In un posto bellissimo
Al cinema da sola per immergermi senza alcuna distrazione in una storia: è una piccola fonte di piacere che occasionalmente mi regalo. Dunque, quale migliore -e pressoché unica- opportunità, se non quella di vedere un film girato proprio nella mia piccola città?
“In un posto bellissimo” della regista Giorgia Cecere, intrepretato da Isabella Ragonese e Alessio Boni, nelle sale cinematografiche da pochi giorni, è uno di quei film che io giudico non adatto a chiunque, sui cui cartelloni andrebbero scritte delle avvertenze precauzionali per poterne fare buon uso. Bisogna essere preparati, si deve essere consapevoli di intraprendere un viaggio accanto (o ancor meglio dentro) alla protagonista Lucia, che non si potrà poi fingere di non aver compiuto.
Nella mia professione ne ho incontrate e ne incontro tante di donne come Lucia, giunte tra la terza e la quarta decade della loro esistenza, che avvertono l’urgente necessità di cambiare rotta. Fino a quel momento le loro vite si sono srotolate in modo apparentemente tranquillo, con ritmi regolari: fidanzamento, completamento del corso di studi, lavoro, convivenza o matrimonio, magari figli.
Poi un giorno, in seguito ad eventi che dall’esterno si definirebbero banali, trovano un trait d’union tra la loro realtà e i malesseri che da tempo le accompagnano inascoltati, come il giochino che facevano da bambine in cui si dovevano unire in sequenza i puntini per vedere quale disegno sarebbe apparso: i puntini c’erano già tutti fin da principio, ma era indispensabile il proprio apporto, la propria azione ed intenzione per poter far emergere il disegno.
E così capiscono che quel disagio, fino ad allora intrinsecamente amalgamato ai loro giorni, non è inevitabile, sebbene provenga dalle profondità del loro animo: c’è Laura che avverte il richiamo delle sirene di una tristezza via via più angosciosa che sta per scivolare nella depressione; c’è Antonella che non riesce quasi più ad uscire di casa e sta consumando il suo fisico perché teme che, se mangia, sicuramente vomiterà, suscitando il disgusto di chi la osserva e la giudica; c’è Lella, risucchiata da un perfezionismo esasperato, che la fa sprofondare e perdere in microscopici dettagli che la paralizzano e le impediscono di svolgere un lavoro di grande (troppa?) responsabilità; c’è Elena, ossessionata dalla possibilità di ingerire dei pezzi di vetro, che si barrica nella sua abitazione con il suo bambino per difendere entrambi da un mondo pericoloso e minaccioso; c’è Stefania che ha paura di se stessa, perché teme che un giorno potrà perdere il controllo di sé ed infilare un coltello nella pancia dei suoi famigliari, che ama e che la amano.
Queste donne, ferma restando l’unicità del loro essere e della loro storia di vita, quando arrivano da me, hanno in comune principalmente due cose: la sensazione di aver toccato il fondo e lo spaesamento di vivere un’esistenza che non riconoscono come loro.
Il grande ostacolo sta però nel fatto che il cambiamento fa loro paura: anche se ci stanno male, la situazione in cui vivono la conoscono e, proprio per questo, sanno come muovercisi dentro (ma a quale costo!), mentre una nuova strada dove mai le potrà condurre?
Forse un dolore noto sembra loro più sopportabile di un dolore potenziale di cui non conoscono l’entità.
Quando però avvertono che non hanno più le forze per portare questo peso, o magari che oramai hanno poco da perdere, cercano finalmente qualcuno di cui potersi fidare che le prenda per mano e le accompagni alla scoperta di un nuovo “poter essere”. Fino ad un certo punto hanno vissuto per compiacere gli altri, poi come l’Ignota del dramma “Come tu mi vuoi” di Pirandello, si assumono la responsabilità del cambiamento ed iniziano, timidamente, ad ascoltare se stesse e le loro emozioni. Ad un tratto del percorso svolto insieme, riferiscono di frequente la sensazione di aver vissuto in ibernazione fino a quel momento e, in un certo senso, è davvero così: un congelamento emotivo che le potesse rendere “adeguate” (…Laura direbbe “dritte”…) e, dunque, degne d’amore. Si accorgono perciò di quanti vincoli esse stesse avevano posto alle loro vite, di quante gabbie mentali sempre più ristrette si erano costruite con le proprie mani.
Comincia pian piano a guadagnare uno spazio possibile nei loro pensieri una rivoluzione/evoluzione quando, tentennando, cercano di rispondere alla mia domanda: “Cosa farebbe se non avesse paura?”. Fino a giungere ad un inevitabile cambiamento per frattura, conseguente alla nuova consapevolezza nata dentro di loro, che non possono più ignorare (…“Una volta che hai imparato a leggere non riesci più a non leggere!” direbbe Lella…).
E seduta dopo seduta conquistano un entusiastico senso di leggerezza e sperimentano uno stupore da fanciullino di pascoliana memoria davanti al panorama di una nuova espugnata libertà.
Anche se con fatica, impegno e sofferenze, Laura si è separata dal marito ed ha un nuovo amore; Antonella ha “ristrutturato” il legame con il suo uomo e con la suocera ed ha avuto un secondo figlio; Lella si è trasferita con la famiglia in un’altra regione ed ha ridotto il carico di lavoro; Elena ha ripreso ad uscire e riesce a godersi una doppia porzione di gelato, anche se servito in una coppa di vetro sbeccata; Stefania è andata a convivere con il suo compagno ed ha cambiato lavoro.
Ciascuna di loro ha, insomma, trovato il suo “posto bellissimo” dove essere se stessa con maggior autenticità e gioia.
Quando sei nato tutti sorridevano, solo tu piangevi.
Vivi in maniera che, quando morrai, tutti piangano e tu solo sorrida.
(Proverbio arabo)