La psicoterapia cognitivo-comportamentale è realmente la più efficace?

alessandro.raggi
Dr. Alessandro Raggi Psicologo, Psicoterapeuta

«Dopo che la psicoanalisi ha dominato la psicoterapia per i primi anni, affermando di essere il trattamento “gold standard”, è poi iniziata un’epoca «cognitivo-comportamentale centrica», le ricerche scientifiche più recenti (vedi link a studio del 10 ott. 2017 - JAMA), però, mettono in discussione questo status e consentono oggi di affermare che «le terapie cognitivo-comportamentali non dovrebbero essere considerate il “gold standard” in psicoterapia». 

La forte incidenza sulla popolazione di disturbi mentali e di problematiche psicopatologiche, induce un elevato numero di persone a ricercare le cure più efficaci ed efficienti per le proprie difficoltà. Spesso è difficile risalire alle fonti delle notizie e così può capitare, non di rado, di imbattersi - anche nel web - in informazioni inesatte, incomplete, o persino infondate.

Uno dei luoghi comuni circa l’efficacia delle psicoterapie, per molti ricercatori sembra essere appunto nell'idea che vi siano terapie più efficaci e più efficienti di altre per il trattamento di determinate psicopatologie.

Per alcuni anni si è diffusa la convinzione che la terapia cognitivo-comportamentale abbia potuto in qualche modo dirsi "più efficace" di altre terapie per dati disturbi. Questa è una affermazione difficile da provare anche per i professionisti, e per l’utente non esperto può risultare molto complesso, se non impossibile, verificare la correttezza di questa informazione.

Alcuni ricercatori si sono limitati a mostrare l’infondatezza di queste affermazioni mostrando quanto i fattori di efficacia siano riconducibili a “fattori comuni” presenti in tutte le psicoterapie e non siano, invece, relativi alla tecnica utilizzata. Ciò che “cura” in psicoterapia, secondo questi studiosi, sarebbero dunque variabili trasversali da rintracciare tra le caratteristiche personali del terapeuta, del paziente, o in particolare attinenti la qualità della relazione intercorrente tra paziente e terapeuta.

Altri ricercatori, hanno invece indagato la questione sul piano della ricerca empirica, tra questi, vi sono Falk Leichsenring e Christiane Steinert dalle Università della Germania di Giessen e Berlino). Questi ultimi, con la collaborazione delle facoltà di psicosomatica, psicologia, psicoterapia e della Scuola di Medicina di Berlino, hanno recentemente dimostrato, grazie a uno studio pubblicato il 10 ottobre 2017 sulla rivista JAMA dell’American Medical Association – una delle riviste scientifiche più prestigiose ed accreditate del mondo – che: «nessuna forma di psicoterapia può oggi affermare di essere il gold standard, suggerendo la necessità di pluralità nel trattamento e nella ricerca, vale a dire una varietà di differenti approcci psicoterapeutici.».

 

Focus dello studio pubblicato sul JAMA è la presunta maggiore efficacia degli approcci basati sulle terapie cognitivo-comportamentali (TCC in italiano; in inglese CBT “cognitive based therapy”), spesso considerate “gold standard” nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, senza che però vi siano “prove sostanziali” a sostegno di questa affermazione.

Leichsenring e Steinert, prendendo in considerazione alcune tra le più recenti e complete meta-analisi comparative tra vari approcci in psicoterapia, utilizzati nella cura dei più comuni disturbi psichiatrici, hanno documentato che «non vi sono prove evidenti che CBT sia più efficace di altre psicoterapie, sia per i disturbi depressivi che per i disturbi d'ansia. Ciò vale anche per molti altri disordini mentali (ad es. Disturbi della personalità o disturbi del comportamento alimentare)».

I risultati di questo studio mostrano, al di là dei luoghi comuni, numerosi punti di debolezza di molte delle ricerche che hanno sino a poco tempo fa indicato una maggiore efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali. Si può parlare di terapie cognitivo-comportamentali al plurale, poiché nello studio si sono esaminate molte delle principali varianti di questo approccio, tra cui anche la più nuova terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica: “CBT-E”. In particolare, tra le conclusioni emerse nella ricerca contemporanea, è risultato evidente che «le terapie cognitivo-comportamentali sono state spesso sopravvalutate» anche a causa di importanti errori, sia di validità dei costrutti, sia di attendibilità dei risultati, di correttezza metodologica, che infine di interpretazione degli esiti. Alcuni dei risultati a cui sono giunti i ricercatori, dunque, possono dirsi: 

  • Un numero esiguo di studi possono dirsi realmente comparativi tra le terapie cognitivo-comportamentali e altre psicoterapie (psicodinamica, sistemico-relazionale, interpersonale, etc.) e questi pochi studi non necessariamente mostrano una superiorità delle TCC;
  • I test sono stati spesso condotti con metodologie deboli. Non vi è nessuna chiara evidenza empirica circa la superiorità delle terapie cognitivo-comportamentali rispetto ad altre psicoterapie. Anzi, meta-analisi estese hanno evidenziato che «gli effetti della CBT (terapia cognitivo-comportamentale) sono incerti e devono essere considerati con cautela»;
  • La “fedeltà” dei ricercatori alle teorie cognitivo-comportamentali è spesso “incontrollata”, ciò ha portato spesso a risultati falsati dalle aspettative dei ricercatori, quando non addirittura all’esclusione di variabili, condizioni, o persino risultati che non erano aderenti ai desideri iniziali dei ricercatori stessi;
  • Gli studi di alta qualità sono pochi, mentre vi è un numero elevato di studi di scarsa qualità. Per affermare che una terapia è superiore ad altre terapie non occorre solo un numero elevato di ricerche, ma occorrono anche ricerche di qualità, che invece non sono abbastanza numerose;
  • Mancano le prove empiriche che nei casi in cui si è registrato un miglioramento dei sintomi, questo dato sia stato dovuto ai meccanismi centrali - dal punto di vista delle teorie cognitivo-comportamentali - implicati nel cambiamento psicologico. In sostanza il cambiamento, quando positivo, potrebbe essere dovuto alla presenza di fattori aspecifici non contemplati nei trial;
  • I risultati positivi della TCC (terapia cognitivo-comportamentale) hanno mostrato una efficacia limitata. La durata nel tempo dei risultati conseguiti dai pazienti è ridotta. Ancor più spesso, si ha una mancanza di prove empiriche circa la “robustezza” dell’efficacia dei trattamenti. Più semplicemente, i trattamenti cognitivo-comportamentali, anche quando si mostrano efficaci, lo sono poco: ovvero «non producono effetti sufficientemente ampi».

Ciò che rende particolarmente interessante questa ricerca è la presenza, tra gli studi esaminati, di lavori svolti da gruppi di ricerca considerati «sostenitori della CBT o da ricercatori indipendenti».

«Pertanto», conclude lo studio, «la tesi secondo cui l'evidenza di efficacia per la CBT è limitata non dovrebbe essere attribuita a un pregiudizio contro la CBT stessa».

Questi risultati non derivano quindi da studi selezionati in modo arbitrario, bensì da accurate ricerche meta-analitiche e da review sistematiche di alta qualità svolte in modo indipendente o addirittura da esponenti del mondo cognitivo comportamentale.

Se da un lato quindi «le prove per le psicoterapie cognitivo-comportamentali sono meno forti di quanto spesso affermato», la CBT, secondo gli autori, resta comunque «probabilmente la psicoterapia più studiata empiricamente». Per altre forme di psicoterapia, come la terapia interpersonale o la terapia psicodinamica esistono un numero inferiore di studi d’efficacia, ma ciò non è sufficiente ad affermare che siano meno efficaci.

Gli autori, si augurano che queste loro conclusioni possano essere utili a far comprendere che «tutte le terapie basate sulle evidenze hanno i propri punti di forza» ma nessuna può auto-proclamarsi “gold standard”.


LINK:

Leichsenring, Steinert, et al. JAMA. October, 10, 2017. Is Cognitive Behavioral Therapy the Gold Standard for Psychotherapy?: The Need for Plurality in Treatment and Research.

 

 

 

 
Data pubblicazione: 24 ottobre 2017

10 commenti

#1

Giuste osservazioni. Aggiungo anche, da cognitivista formato, che è molto operatore dipendente ed è anche spesso abusata come metodologia da professionisti non formati.
E' divenuta una ricerca specifica per quasi tutti i pazienti senza che siano considerate le condizioni di eleggibilità a priori.

Saluti

#2
Dr. Alessandro Raggi
Dr. Alessandro Raggi

@Francesco Saverio Ruggiero
Grazie per l'intervento: concordo pienamente sul fatto che una psicoterapia sia "molto operatore dipendente", ovviamente non solo la TCC ma anche tutte le altre.
il dott. Ruggiero apre poi un capitolo delicatissimo e purtroppo molto attuale: tecniche ad uso esclusivo dello psicoterapeuta (medico o psicologo) spesso utilizzate (impropriamente) da persone che non hanno le necessarie competenze e qualifiche.

#3

Ottimo articolo, concordo del tutto, la psicoterapia e’ molto ‘’ operatore dipendente’’.. Bravo! Ciao, buon lavoro..! Magda

#4
Dr.ssa Valeria Randone
Dr.ssa Valeria Randone

Caro Alessandro,
ottimo articolo, condivido la correlazione tra successo terapeutico, clinico e relazione terapeutica.

Buon lavoro.

Valeria

#5
Dr. Romeo Sciommeri
Dr. Romeo Sciommeri

Grazie ad Alessandro Raggi per queste note, che, mi pare, sono infine una conferma degli studi che condusse Carl Rogers sull'efficacia della psicoterapia in rapporto alla scuola di formazione del terapeuta.
Cito Rogers per dire che la mia formazione fu psicoanalitica ma lo studio dell'assetto teorico e pratico a cui giunse questo terapeuta mi fu molto utile - cresciuto a pane e interpretazioni, mi trovai davanti a uno che diceva: hei, guarda che nel momento in cui interpreti ti metti al centro della relazione e dici all'altro "tu non capisci, adesso ti dico io come stanno le cose". Sì, sì, so cosa significa aspettare che l'altro ci arrivi più o meno da solo a capire come stanno le cose, so come interpretare senza darne l'impressione, ho avuto buoni maestri di psicoanalisi. Ma Rogers aveva ragione, e questo mi rese più consapevole del carattere di "farmaco" dell'interpretazione - con i suoi effetti collaterali, da usare al momento giusto e col giusto dosaggio, cioè solo quando davvero necessaria.
Questo per dire: la contrapposizione tra psicoanalisi e terapia cognitivo-comportamentale è reale? Per uno psicoanalista minimamente avveduto secondo me no, non c'è contrapposizione. anzi, oggi, e già da parecchio tempo, è impossibile che non vi sia integrazione tra le istanze di conoscenza della psicoanalisi e quelle comportamentali della TCC.
Cos'è, una buona terapia psicoanalitica, se non una terapia cognitivo-comportamentale? Certo, non sto pensando alle terapie cognitivo-comportamentali da barzelletta, o alle analisi da barzelletta.
Per le terapie serie, semmai, nel gioco degli accenti vale la comprensione della relatività del termine "cognitivo": da parte di chi? del paziente? del terapeuta? di tutti e due? di nessuno dei due?
Ricordo quello che mi disse il mio primo didatta (era il primo psichiatra romano che sentì il bisogno di una formazione psicoanalitica ed era diventato didatta della SPI): "Le migliori terapie sono quelle in cui il paziente guarisce senza sapere perché." Già, e noi terapeuti, invece, sappiamo perché? Forse sì, a livelli ben poco discorsivi, sappiamo.
Grazie, e buon lavoro!

#6
Dr. Alessandro Raggi
Dr. Alessandro Raggi

@grazie ai Colleghi per i loro commenti e il loro contributo.

#7
Utente 405XXX
Utente 405XXX

Articolo molto interessante ma vorrei precisare che viene messa in evidenza come tematica principale che la terapia cognitivo comportamentale non è gold standard. Ma oltre a questo dice chiaramente che l'efficacia di tale terapia , secondi gli studi effettuati, è scarsa. non ha effetti "ampi " , e la durata dei miglioramenti è ridotta.
La domanda che ci si pone quindi è : non esiste quindi una psicoterapia realmente efficace e con miglioramenti a lungo termine (se non risolutivi del tutto)?
Perché se da un lato le altre tecniche hanno comunque le loro lacune in termini di guarigione (parliamo ad esempio di un disturbo da panico con agoràfobia ) , un paziente in fin dei conti non potrà mai guarire?
quindi anche l'associazione farmacologica , talvolta necessaria , che dovrebbe essere solo di supporto , poiché il reale cambiamento dovrebbe avvenire tramite meccanismi che sono oramai ahimè divenuti disfunzionali nel soggetto malato (oltre che automatizzati) , se l'unica soluzione è la conversione di questi meccanismi mentali grazie alla psicoterapia, ma questa non da effetti , cosa deve fare il povero paziente caduto in preda al disturbo in questione?
chiaro che la guarigione avviene per merito del paziente. Farmaci e psicoterapia sono l'aiuto , di diversa entità , per la risoluzione del disturbo.
ma se la parte cognitiva, che sta alla base dei meccanismi da correggere , non ha effetti , un soggetto che ormai soffre di DAP , ad esempio , è condannato a passare la vita così?
non è una critica all'articolo che è interessante assolutamente.
ma una considerazione finale per curiosità , e lo dico e chiedo da paziente.
grazie
Marco

#8
Dr. Alessandro Raggi
Dr. Alessandro Raggi

Gentile Marco (Utente 405190),
le domande che pone sono pertinenti anche se richiederebbero molto spazio per una risposta esauriente.
Provo sinteticamente a tracciare i punti per una risposta che è solo un abbozzo ovviamente:
1) un conto sono le ricerche in psicoterapia, altro conto è la pratica clinica, dove tutte le variabili non possono essere controllate alle stesse condizioni: questo differenzia la psicoterapia da altre scienze, inclusa la medicina, che ha meno differenze tra outcome di pratica clinica e di ricerca perché le variabili in gioco rispetto all'esito sono spesso in minor numero che in psicoterapia.
2) dire che una terapia ha mostrato un'efficacia limitata, non significa che non è efficace.
3) In nessun luogo della news è scritto che "la psicoterapia non da effetti": questa è una sua deduzione che però rischia di apparire eccessivamente drastica. La psicoterapia è efficace, non è una panacea (come non lo sono neppure i farmaci d'altronde), ma la sua efficacia va sempre contestualizzata.

Lei pone infine una domanda molto interessante: "un soggetto che ormai soffre di DAP , ad esempio , è condannato a passare la vita così?" -
Ecco in psicoterapia non si può parlare genericamente di "un soggetto" e dunque di una data patologia psichiatrica - il DAP come nel suo esempio - come se fosse una variabile indipendente dal soggetto (e dal terapeuta): questo è esattamente l'errore in cui cadono alcuni (inclusi abitanti dell'universo -psi) che immaginano le psicopatologie come entità concrete, un po' come se fossero malattie mediche di natura somatica specifica.
In psicoterapia occorre, invece, prestare enormemente attenzione al soggetto che soffre e che esprime la propria sofferenza in un modo che noi terapeuti ci rappresentiamo secondo delle categorie psicopatologiche.

Per rispondere in maniera più diretta alla sua domanda: occorre vedere e capire chi è quel soggetto che soffre e di che tipo di DAP, quali risorse ha quel soggetto (e quali non ha) quale rete relazionale lo supporta, che personalità ha quel soggetto, che capacità cognitive, empatiche, sociali, istintuali, comunicative. Il soggetto non è solo il DAP, e sapere che un soggetto ha un DAP non dice assolutamente nulla circa quel soggetto. Solo comprese e valutate tutte queste cose (e molte altre) si potrà capire se QUEL "soggetto che ormai soffre di DAP , ad esempio , è condannato a passare la vita così" - oppure no - grazie a una buona psicoterapia e/o grazie al supporto di una corretta terapia farmacologica prescritta da uno psichiatra.

#9
Utente 405XXX
Utente 405XXX

Gentilissimo Dottore , la ringrazio per la Sua risposta.
in effetti era una mia deduzione quella che non abbia effetti. Ma era basata sulla frase che anche quando producono effetti , il che indica che non sempre li producono.ed anche in quei casi non sono ampi e duraturi.
poi giustamente come ha specificato lei , è diversa la parte clinica.
e il soggetto in questione dev'essere valutato in tutti i suoi fronti per poter procedere individualmente con una terapia ad hoc ed un eventuale miglioramento e magari anche una guarigione.
io lo chiedevo in quanto soffro di Doc e di panico con agoràfobia.
Ho fatto psicoterapia per agoràfobia di vari tipi ma con risultati quasi nulli.
attualmente ho iniziato un nuovo percorso con un terapeuta cognitivo comportamentale per il Doc e per agoràfobia appunto.
sono solo un po amareggiato per i risultati scadenti passati.
e volevo Appunto capire se ci sono possibilità di uscire da questo baratro che è invalidante nella vita quotidiana e per progetti anche futuri come studio e lavoro.
oltre che relazionali.
Infatti come ha detto lei credo sia un lavoro molto complesso quello di trovare le cause che stanno alla base del disturbo ovvero se ci sono delle cause che hanno originato il disturbo magari durante l'infanzia.
la comportamentale vedo che ha l'obbiettivo di cambiare i meccanismi disfunzionali ormai diventati automatismi in funzionali con teoria e pratica. Il che mi sembra una buona cosa.
ho solo il dubbio che se all'origine di tali disturbi c'è una causa scatenante come un trauma irrisolto infantile piuttosto che adolescenziale o altro , la terapia non abbia l'efficacia che dovrebbe.
poi è chiaramente una mia opinione o meglio un mio dubbio solo una perplessità.
ad ogni modo ci tengo a precisare che non volevo assolutamente screditare il suo articolo anzi.
Se per caso ho dato questa idea , chiedo scusa non era questa la mia intenzione.

#10
Dr.ssa Paola Dei
Dr.ssa Paola Dei

Complimenti Alessandro. Ottimo articolo. Concordo pienamente e, come ha fatto notare un collega, esistono molti approcci integrati fra i quali il cognitivismo caldo che si collocaa in uno spazio di confine e apre a molteplici possibilità.
Concordo anche sul fatto che la la terapia è il terapeuta.
Buon lavoro


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