questo momento. Allora mi concentro sulle pietre a terra, guardo solo i miei piedi che avanzano su di esse, un passo dopo l'altro. La testa vuole alzarsi e guardare la meta. "Quanto manca? Voglio arrivare, non ce la faccio". Ma resto ferma nel proposito, col capo basso, concentrata sui passi. E così arrivo all'obiettivo, quasi con stupore, me lo ritrovo accanto, sono arrivata.
Penso allora che è così che vorrei vivere, immersa nei piccoli step, senza guardare il traguardo che poi, si sa, è uguale per tutti.
È agosto e mi trovo al mare. Ci vengo ogni estate da ormai 10 anni. È un posto del cuore, fatto di amici, libertà, risate, bagni, giri in canoa e anche di silenzi, momenti solo miei davanti alle onde, con un libro in mano e la schiena appoggiata alle rocce. Già, la schiena. Un pezzo del mio corpo che non avevo mai davvero considerato e che invece è sostanziale, sostiene e sorregge, permette di avanzare nel mondo, senza crolliamo. Ho sempre avuto coscienza della testa, della pancia, delle gambe. Al dietro non avevo mai pensato. Non ce n'era bisogno, era lì e faceva il suo dovere. Finché tutto questo è cambiato due anni fa. Ho cominciato a sentire un dolore a destra, come di stiramento. Si è accentuato quando un giorno portavo due buste più pesanti, mi è sembrato uno strappo e ho aspettato passasse. Poi il dolore è diventato sordo ed è sceso nella fascia lombare, da lì di nuovo sopra. Finché avevo degli spasmi. Una mattina, in ritardo a lavoro, ho corso gli ultimi metri per arrivare in tempo a timbrare il cartellino e il dolore si è fatto sentire per tutto il giorno. "Che cosa succede? - mi chiedevo - che ha il mio corpo?". Il medico continuava a darmi antidolorifici che lenivano solo un po' i disturbi. Sono seguiti poi vari osteopati e massaggi. Buchi nell'acqua, uno dopo l'altro. Finché un'amica medico non mi prescrive una risonanza. Ricordo che dopo averla fatta il tecnico che mi aiutò ad alzarmi mi chiese se ero caduta di recente. Sul momento non ci feci caso, ma poi questa domanda continuò a rimbombarmi in testa nei giorni successivi.
Quando arrivò il referto ero in ufficio, sola. Per tutta la mattina, durante il lavoro, il pensiero era andato lì e mi ero chiesta cosa avrebbero visto. Ernia al disco? Vertebre schiacciate? Magari niente? Ci pensavo e aspettavo che arrivasse per togliermi il pensiero. Da sempre gli esami strumentali erano stati "controlli", per togliersi uno scrupolo e andare avanti. Stavolta però era diverso. Che c'era qualcosa di diverso lo sentivo, lo sapevo dentro. Una vocina piccola dentro lo sussurrava. Il mio corpo era diverso. Aprii il referto. Era lungo e parlava di malattia. Secondarismi di malattia. La testa mi girava e non capivo cosa ci fosse scritto. Che vuol dire malattia? Quale malattia? Così copiai una parte del referto su google e la parola più temuta venne fuori: cancro.
Ognuno di noi ha delle paure, a volte dettate dalla biografia, altre forse già scritte nel dna. Io ho sempre avuto autentico terrore di tutto ciò che avesse a che fare con il tumore. La condanna a morte più subdola e terrificante che evocava gente pelata ed emaciata, incapace di camminare sulle proprie gambe, ridotta all'ombra di quel che era. Non mi ci ero mai confrontata davvero con questa malattia, nessuno in famiglia. Quando una mia amica a 25 anni si era ammalata di tumore all'intestino, io ero in poco tempo sparita, nascondendomi dietro la paura di disturbare o di non sapere essere di aiuto. Salterei ora su una macchina del tempo solo per prendermi a schiaffi. Comunque, quel giorno, quando lessi la sentenza di google, la sensazione che ricordo con più vividezza è quella di essermi sentita su un precipizio. In parte ancora con i piedi a terra, ma con il corpo sbilanciato verso il vuoto. Mi mancava l'aria, non sapevo cosa fare. Andai da alcune colleghe in lacrime, venne anche un medico, perché al tempo lavoravo in un'azienda farmaceutica. Cercò di rassicurarmi, senza grandi risultati.
Quella pagina maledetta la mandai alla mia amica che mi aveva prescritto la risonanza e a suo fratello radiologo. Mi dissero di andare via da lavoro e di raggiungerli. Da quel momento in poi è cambiato tutto. Lo spartiacque della mia esistenza è stato quel giorno di marzo, ma non sapevo che di lì a poco ce ne sarebbe stato un altro anche peggiore.
Circa un mese più tardi, le idee si erano fatte più chiare. Ero passata per ospedali, avevo incontrato medici, mi ero sottoposta a esami. Il verdetto era di tumore al seno. Avrei dovuto cominciare una cura, ma aspettavo l'esito della biopsia. La mia cagnolina amatissima, Sari, stava male. Anche lei alle prese con un tumore bastardo alla vescica. Ormai non mangiava più da giorni, non si muoveva, non faceva più pipì. I suoi occhi imploravano pietà, una tregua, riposo. Così con il mio compagno avevamo preso la decisione più difficile e dolorosa: portarla dalla veterinaria per l'iniezione. Stavo salendo in macchina, lato passeggero. Un gesto fatto migliaia di volte, quotidiano. In quel momento sentii un dolore lancinante, una pugnalata alla schiena. Gridai. Il mio compagno si allarmò e chiamò la mia amica medico che ci disse di andare in ospedale. Non riuscivo a respirare, pensavo di avere una costola rotta che mi perforava il polmone. Il viaggio di 15 minuti mi sembrò eterno. Dietro c'era Sari moribonda, davanti io che cercavo di respirare e resistere. Arrivati in pronto soccorso due portantini si avvicinarono con la sedia a rotelle. Ero paralizzata dal dolore, dissi di non toccarmi che avevo bisogno di scendere da sola, con calma. Ma loro avevano fretta e mi tirarono per un braccio. Fabrizio e Sari andarono via, dentro sarebbe arrivata la mia amica.
Mi trovai sola, su una sedia a rotelle in una stanzetta grigia, triste e asettica come solo le stanze di ospedale sanno essere. Mi chiesero i dati, poi mi portarono in corsia. Dalla sedia dovevo mettermi in barella, il portantino di prima cercò di prendermi, gli dissi di stare lontano con la faccia più cattiva che ero in grado di mostrare. Ci salii da sola sulla barella. Poi altri esami, una tac forse, che rivelò il crollo di una vertebra, D5, credo, non lo ricordo mai. Se prima non avevo contezza della mia schiena, ora la associo a una battaglia navale e mi è diventata ancora più estranea. Una parte di me marcia, che non mi appartiene. Una parte che crolla, va in pezzi. Quando Fabrizio tornò, ero stesa in corridoio. Il dolore era un po' meno per cortisone e antidolorifici, ma sussultavo di dolore ogni volta che qualcuno sfiorava la mia barella e succedeva spesso. Il pronto soccorso era affollato, cercavo di dire di fare attenzione, di non urtarmi. Ogni minimo spostamento mi provocava spasmi. Ovviamente le botte invece erano continue. Nessuno capiva cosa significava per me un semplice urto. Fabrizio era vicino a me. Sapevo che Sari non c'era più, lui non lo disse, io non potevo sentirlo. Non potevo piangere. I singhiozzi mi avrebbero provocato altra sofferenza alla vertebra. Nel momento più brutto, tragico e devastante della mia vita dovevo restare impassibile, piatta, senza emozioni. E avevo un solo pensiero in testa: "Non l'ho nemmeno salutata".
Della corsa in ambulanza per essere trasferita da un ospedale a un altro ricordo due cose: gli occhi pieni di lacrime di Simona, l'operatrice sanitaria che mi teneva la mano, e il dolore lancinante che mi trafiggeva ad ogni buca. Poi vidi solo soffitti, per una settimana della stanza in cui ero ricoverata ho visto il bianco del soffitto. Ero sdraiata e non potevo alzarmi, né girarmi su un fianco, o a pancia in sotto. Ho dovuto imparare a mangiare sdraiata, a dormire a pancia in su, a fare tutto senza potermi muovere dal letto. Ero terrorizzata da chiunque sfiorasse la struttura di ferro che era diventata il mio nido.
Accanto a me c'era mia madre. E' rimasta lì: mi nutriva, mi cambiava, mi faceva compagnia, ero tornata neonata. Con un mio amico scherzavamo dicendo che stavo ricominciando tutto da capo. Non potevo ridere senza provare dolore, ma avevo bisogno di alleggerirmi, perciò guardavo i film di Troisi e mi sbellicavo dalle risate dentro, senza muovere un muscolo. Sistemavamo un piccolo lettore su una sedia tra i due letti e guardavamo i film che mi aveva regalato Erika, la mia amica dottoressa.
Avevo dato istruzioni precise ai pochi amici a cui avevo permesso di venire a trovarmi: argomenti neutri, niente che potesse farmi ridere troppo o piangere. Passai in ospedale il mio trentanovesimo compleanno, con la mia famiglia, mio padre, mia madre, mio fratello e il mio compagno. Mi avevano comprato una torta al cioccolato, forse una sacher. Giocammo a Nomi, cose, fiori e città.
Nei giorni seguenti mi dissero del busto: potevo alzarmi indossando questa specie di corazza che avrebbe sostenuto la schiena. Ero terrorizzata all'idea. La psicologa dell'ospedale mi disse una frase che mi aiutò molto, in quel momento e nei giorni a venire: "Pensa ai muscoli, non alle ossa". Feci una prova con il busto insieme a Fabrizio ed Elvira. Loro mi sostenevano da entrambi i lati. Misi i piedi a terra e mentre muovevo il primo passo si aprì la porta della stanza ed entrò la signora che faceva le pulizie. Ero senza mutande, per via del catetere, così Elvira cercò di coprirmi con la sacca piena di pipì e scoppiammo tutti a ridere (avevo ricominciato a farlo un pochino).
Arrivò il momento delle dimissioni. Da un paio di giorni camminavo con il busto da sola. Avrei dovuto fare radioterapia alla schiena, decidemmo così di andare in un residence vicino all'ospedale per evitare di fare le scale di casa. C'era un bel giardino davanti, la camera era spaziosa. Ogni volta che dovevo alzarmi dal letto avevo bisogno di chiamare Fabrizio perché mi aiutasse a mettere il busto. Lui ormai dormiva con un occhio aperto, era diventato espertissimo: lo sfioravo, si alzava, prendeva il busto, mi aiutava a infilarlo, si riaddormentava. Piano piano imparai a metterlo da sola. Ogni mattina mi svegliavo e speravo di avere sognato tutto e che quell'incubo fosse finito. Di notte sognavo di tornare a lavorare, ma poi c'era sempre qualcosa di stonato. La malattia non entrava nei sogni in modo chiaro, stavo bene, camminavo, correvo. Ma a un certo punto capitava sempre un motivo per cui dovevo tornare a casa.
Il momento che preferivo della giornata era la colazione. Poi cominciava la giornata in radioterapia, l'attesa, il suono dei numeri che scorrevano, le persone ormai note. Mi portavo un libro che facevo finta di leggere. La sala della radio sembrava l'interno di un'astronave. I tecnici svolgevano le loro manovre e mi mandavano su e giù con il lettino finché non trovavano la posizione giusta. Uscivano e io restavo lì a immaginare i raggi che colpivano la mia schiena e la guarivano.
Nel residence c'era uno specchio in corridoio nel quale mi vedevo riflessa ogni volta che rientravo dal giardino. Mi immaginavo come una principessa con corpetto e corona. Mi dava forza. Di giorno, dopo l'ospedale, leggevo e studiavo, anche se non sempre riuscivo a concentrarmi. I miei genitori venivano a portarci il pranzo e la cena e di pomeriggio stavo con loro, mentre Fabrizio andava a casa. Giocavamo a Burraco soprattutto, o parlavamo. Venivano a trovarmi degli amici con cui facevo piccole passeggiate in giardino. Trascorse un mese di questa routine e finalmente tornai a casa.
La radio mi aveva creato un problema all'esofago, così facevo fatica a ingoiare qualsiasi cosa, persino l'acqua. Fu un periodo di pappette che si inseriva del quadro del dover ricominciare tutto da capo. Ero una bambina piccola che doveva imparare a camminare, mangiare, vestirsi. E che veniva accudita. Era questo un aspetto che mi faceva impazzire. Io, andata via da casa a 18 anni, ora dipendevo da mia madre che mi vestiva, lavava e provvedeva alle mie necessità. Apprezzavo quel che faceva per me, ma allo stesso tempo sentivo una grande rabbia montare ogni volta che mi aiutava. Pensavo sarebbe stato per sempre e che non avrei mai più riacquistato la mia indipendenza.
La mattina mi svegliavo e maledicevo il fato e qualsiasi altro essere superiore per essere ancora viva e in quella situazione. Poi nel corso della giornata l'umore migliorava un po'. Divoravo libri scritti da persone malate di cancro, o che avevano vissuto tragedie nella loro vita e in qualche modo ne erano usciti. Da Bebe Vio a Alex Zanardi, Leonardo Cenci e altri meno noti. Ero alla disperata ricerca di modelli che mi ispirassero. Io che avevo sempre scansato i drammi, le malattie, la tristezza, il dolore, ora ci sguazzavo dentro. Chi ero non lo sapevo più. La malattia era diventata tutto. Mi guardavo da fuori e vedevo una povera malata, compatita e senza speranza. Avevo resistito a lungo senza consultare Google, ma poi lo feci e il mondo che mi si spalancò davanti fu devastante. Gruppi di auto aiuto riportavano le storie di donne angosciate e devastate. Medici e altri sedicenti esperti facevano previsioni sulla sopravvivenza, due anni, tre se fortunato. Mi rimase impresso un articolo pubblicato su un sito dedicato al tumore al seno. Era rivolto alle amiche di una donna metastatica e diceva: "Non parlate alla vostra amica di futuro, perché quasi sicuramente non lo avrà".
Dopo tanto vagare trovai quel che cercavo ma pensavo non esistesse. Un dottore raccontava di una ragazza che aveva avuto metastasi ossee e ora chiedeva se poteva tornare a fare nuoto agonistico. Per me fu come se la montagna che mi era piombata addosso cominciasse a sgretolarsi. Vedevo una piccola luce, flebile e fragile, ma c'era. Seguii il link e mi ritrovai su un forum. Il nome confermò il mio entusiasmo: Ragazze fuori di seno. Ecco quello che mi era mancato in tutto quel tempo dalla diagnosi: la follia. Il vedere fuori dagli schemi, l'immaginare un finale diverso, anche contro tutte le previsioni e le statistiche. E l'ironia. Può ancora ridere chi ha il cancro?
Entrai in quello spazio dopo aver letto le storie delle altre ragazze. C'era chi aveva le metastasi e ci conviveva da anni, chi non le aveva più, chi aveva scoperto la malattia mentre era incinta e aveva partorito e ora stava bene. Tante le storie che riaccendevano la speranza. In punta di piedi raccontai la mia e venni accolta dalle altre e dal Dottore, anche lui chiaramente "fuori di sen(n)o". Avevo bisogno di una nuova visione, di uno sguardo diverso che demolisse la mia idea del cancro, mia e dell'immaginario collettivo: cancro uguale sofferenza e morte. Sul forum si respirava la vita, si scherzava, ci si scambiavano ricette, si raccontava la vita quotidiana, fatta di lavoro, figli, passioni, gite fuori porta. Non solo, ovviamente. C'era anche la paura che però, condivisa, si ridimensionava.
Spinta da quel clima decisi che non volevo più interpretare il ruolo della malata e cominciai a fare delle passeggiate. Indossavo il busto e uscivo. Prima piccoli tragitti, poi alzai l'asticella e cominciai a fare 5 chilometri al giorno. Durante le camminate mi sentivo di nuovo viva, intorno a me c'era la natura, con il verde, i fiori, il cinguettare degli uccelli, le voci. Quella vita che per mesi avevo intuito e invidiato da dietro la finestra, dall'interno della mia bolla, ora era anche il mio scenario. Ne facevo di nuovo parte.
- Modificato da salvocatania
Paola di Loris
Nina74
Auguri di buon compleanno in ritardo!!! 🌈❤️🍾
Auguri di buon compleanno in ritardo!!! 🌈❤️🍾
Danicz
Ily 82:
Siamo una bella squadra di schiappette in matematica 🎉😄Io schiappa imbrogliona😂
Per aiutare Ludovica con le espressioni ho trovato il sito “risolviespressioni” 😂😂😂
Coccinella75
Lori Fiduciaria:
Sono tutta pestata, ogni minimo movimento è un dolore. So già che è il Denosumab e mi dura qualche giorno poi passa. Ti abbraccio forte Lori
Fra76 Fiduciaria
Maddy:
Ci sono
Il 21 gennaio di due anni fa mi vedevo con Lara e il prof Catania alla libreria che adorava tanto ....
Il 21 gennaio dell'anno scorso
Te ne sei andata ....ci hai lasciato ma ...non voglio usare la parola vuoto perché hai scritto tanto hai dato tutto ciò che potevi dare ....e io oggi ti chiamo tutti I giorni nel nome di mia Figlia ....perché sei stata e lo sarai sempre importante ...
Tu le parole io i dipinti...
La tua amica Empatica ....come mi chiamavi tu
Ti voglio bene Lara
Mi manchi ...spero hai visto da lassù la mia Lara ....



Paola di Loris
Fiduciaria elisa:
dopo questo ciclo avrei fatto tac di controllo..Con te


