Tutto sugli antidepressivi

Revisione Scientifica:

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Questo articolo illustra i più comuni problemi sull'uso, i limiti, le tecniche e i problemi di gestione delle terapie con i farmaci "antidepressivi", intesi come categoria farmaceutica. Volutamente il taglio evita nozioni tecniche che sarebbero parziali e semplicistiche, e si focalizza sui temi che sono oggetto di domanda, dubbio e errore da parte dei pazienti.

Definizione, ambiguità e limiti di questa denominazione.

L'antidepressivo è un tipo di farmaco che corregge la malattia depressiva (di cui esistono le varianti di maggiore, minore, distimia etc), e che può ottenere questo effetto da solo o in associazione/aggiunta ad altri antidepressivi.

Questo sarebbe abbastanza chiaro. Di norma invece l'antidepressivo è sì provato sulla malattia depressiva, ma come “episodio”, cioè fase, senza che sia definitivamente e univocamente chiaro che non c'è altra diagnosi in ballo.

La più comune ambiguità sta tra l'episodio depressivo, e la diagnosi, che spesso si configura dopo, o solo con un approfondimento diagnostico, per il disturbo bipolare, che è sostanzialmente “altra cosa” rispetto alla malattia depressiva, ma comprende delle fasi con sintomi depressivi, e cioè delle “fasi depressive”. Lo stesso vale per altre ambiguità diagnostiche, anche se meno frequenti e meno probabili.

Quindi sul piano pratico, diciamo che gli antidepressivi sono quei farmaci che, almeno a breve termine (settimane) sono stati provati con successo su “fasi depressive”/”episodi depressivi”, potenzialmente appartenenti sia a diagnosi di malattia depressiva, sia ad altre.

Per brevità, si suole semplicemente dire che sono farmaci “per la depressione”, ma come abbiamo detto questo è un modo di dire non preciso e fonte di diversa confusione.

L'etichetta “antidepressivo” è un'etichetta di successo commerciale, tanto che è stata mantenuta, sebbene in realtà non sia neanche così vero che la depressione è la malattia “numero uno” per frequenza e gravità, e anche se poi l'uso degli antidepressivi si estende a molte altre diagnosi (dal disturbo di panico al disturbo da stress post-traumatico, al disturbo ossessivo).

Il problema di questo nome, che ha sostituito il vecchio termine “psico-analettici” o “timolettici”, cioè stimolanti umorali, o stimolanti generali, è che dà ad intendere al grande pubblico che l'antidepressivo sia comunque utile come generico farmaco per migliorare l'umore. Si passa quindi da un uso sulla malattia depressiva (quello teoricamente provato e ricercato), ad un uso sulla sindrome (fasi depressive di vario tipo e con varia diagnosi di riferimento), fino ad un uso, questo decisamente confuso, sui singoli sintomi o su un generico umore “depresso”, come questo fosse il sintomo (soggettivo, dichiarato dalla persona stessa) principale e sufficiente in fin dei conti a riconoscere una depressione.

Questo non è invece corretto, se si pensa che i sintomi più frequenti sono quelli corporei, tra cui ad esempio un “dolore” riferito a qualche parte del corpo; e i sintomi più specifici sono quelli del pensiero e del comportamento. L'uso dell'antidepressivo sulla base del sintomo “mi sento depresso” è quindi una suggestione, e accade spesso, ma non ha granché di fondamento.

Molte persone a cui è prescritto un farmaco, per sintomi che hanno riferito al medico e che ad esempio hanno condotto ad una diagnosi di “panico”, comprano il medicinale e poi rimangono perplessi perché leggono “antidepressivo”, dal che la classica domanda “ma io non mi sento depresso”.

Trattasi di non non-problema, poiché il farmaco ha molteplici indicazioni ma l'etichetta commerciale è rimasta quella, “antidepressivo”, semplicemente perché evidentemente funziona di più. I primi studi per sviluppare un farmaco con un certo meccanismo d'azione sono sempre sulla depressione, e quindi il farmaco è sempre registrato inizialmente sulla depressione, dopo di che non c'è interesse a farlo uscire nuovamente con altre etichette.

Tipi di antidepressivi

La storia della ricerca sugli antidepressivi ha seguito vari filoni. Non è detto che in questi filoni ci sia un senso, non si tratta di aver “intuito” come funziona la depressione, semplicemente sono idee da verificare, oppure dipendono dal fatto che a livello industriale sia più o meno facile produrre un tipo di molecola rispetto ad un altro, e poi commercializzarla.

Al momento la totalità dei prodotti in commercio agisce su uno o più sistemi neurotrasmettitoriali, cioè un “ceppo” di neuroni, distribuiti a formare circuiti in modi e con densità diverse nelle varie zone del sistema nervoso. I circuiti che trasmettono segnali in entrata e in uscita funzionano mediante sostanze che passano il segnale da stazione a stazione, detti “neuro-trasmettitori”.

I modi con cui si influenzano questi sistemi di circuiti per esempio coinvolgono il meccanismo di produzione del neurotrasmettitore, oppure la quantità in dotazione alla cellula, o ancora il tempo con cui il neurotrasmettitore ripete il segnale, o l'intensità del segnale.

Non avrebbe senso entrare in un dettaglio tecnico circa recettori o altro, poiché queste informazioni sembrano chissà quale punto di arrivo, ma sono soltanto un dettaglio descrittivo “per quanto si può capire”, e certamente non danno un'idea definitiva e chiara di un meccanismo tipo “chiave-serratura”.

L'antidepressivo “più efficace” non esiste, ma esiste invece un antidepressivo particolarmente efficace in alcune forme di depressione, sulla base del tipo di sintomi. I triciclici nella depressione “rallentata” o “melancolica”, gli IMAO sulla depressione “atipica”. Gli ultimi antidepressivi usciti sono sicuramente i meno conosciuti in termini di confronto con gli altri e di efficacia a lungo termine.

C'è da sapere che, mentre gli antidepressivi escono tutti “buoni” sul piano dell'efficacia dopo qualche settimana di trattamento, questo non significa che siano tutti uguali, o che l'effetto rimanga così buono a distanza di mesi. Gli studi quindi privilegiano, per ragioni commerciali e di rapidità, le valutazioni a breve termine che quelle a lungo termine, e questo nonostante in realtà l'antidepressivo ideale debba essere dotato di un effetto stabile, senza sorprese in negativo nel tempo, cioè perdita di efficacia.

L'altro elemento è la tollerabilità, cioè il profilo di effetti collaterali. In questo ci sono delle differenze, forse un tempo troppo enfatizzate. I vecchi antidepressivi hanno alcune situazioni in cui non sono sicuri sul piano medico, e qualche effetto collaterale in più. Tutto sommato però anche i nuovi hanno i loro aspetti sfavorevoli, specialmente nelle terapie a lungo termine. Questo per dire che non ha senso guardare a priori ad un tipo di farmaco come “peggiore” sul piano degli effetti collaterali, e sceglierlo semplicemente in base a questo criterio.

Si notano spesso terapie basate su una molecola in quanto priva di questo o quell'effetto, senza aver considerato che non è indicata per quella diagnosi.

 

Tipi di sintomi e scelta dell'antidepressivo

Le depressioni non sono tutte uguali. Alcuni antidepressivi sono stati introdotti e lanciati nell'ipotesi che fossero più adatti su depressioni con certi tipi di sintomo. In particolare, tre sono i sintomi su cui è più difficile incidere in maniera soddisfacente:

  • i sintomi corporei, come il dolore, o quelli gastrointestinali, che possono persistere, magari attenuati, anche a umore migliore
  • i sintomi relativi al piacere, l'iniziativa e la socialità
  • i sintomi ansiosi in generale

E' infondato ritenere che solo una categoria di farmaci sia più adatta per questi tipi di sintomi. Nonostante si ritenga che i farmaci “a dopamina” o “ad azione doppia” siano più incisivi sugli aspetti dell'iniziativa/socialità/piacere, nel lungo termine questa specificità non è chiara.

Di nessuna utilità è la distinzione tra farmaci “attivanti” e “sedativi”, che equivale alla precedente ma fa pensare, erroneamente, che alcuni antidepressivi possono svolgere un'azione sedativa-calmante, solo perché inizialmente hanno più spesso effetti calmanti o di induzione del sonno.

 

Dosaggio e tempi di risposta

La risposta agli antidepressivi avviene di solito dopo un tempo di “latenza”, cioè di non risposta, che dura 2-4 settimane. Non si tratta di una risposta graduale, che inizia subito (ma poco) e poi va avanti. La latenza è un periodo in cui si può stare esattamente come prima, a volte un po' meglio subito, a volte invece peggio. Non è detto che miglioramenti e peggioramenti iniziali siano sempre legati al farmaco, a volte sono effetti “placebo” o “nocebo” (cioè positivi o negativi temporanei dati da una reazione positiva o negativa all'idea di essere trattati con un medicinale). Altre volte è la malattia che continua a dare sintomi, instabili.

Perché però ci può anche essere un reale peggioramento dei sintomi ? Questo accade perché il meccanismo d'azione dell'antidepressivo prevede una prima fase in cui agisce nello stesso senso del disturbo, per indurre poi un adattamento cerebrale. Anzi, un iniziale peggioramento è considerato segno di futura risposta, dopo il periodo di latenza. Tuttavia questo iniziale peggioramento può portare la persona a sospendere, o semplicemente a diffidare della cura o del medico, e quindi può valere la pena di tamponarlo anche con farmaci sintomatici (per esempio i classici tranquillanti).

La regola seguita è quella di iniziare con dosi basse, salire piano e arrivare alla dose statisticamente efficace. Questo ultimo punto è irrinunciabile: anche se alcuni rispondono bene a dosi basse, mediamente è bene comunque far riferimento alla dose media efficace, e incrementare ancora se non vi è risposta soddisfacente fino alla dose piena. Si inizia con dosi basse per limitare il possibile peggioramento iniziale. Si sale piano per lo stesso motivo. L'impatto iniziale comunque non dipende tanto dalla dose in sé, quanto dal fatto che il primo impatto: quando il cervello si adatta e l'impatto è assorbito, può non esservi più alcun problema nei successivi aumenti.

Anche iniziando con dosi piene da subito, la risposta non è più rapida. Sempre una latenza di 2-4 settimane. Iniziando con dosi più piccole è possibile che si prolunghino un po' i tempi, ma questo non è un problema, dato che alla fine quel che interessa è sapere che una risposta c'è ed è stabile nel tempo.

In alcuni studi si è evidenziato che un miglioramento può comparire “in ritardo”, anche dopo 2-3 mesi. Alcuni medicinali producono miglioramenti rapidi invece, ma questo al momento non è considerato affidabile, e può accadere con medicinali di tipo molto diverso tra loro (anche non antidepressivi).

Terapie con antidepressivi che proseguano per mesi in assenza di una qualsiasi risposta non hanno senso. In più, poiché la depressione, e le fasi depressive in generale, non sono destinate per natura a durare in eterno, più si ipotizza una risposta “ritardata”, più la cosa si confonde con la naturale guarigione della malattia.

Un miglioramento immediato, a scatto, che non sia solo di qualche giorno ma perduri, e anzi assume tinte di inaspettato benessere totale, deve essere guardato con diffidenza, poiché può significare una cosiddetta fase “maniacale/ipomaniacale”. E' bene che questo sia valutato dal medico, e non dal paziente, che è ragionevolmente contento del benessere, e non tenderà a denunciarlo come un problema.

Alcuni studi hanno dimostrato che dosaggi superiori a quelli indicati possono essere risolutivi in chi non risponde a quelli normali, poiché il metabolismo rende le dosi normali di fatto inefficaci (la quantità nel sangue non è quella prevista, e quindi il farmaco non funziona apparentemente). Queste situazioni andrebbero valutate prima di cambiare cura.

Alcuni medicinali sono presenti nel sangue in quantità prevedibile sulla base delle dosi prese per bocca, per altri c'è variabilità. I triciclici risentono molto di questa variabilità, meno paroxetina e venlafaxina, non invece sertralina e bupropione.

Nelle terapie che durano mesi o anni, si è soliti provare una riduzione del dosaggio. Il dosaggio “di mantenimento” (mantenimento del benessere dopo averlo ottenuto) può essere più basso per cercare di attenuare eventuali effetti collaterali (per esempio sessuali)

 

Quando usarli

La diagnosi è il criterio con cui scegliere di usarli, e non la gravità. E' provato che in forme “lievi” di depressione il trattamento antidepressivo può dare un effetto illusorio, poiché questo tipo di episodi hanno più probabilità di avere un decorso rapido (settimane). In ogni caso, nonostante questo tipo di nozione, sul piano pratico quando una persona è visitata e mostra un quadro di depressione lieve, è discutibile se abbia o meno senso attendere che passi da sola: se il dato statistico dice che mediamente le depressioni lievi sono migliorate a distanza di alcune settimane, vanno precisate due cose:

a) non è detto che dopo un primo miglioramento poi invece non peggiori nuovamente, dopo un primo periodo di spontanea fluttuazione

b) alcuni dei casi (che non corrispondono alla media statistica) comunque invece traggono beneficio, e altrimenti tendono a peggiorare in tempo reale

In medicina, se la persona sta male non è un fatto di misurazione solo di alcuni parametri. Una depressione valutata come lieve su una scala di sintomi può corrispondere ad uno stato di sofferenza che per la persona è già significativo. Viceversa, non ha senso accanirsi su singoli sintomi che non rappresentano per la persona un problema o un limite al conseguimento dei propri scopi e allo svolgimento delle funzioni a cui tiene.

Nello studio sugli antidepressivi capita che escano articoli che indicano come un determinato meccanismo d'azione (quello relativo alla serotonina per gli SSRI, esempio), sia in alcuni casi così sfumato che non può essere davvero responsabile di un effetto antidepressivo. In base a questo si suggerisce che l'effetto antidepressivo di alcune molecole sia in realtà “fumoso”, uguale al placebo, insomma truffaldino.

Anche su questo va chiarito un punto, utile a chi legge per capire la differenza tra dato di efficacia e conoscenza del meccanismo d'azione. Quando si dice che un farmaco (antidepressivo X) è efficace sulla depressione, questo dato non richiede di conoscere niente del meccanismo d'azione della molecola. Si può verificare un effetto e stabilire che è realmente dovuto ad un medicinale senza sapere “come” si verifica. Per gli antidepressivi si ritiene di conoscere la parte fondamentale del loro meccanismo d'azione, ed è con questo che i prodotti sono presentati ai medici, discussi e caratterizzati sul mercato. Tuttavia può benissimo darsi che le nostre conoscenze sul “come” del funzionamento siano invece sbagliate, o incomplete. Questo non cambia il dato sull'efficacia, se mai può far pensare che ci siano meccanismi diversi in ballo, sempre dovuti al farmaco.

Se la depressione ha una causa esterna o meno, questo importa relativamente poco ai fini della decisione di utilizzare un antidepressivo. Il fatto che gli eventi esterni abbiano un peso sulla depressione pare legato a varianti genetiche: per alcuni c'è la tendenza a sviluppare depressione dopo eventi stressanti, specie se multipli; per altri questa tendenza non c'è. Una parte delle depressioni rimane comunque priva di eventi plausibili, e anche quando gli eventi ci sono, non è detto che siano eventi “particolari”. Un lutto ad esempio, che può sembrare l'evento più grave possibile, è in realtà un evento che poco giustifica un fenomeno depressivo grave, essendo invece il tipo di evento a cui il cervello tende ad adattarsi nel tempo.

In presenza di sintomi depressivi, specie se protratti, e con elementi non in linea con la situazione (lutto, fine di una relazione, problemi economici etc) non ha senso escludere l'impiego di antidepressivi. Ma anche quando i temi della persona depressa siano legati a problemi oggettivi, così come quando sono in ballo anche altre malattie, ci sono sintomi depressivi che rimangono comunque indicativi di una depressione in corso, e non di un adattamento utile o scontato alla situazione.

 

Associazioni tra farmaci, cambiamento di farmaco

Associare gli antidepressivi è una pratica comune. Non si fa in genere da subito, alla prima prova di cura. Tuttavia è comune che si associ un antidepressivo che deve svolgere il ruolo principale, ad un secondo che è dato a dose piccola semplicemente per controllare alcuni sintomi particolari, o per dare un effetto immediato sul sonno.

Si tendono ad associare farmaci con meccanismo diverso tra di loro (per esempio SSRI e triciclici). Uno dei più frequenti errori nelle associazioni è quello di trovare più antidepressivi combinati insieme, ma nessuno a dose efficace: in questo modo è probabile che nessuno dei due sia in grado di funzionare.

Gli antidepressivi sono sono tutti associabili tra di loro. In particolare gli IMAO sono antidepressivi non associabili ad altri.

Un antidepressivi può influenzare il metabolismo di un altro: questo può significare che per esempio ne aumenta i livelli nel sangue, cosicché magari nell'associazione ciò che funziona realmente non è la combinazione tra due effetti antidepressivi, ma il fatto che è come aver aumentato la dose di uno, che è quello che realmente sta funzionando.

Due antidepressivi che abbiano uno stesso meccanismo d'azione hanno poco senso in associazione, poiché competono l'uno con l'altro, cosicché l'effetto finale è una % (in più o in meno) dell'effetto ottenibile con uno solo dei due, a seconda di chi “vince” la competizione nel legarsi ai recettori e chi è più potente nel produrre un effetto su di essi.

Da notare che le conoscenze certe su quali e come si debbano associare gli antidepressivi sono lacunose, e quindi molto è empirico.

Si sa, per fare un esempio, che chi ha provato il farmaco X senza successo, se passa al farmaco Y in una certa % invece ottiene un buon miglioramento. Questo però vale per il passaggio X-Y, e fino a prova contraria solo per quello (non in generale per tutte le molecole della stessa classe di X nel passaggio a tutte quelle simili a Y).

Il cambiamento quindi, se possibile, non va fatto con un un altro antidepressivo a caso, ma considerando prima i passaggi scientificamente più affidabili come risultato. Stesso dicasi per le associazioni.

Dagli studi disponibili sulla scelta della “seconda” o “terza” linea, si può dire in generale questo. Naturalmente sono tutti prodotti proponibili come “prima linea”.

a) Non aver risposto ad un SSRI non significa non rispondere ad un altro SSRI (risposta > 60%), forse con una minore probabilità nel passaggio alla paroxetina come secondo SSRI (20%).

b) I farmaci a doppia azione funzionano in diversi casi che non hanno risposto a uno o più farmaci di altro tipo e/o all'ect e a strategie di “potenziamento” (30-60%)

c) se non si sono usati i triciclici, essi rimangono una valida alternativa in seconda linea (45-50%; e reciprocamente il fatto di non aver risposto ai triciclici può motivare un tentativo con SSRI in seconda battuta, > 50%)

d) la mirtazapina è proponibile in chi ha fallito più antidepressivi, o come alternativa di seconda linea agli SSRI (35-50%)

e) il bupropione risolve diversi casi che non hanno risposto agli SSRI (30%)

f) è segnalata una strategia di potenziamento della duloxetina se da sola è inefficace, con la reboxetina (76%)

 

Depressione resistente

Si tratta di una categoria in cui la persona ha provato antidepressivi diversi, diciamo che sostanzialmente ha provato tutti quelli di efficacia maggiore e delle classi disponibili, senza beneficio. A questo punto, a parte associazioni, si possono scegliere varie soluzioni, che includono le cure non farmacologiche (per esempio la TEC, altrimenti detto shock elettrico, e ultimamente anche l'elettrostimolazione vagale con impianto chirurgico di stimolatore interno). Le opzioni farmacologiche per la depressione resistente impiegano anche prodotti non nati come antidepressivi, con un risultato che è complessivamente paradossale. La depressione resistente tende a rispondere poco, ma a tutto. Un miglioramento è quindi probabile, mentre una risposta totale non è la regola.

Una ulteriore strategia, che secondo logica dovrebbe invece essere la prima, è quella di verificare se per caso una non-risposta ad alcuni farmaci possa dipendere da un metabolismo rapido. Il metabolismo rapido è una condizione genetica o indotta che rende le normali dosi di medicinali insufficienti, poiché sono distrutte troppo rapidamente nel fegato: usando dosi normali quindi non si otterranno risposte, ma è possibile che la cosa cambi utilizzando dosi sopra il massimo indicato. Per capire se una persona metabolizza rapidamente si dovrebbe accertare il livello del farmaco tramite un esame del sangue, non sempre disponibile in laboratori vicini.

 

Sospensione e sindromi da sospensione

L'argomento della sospensione degli antidepressivi è molto discusso attualmente. Si è sempre saputo che la brusca sospensione di un farmaco che agisce su strutture molecolari “elastiche” è seguito da un periodo di riassestamento, e che quindi può seguire una sindrome da sospensione, destinata a esaurirsi da sola.

La sospensione degli antidepressivi si fa di solito gradualmente, a meno che non siano già presi a dosi basse. In particolare la sospensione graduale è indicata per quelli che escono rapidamente dal corpo (paroxetina, sertralina) rispetto ad altri che se ne vanno con gradualità già da soli.

Alcune persone riferiscono sindromi da sospensione molto sgradevoli, e tali da non riuscire a sospendere il farmaco, anche dovendone tenere magari piccole dosi. E' possibile però che queste sospensioni siano fatte prematuramente rispetto alla guarigione del disturbo, e che quindi siano insopportabili o vissute con allarme, a parità di sintomi, proprio perché peggiora lo stato ansioso.

La segnalazione di una sindrome da sospensione è segnalata più spesso con alcune molecole, senza che sia chiaro esattamente il motivo. Alcune persona avvertono lievi sintomi anche se saltano un giorno di terapia, o la ritardano di diverse ore.

 

Categorie particolari

Nella maggioranza dei casi, quando un antidepressivo è studiato, si scelgono soggetti con alcune caratteristiche di età e stato generale. Se un antidepressivo risulta efficace, in realtà non si sa con certezza se questo è efficace, e se è sicuro, in alcune categorie particolari (come anziani, bambini-adolescenti, persone con malattie di vario tipo) etc, perché appunto queste categorie erano state escluse in partenza. Quindi si tende poi a studiare nello specifico l'antidepressivo nell'anziano, nel giovane, nell'alcolista, nel malato cardiologico etc.

 

Gravidanza e allattamento

La maggior parte degli antidepressivi sono in corso di valutazione per i rischi legati allo sviluppo del feto. Il sito farmaciegravidanza.gov riporta, per principio attivo, ciò che risulta ad oggi. Esiste inoltre un numero verde 800883300 che può fornire le stesse informazioni, e la possibilità di capirne meglio il significato pratico.

La valutazione va fatta nei casi singoli, a seconda della molecola, del rischio di ricaduta e degli effetti collaterali eventualmente più pericolosi in gravidanza.

Va tenuto in generale presente che:

  • chi soffre di depressione è a rischio di ricaduta dopo il parto

  • la depressione durante la gravidanza o dopo il parto sono ritenute condizioni che pongono dei rischi per la gravidanza e la maternità

Per quanto riguarda i dosaggi, vale lo stesso ragionamento. Ridurre le dosi può minimizzare i rischi eventuali, ma nel terzo trimestre, causa una diluizione spontanea del sangue, la dose reale dei farmaci tende a ridursi ulteriormente.

 

Bibliografia essenziale

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  • http://www.sifweb.org/docs/sif_position_paper_antidepressivi_ott2013.pdf
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Data pubblicazione: 27 aprile 2017

Autore

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1999 presso Università di Pisa.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Pisa tesserino n° 4355.

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