Antidepressivi e depressione: le cure lunghe fanno bene o male ?
Molte persone si pongono il problema degli effetti a lungo termine dei farmaci per disturbi neuropsichiatrici, comunemente indicati con il termine di psicofarmaci.
L'idea più diffusa è probabilmente che è meglio evitare di prenderli se possibile; che se si prendono è meglio farlo per periodi brevi; e che se possibile è meglio utilizzare altre forme di trattamento anche allo scopo di smettere farmaci che si assumono da tempo.
Poiché parlare di psicofarmaci non ha molto senso, trattandosi di un insieme molto vario di medicinali per disturbi diversi, focalizziamo l'attenzione sulle terapie a base di antidepressivi, utilizzati per depressione, disturbi d'ansia e "somatizzazioni".
Nel ragionare su quando curarsi e per quanto debba durare una cura con antidepressivi, spesso si pensa in primo luogo ai rischi possibili dei trattamenti, ma quasi mai si parte con il primo punto logico del ragionamento, cioè quale andamento ha la depressione non trattata.
Esistono depressioni che ricorrono ma durano poco (1 mese o meno) o depressioni continue, di varia gravità. In mezzo ci sta la maggioranza dei casi, cioè depressioni che, se non curate, durano molti meni o qualche anno, per poi concludersi, spesso con ricadute poi negli anni a seguire, o con residui che rimangono continui.
E' dimostrato che una cura antidepressiva che dura almeno due anni riduce la probabilità di ricadute dopo la sospensione della cura. In altre parole, cure brevi (pochi mesi) tendono ad essere seguite da ricadute, prima e in numero maggiore.
Questo argomento è semplice e chiaro, ma le ricadute non sono soltanto la ripetizione dei sintomi, è un avanzamento della malattia. Se la depressione corrisponde ad una istruzione che il cervello esegue, la cura cancella questa istruzione e impedisce che la depressione nel tempo costruisca il "suo" cervello, cioè un cervello che "fa" la depressione in maniera preferenziale.
Il cervello depresso si struttura in maniera da mantenere, e riprodurre i sintomi depressivi, come se in pratica si fosse allenato alla depressione, e quindi la facesse ormai senza bisogno di nessun motivo, in automatico, e in maniera continua e rigida rispetto a fattori esterni che potrebbero invece correggerla.
Se il cervello durante la cura non si è sufficientemente ripreso dalla prima "istruzione" depressiva, quando la cura è tolta, prima del dovuto, il processo biologico che "fissa" questa istruzione nel cervello e la rende addirittura strutturata, rigida, è un processo che riprende e progredisce.
Ricadere significa quindi aggiungere un mattone al muro della depressione, che non è stato distrutto completamente se la cura non è durata abbastanza a lungo.
Da questo discorso emerge chiaramente che la malattia porta il cervello verso un irrigidimento, un deterioramento, mentre le cure, specialmente se fatte a lungo, lo aiutano a recuperare, migliorano la sua "elasticità" e fanno regredire il processo di malattia.
In termini "grossolani" il cervello depresso si semplifica, sono ridotte le interconnessioni, il volume di alcune aree cerebrali, insomma l'idea è che sia un cervello che può fare meno cose, reagire di meno, cambiare stato meno facilmente e sia fatto per ripetere se stesso al di là dei fattori esterni.
La ripresa spontanea dalle ricadute quindi è minore se le ricadute sono ripetute, e per questo può accadere che dopo l'ennesima ricaduta il farmaco precedentemente efficace non funzioni più, o funzioni ma solo a dose più alta.
Questo processo di "ristrutturazione" del cervello, al di là dell'effetto sul sintomo, è svolto dai farmaci antidepressivi (e anche da altre categorie) mediante fattori ormonali che probabilmente, se fosse comodo e facile dosarli nelle aree cerebrali, sarebbero utili indicatori del rischio di ricaduta.
Se i neuromediatori che si citano sempre per caratterizzare gli antidepressivi (serotonina, adrenalina, dopamina etc) sono coinvolti nel primo livello di azione degli antidepressivi, questo tipo di azione però rende ragione della correzione dei sintomi, mentre il mantenimento di un determinato assetto di neurotrasmettitori e recettori poi porterebbe ad un cambiamento nei circuiti "ormonali" con cui i neuroni comunicano tra di loro, per fissare strutture e funzionamenti, sia normali che patologici.
Le ricadute, e la cronicità per assenza di trattamento, quindi hanno un'azione sul sistema ormonale che costruisce un cervello organizzato per sostenere la depressione, i trattamenti agiscono in senso opposto.
E' probabile che proprio per questo nelle forme di depressione più durature le cure, dopo primi stentati risultati, possano ottenere gradualmente risultati migliori nel tempo, e che quindi valga la pena di insistere e di potenziare le cure per sollecitare un cambiamento che non avviene facilmente e subito a livello di sintomi, ma nel tempo potrebbe avvenire a livello neuro-ormonale, con una graduale "distruzione" del muro depressivo costruito nel tempo.
Un modo per potenziare questo effetto "trofico", cioè di stimolazione della crescita dei neuroni, solitamente corrispondente ad un funzionamento più elastico e ricco del cervello, meno rigido e più vivace, è la regolarità nell'assunzione delle cure.
Le cure assunte irregolarmente possono comunque garantire una remissione dei sintomi abbastanza stabile, ma hanno un effetto curativo meno efficace. In altre parole, assume a periodi le cure, o qualche giorno si e qualche giorno no, non è come assumere una dose minore: se l'assunzione è irregolare è minore l'effetto curativo. Ancor più "precise" nel sollecitare un effetto curativo sono le formulazioni "a lento rilascio", che permettono livelli cerebrali del farmaco molto stabili nelle 24 ore, tra un'assunzione e l'altra.
In sostanza: la depressione è una malattia da curare presto, abbastanza a lungo, con l'idea che le medicine (a parte il problema di eventuali effetti collaterali mentre le si assumono) migliorano le capacità cerebrali, sia durante che in prospettiva dopo la fine di una cura duratura.
Viceversa, le ricadute non sono soltanto possibili nuovi episodi che eventualmente si tratteranno come il primo, ma scavano in un solco già tracciato, e quindi portano avanti un processo di malattia.
Il numero di episodi già passati aumenta quindi il rischio di episodi futuri, di cronicità e di sintomi residui persistenti. In presenza di storie di depressione lunghe e con ricadute, è utile ricorrere ad associazioni, strategie di potenziamento, e probabilmente avere più pazienza perché l'azione degli antidepressivi, che non si vede subito a livello sintomatico, si svolga però a livello più profondo, ad esempio neuro-ormonale.
Un po' come un vecchio macchinario rugginoso, che per essere rimesso in funzione deve prima essere "scrostato" dalla ruggine, e poi può essere oliato per funzionare di nuovo a dovere.
Bibliografia:
Biggio G. Meccanismi neurobiologici nei disturbi d'ansia e del tono dell'umore
http://www.gipsicopatol.it/italiano/rivista/ultimaannata/ind_17_1.htm