Quali benefici nel rivivere eventi spiacevoli/traumatici?

Gentili dottori,
Mi rivolgo ancora una volta a voi. Ho interrotto circa 2 mesi fa il mio percorso di terapia, perché diciamo che il mio terapeuta ha un po' "forzato la mano" affinché io affrontassi la percezione del mio aspetto fisico, in particolare della mia altezza. Mi sono arrabbiata e abbiamo interrotto le sedute.
La patologia genetica da cui sono affetta mi ha provocato tra le altre cose un deficit di ormone della crescita, ormone che durante l'infanzia e l'adolescenza ho dovuto assumere con iniezioni quotidiane.
Contestualmente venivo sottoposta a dettagliatissime misurazioni antropometriche che hanno contribuito decisamente al fatto che oggi ho un pessimo rapporto con il mio corpo, me ne vergogno, mi vedo deforme e inadeguata.

Il terapeuta avrebbe voluto che parlassi di tutto ciò ma io mi sono sempre rifiutata. Mi chiedo, e chiedo a voi, in quale modo raccontare e rivivere quelle situazioni possa aiutarmi a superarle. Lui mi ha chiarito che servirebbe ad avere una specie di "testimone" e a dare un senso a quello che successe, dato che secondo lui all'epoca ero troppo piccola per poterlo fare.
Ma io non ne sono per niente convinta. Credo che servirebbe unicamente a riacutizzare una sofferenza che oggi voglio solo dimenticare.

Non sono paure irrazionali le mie, ma ragionamenti precisi. Mi spiego: all'inizio di tutto avevo 7 anni e le misurazioni antropometriche si protrassero per 10 anni ogni 4 mesi . Da subito le ho vissute molto male. Però a 7 anni ero anche già abbastanza grande da capire che erano necessarie a verificare quanto crescessi e che la crescita fosse armonica.
Insomma sono stata direi da subito consapevole che non erano cattiverie che mi venivano fatte, ma prassi mediche che tutt'ora si applicano a qualsiasi bambino abbia problemi di crescita. Man mano che crescevo, aumentava anche la consapevolezza dello scopo di queste misurazioni. Però le vivevo comunque sempre malissimo, anzi pure peggio nell'adolescenza.
La mia domanda è: Se già a 7 anni bene o male capivo lo scopo clinico di queste misurazioni, quale nuovo senso vuole mai darci il mio terapeuta?
Anche se io le ho vissute come un trauma, comunque l'unico senso che possono avere è quello medico. Non c'è un'altra verità.

Se non mi convinco che una cosa potrebbe essere davvero utile, io non la faccio. Dall'altra parte però, il terapeuta dopo l'ultimo episodio in cui mi ha domandato insistentemente quanto fossi alta, e io sono andata fuori di testa, ha deciso che fosse meglio interrompere le sedute fino a che non me la sentirò di affrontare questi argomenti. Sono stata d'accordo, se non lo avesse fatto lui, lo avrei proposto io di interrompere. Però questo aut-aut l'ho trovato oltremodo irrispettoso nei miei confronti. Alla fine ho tutto il diritto di non voler parlare mai e poi mai di queste cose, soprattutto della mia altezza. Perché deve essere una "conditio sine qua non" per continuare il percorso?
Vi ringrazio come sempre per la pazienza.
[#1]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67

Gentile utente,

bentornata.

Ritengo un buon risultato il fatto che, a fronte dell'interruzione, Lei ancora si stia interrogando.

Ed è giunta al nocciolo della questione, che riformulo così:
"come funziona la psicoterapia?"
Perchè solo rispondendo a questa domanda si riesce a capire (un po') la fermezza del suo (coraggioso) Psicoterapeuta nell'affrontare l'unico divieto che Lei pone: "Parlare dell'altezza";
oppure interrompere.

Come funzioni la psicoterapia e in quale modo
è tematica molto vasta e complessa.
Al momento Le suggerisco una lettura ad hoc,
in particolare il capitoletto intitolato:
"Cenni sul funzionameto della psicoterapia"
in
https://www.medicitalia.it/minforma/psicologia/233-la-psicoterapia-che-cos-e-e-come-funziona.html

Ci risentiamo.

Saluti cordiali.
Carlamaria Brunialti

Dr. Carla Maria BRUNIALTI
Psicoterapeuta, Sessuologa clinica, Psicologa europea.
https://www.centrobrunialtipsy.it/

[#2]
dopo
Utente
Utente
Gentile dott.ssa,
l'articolo che porta alla mia attenzione è sicuramente complesso e mentirei se dicessi di averne compreso appieno tutti i contenuti.
Mi limito a riportare un passaggio che mi ha colpito tra tutti: "Non è necessario parlare del proprio passato[...] Il problema può anche essere sorto nel passato ma i suoi effetti si manifestano nel presente, quindi è nel presente che bisogna indagare per conoscere come esso funziona per poterlo risolvere. In ogni caso sul passato non sarebbe più possibile far niente, perché è già passato."
Ecco, appunto. Diciamo che forse (molto forse) parlare di queste cose avrebbe avuto senso quando accadevano, se all'epoca avessi avuto la fortuna di poter usufruire di un sostegno psicologico valido. Ma dopo oltre 20 anni, che senso ha?
[#3]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67

Gentile utente,

per noi psicoterapeuti il nucleo centrale del discorso può essere questo:

"Ciò che più di ogni altra cosa deve interessarvi ottenere da una terapia è la cosiddetta esperienza emozionale correttiva. Questa definizione indica qualunque esperienza voi facciate attraverso le interpretazioni, le indicazioni e le prescrizioni che il vostro terapeuta vi darà, e che segnerà lo sblocco, il momento di rottura fra il vecchio modo di percepire il vostro problema e un modo del tutto nuovo. Questa esperienza non ha niente a che vedere con la razionalità e non si tratta di apprendimento. All'improvviso, senza sapere perché vi sentite meglio, più sani, più speranzosi, più decisi, più energici, tutto sembra essere più chiaro e i sintomi sono scomparsi. Questa è la magia che una buona psicoterapia ha da offrire. Naturalmente la terapia non terminerà subito dopo: è necessaria una successiva fase di consolidamento, ecc. segue quanto da Lei citato." (da: Santonocito, v. link)

Se il terapeuta si rende conto che nella co-costruzione di tale "esperienza emozionale correttiva" qualcosa di decisivo e insormontabile si frappone,
è etico segnalarlo al pz,
negoziare con lui/lei,
o al limite interrompere.
Credo sia quanto è accaduto di fronte al Suo divieto "altezza".

E' come se trovassimo un macigno sulla strada stretta.
O lo si affronta assieme, in "alleanza terapeutica",
sapendo che sarà faticoso
ma credendo al curante che ci dice essere necessario,
o ci si ferma davanti al masso: non è possibile progredire oltre.

Solo un terapeuta etico fa questa coraggiosa scelta professionale, peraltro prevista dal nostro codice deontologico:
"Articolo 27.
Lo psicologo valuta ed eventualmente propone l’interruzione del rapporto terapeutico quando constata che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne trarrà dal proseguimento della cura stessa. Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare altri e più adatti interventi."

Buona notte, cordialmente.
Carlamaria Brunialti
[#4]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67


Rispondo al contenuto della valutazione (grazie dell'apprezzamento).

La situazione rimarrà così fin quando (non) si deciderà di mettere mano al macigno.
Ciò potrebbe rimettere in un movimento evolutivo la situazione personale e la terapia.
Ciò può abbisognare di tempo.

_ _ _ _

Frequentemente le proibizioni e i divieti assoluti per un certo argomento in terapia
sono segnali importanti di grande paura o di grande dolore.
E' comprensibile dunque non voler ri-aprire questa pagina, perchè si immagina che provocherà gli stessi intensi sentimenti di allora.
Ma da adulti, in alleanza con proprio terapeuta, è possibile ri-leggere quelle parole ed accorgersi che .. gli occhi che leggono sono cambiati, stanno cambiando.
E dunque cambia l'effetto globale.

E' per questo motivo che in qualità di psicoterapeuti si incoraggia il pz. a superare - o almeno guardare in faccia - i divieti posti.

Auspico che quanto qui scritto sia di utilità per chi
- oltre a Lei -
ci legge;
per far comprendere il senso e il significato di alcune prese di posizione del terapeuta
che altrimenti risultano incomprensibili, quando non ... dittatoriali.
Solo uno Psicoterapeuta che si prende veramente a cuore le sorti del pz. può accettare di risultare financo antipatico,
pur di provare a smuovere quel macigno,
chiedendo aiuto e collaborazione al proprio pz.
Che non sempre al momento è pronto.
Ma forse più avanti .. sì.

Saluti cordiali.
Carlamaria Brunialti
[#5]
dopo
Utente
Utente
Sì dott.ssa, capisco che lei voglia farmi capire le ragioni del comportamento del mio terapeuta.
Certo, un aut-aut di questo tipo può essere anche un modo per spronare il paziente ad affrontare ciò che lo spaventa. Però è anche vero che tanti (me compresa) questo coraggio non ce lo avranno mai, e non si faranno più vedere.
[#6]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67

"MAI" in psicologia non esiste.

Esiste un percorso (esistenziale) che va avanti, nonostante tunnel, gallerie, macigni, tortuose stradicciole oscure.

Ognuno di noi umani ha il proprio tempo per chiedere e ricevere aiuto. Non si sa quale sia.
Ma si può essere pronti ad accoglierlo, al di là dell'orgoglio.

Una buona notte.

Saluti cordiali.
Carlamaria Brunialti
[#7]
dopo
Utente
Utente
Gentili dottori,
purtroppo mi sto ancora facendo moltissime domande su quanto è accaduto. Continuo a rivedere quei momenti come se fosse una specie di film di cui ormai sono arcistufa ma che non riesco a mettere in pausa. Ammettendo che il mio terapeuta abbia voluto affrontare in modo così "brutale" la questione dell'altezza per il buon progredire della terapia, ci sono comunque due cose che proprio non riesco a spiegarmi.
1- il fatto che a un certo punto della seduta abbia deciso di controllare su internet l'altezza media delle donne italiane. Che senso ha spostare la questione solamente sui cm? è chiaro che confrontando la mia altezza con quella delle donne normali io ne sarei uscita sconfitta, come poteva essere altrimenti?
2- Oltre tutto, quando gli ho risposto che quale fosse
la mia altezza non glie lo avrei mai detto, ma che comunque era di molto inferiore a quella media che lui mi aveva comunicato, mi ha risposto : "Io invece rientro perfettamente nell'altezza media degli uomini italiani".
Ma che risposta è questa? Se era una gara, evidentemente al mio terapeuta piace vincere facile. O forse voleva umiliarmi ulteriormente, altrimenti non mi spiego questo atteggiamento.
Prima dell'ultima seduta, pur avendo questo complesso dell'altezza, non ero mai arrivata al punto di controllare quale fosse di preciso l'altezza media delle donne italiane per fare il confronto. Adesso che il mio terapeuta ha avuto l'iniziativa di andare a cercare questo dato, so che i cm che mi mancano per poter essere considerata normale sono quasi 15. E non credo proprio che tutto ciò faccia bene alla mia già bassissima autostima.
Spero vogliate ancora una volta aiutarmi, e vi ringrazio della pazienza, anche perché più ci penso e più cresce la mia rabbia.
[#8]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67
Gentile utente,

non immagina quanto vorremmo "ancora una volta aiutarLa".

Tre riflessioni:

- Le domande che fa a noi dovrebbe farle a lui.
- Potrebbe considerare l'alleanza terapeutica NON una sfida MA un'alleanza.
- E' possibile affrontare il problema dell'altezza quale gradino di crescita, anzichè considerarla un'offesa.

Saluti cari!
Carlamaria Brunialti
[#9]
dopo
Utente
Utente
Buonasera,
scusate l'ora tarda e scusate se apro di nuovo il consulto. Mi sono decisa a riprendere il percorso di terapia. Oggi prima seduta dopo una pausa di 2 mesi e mezzo. Non so perché ma in tutto questo tempo io non ho mai ricevuto dal mio terapeuta una diagnosi di un qualche disturbo di personalità. Ho capito che non riteneva indispensabile "etichettarmi" dal punto di vista clinico, anzi credo lo ritenesse addirittura controproducente. Ma poco importa perché oggi ho insistito molto su questo punto e dopo molte reticenze da parre sua, una diagnosi c'è stata. Preferisco non comunicarla qui, ma per quante ipotesi io avessi fatto in merito, non mi aspettavo una "mazzata" del genere.
Da quel poco che ne so e che ho letto è un disturbo psichiatrico grave e credo incurabile. Una vera e propria malattia mentale.
La cosa che mi lascia perplessa è che, per quanto ne so io, le persone con quel disturbo lì sono proprio matte nel cervello, spesso si fanno del male fisicamente, hanno disturbi alimentari, bevono o si drogano, e tentano il suicidio un giorno sì e l'altro pure.
Io non mi sono mai fatta del male fisicamente, mai ubriacata, non bevo alcolici se non in rare occasioni di festa, nemmeno il classico mezzo bicchiere durante i pasti. Quanto alle droghe non ho fumato mai nemmeno una canna, non fumo nemmeno tabacco e non ho mai avuto problemi di peso. Quindi come è possibile che io sia matta come dice il mio terapeuta?
Poi certo, mi è capitato di voler morire nei momenti più difficili. Ma chi non lo ha mai pensato almeno una volta?
Però pochissime volte ho immaginato un modo concreto di farlo, e non sono arrivata mai nemmeno vicina a metterlo in pratica. E allora come si spiega questa diagnosi?
Non posso avere quella malattia mentale lì, altrimenti avrei avuto delle crisi, mi avrebbero ricoverato in psichiatria ecc.. Non ci voglio credere. Già ho i miei problemi fisici, perché anche questo? Non ho fatto male a nessuno perché la vita ce l'ha tanto con me? Non me lo merito.
Al momento mi sento come se mi fosse passato sopra uno schiacciasassi. E la cosa peggiore è che l'ho messo in moto io.
[#10]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67

Gentile utente,

buongiorno!

Leggendo le prime righe ero contenta della ripresa della terapia.
Ma man mano che la lettura proseguiva...

1. "..E la cosa peggiore è che l'ho messo in moto io..."
Un certo "impuntarsi" caratteristico di qualche Suo comportamento si era evidenziato già (v. lo scorso consulto),
ma quanto accaduto questa volta potrebbe raggiungere l'effetto (positivo) di segnalarglielo come veramente disfunzionale:
si fa del male da sola.

2. La diagnosi.
Talvolta il terapeuta cerca di evitare la "medicalizzazione", cioè di etichettare come malattie anche condizioni che fanno parte delle normali esperienze psichiche di ognuno di noi, oppure che sono lì al limite;
altre volte attende il tempo "giusto" per il pz perchè possa capire o accettare. Ma il paziente chiede la "parola", la diagnosi.

A cosa serve la diagnosi? La diagnosi non rappresenta la pena di morte,
ma una parola "convenzionale" ad uso degli specialisti.
I disturbi si collocano lungo un continuum, da lieve a grave.
Su ciò occorre interpellare il Suo psicoterapeuta, che La conosce.

________________

Però, riflettiamoci bene: può una "parola" scardinare la Sua vita?
Lei è sempre quella di prima.
Dipende dal potere che Lei stessa dà a quell'unica parola.


Saluti cari.
Carlamaria Brunialti
[#11]
dopo
Utente
Utente
Gentile dott.ssa, non è che volessi farmi del male apposta.
È solo che, per come sono fatta io (e lo so, sono fatta male), se un medico mi dice da subito chiaro e tondo quale sia la mia malattia, non nascondendo che magari in futuro potrebbe peggiorare e condizionare ancora di più la qualità della mia vita, rimango inizialmente sconfortata e spaventata ma poi di quel medico di solito mi fido. Non mi dà fiducia invece chi minimizza o vuole "indorare la pillola". Avevo bisogno di una diagnosi per tranquillizzarmi, essere sicura che il terapeuta avesse inquadrato bene i miei problemi e stesse agendo di conseguenza. Altrimenti non mi fido. Comunque che cosa vuole dire che i disturbi si collocano lungo un continuum? O un disturbo è grave o non lo è. Una persona o è matta o non lo è. È come per le malattie: il cancro è una malattia grave anche in stadio iniziale. Un raffreddore, per quanto possa essere complicato, grave non lo sarà mai. Comunque, mi dicono che tendo sempre a vedere il mondo o bianco o nero, mai una via di mezzo. E adesso pare pure che questo sia uno dei sintomi principali che indicherebbero che sono come quei "matti" che hanno quel disturbo lì. Non so se a torto o a ragione, io l'ho sempre annoverato tra le malattie mentali.
[#12]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 67

"..i disturbi si collocano lungo un continuum? O un disturbo è grave o non lo è. Una persona o è matta o non lo è. È come per le malattie: il cancro è una malattia grave anche in stadio iniziale..."

Talvolta è la "parola" ad essere "grave",
ad incutere spavento.
Che poi le guarigioni (parlo di certi tipi di cancro)
siano superiori all'80% Le pare che non importi nulla?
Possibile che la "parola" abbia più forza dei fatti?

Certamente i fatti, le patologie si collocano lungo un continuum,
non bianco o nero.

"..Avevo bisogno di una diagnosi per tranquillizzarmi, essere sicura che il terapeuta avesse inquadrato bene i miei problemi e stesse agendo di conseguenza. ..",
ma talvolta occorre delegare al "tecnico" la scelta di alcune metodologie.
Però comprendo che questa sia una delle Sua difficoltà.

[#13]
dopo
Utente
Utente
"Possibile che la "parola" abbia più forza dei fatti?"
Sì è possibile. Anzi, è proprio ciò che accade. Se veniamo visti, etichettati in qualche modo (bassi, grassi, brutti, diversi, matti, strani, malati...) allora noi siamo effettivamente così. Perché al giorno d'oggi non importa cosa noi pensiamo di noi stessi, importa la nostra immagine. Importa quello che pensano gli altri di noi.
O meglio: è la visione che gli altri hanno di noi che ci rende ciò che noi siamo.
Potrà anche essere ingiusto, ma questa è la realtà
Comunque lei dice che le percentuali di guarigione da certi tipi di cancro sono dell'80%.
Benissimo, ma qui si parla di altro. E lei sa che non è possibile in alcun modo guarire da un disturbo mentale, qualunque esso sia. Mi corregga se sbaglio.
Oltre alla diagnosi che sì, fa molta paura, devo ammettere che da ieri è cambiato soprattutto il fatto che io prima speravo che avrei potuto risolvere prima o poi i miei problemi, se non fisici, almeno quelli psicologici.
Invece adesso praticamente risulta che ho un disagio mentale con cui dovrò per sempre fare i conti, e che davvero non avrò mai una vita normale.
[#14]
dopo
Utente
Utente
Buona sera, scrivo ancora una volta perché ho ancora tanti dubbi sulla diagnosi. Non riesco per niente a vedermi assimilata a chi si fa così del male da abusare di droghe o alcool o tentare il suicidio e tutto il resto. Se fossi una di loro avrei fatto quelle brutte cose a anche io, no? Almeno
credo o sbaglio? In questi giorni non faccio altro che leggere articoli su quel disturbo. Ma più leggo e meno capisco. C'è chi dice che si può guarire del tutto, anche se ci vuole tempo e fatica, e chi li considera casi inevitabilmente avviati alla psicosi. C'è chi addirittura sostiene che questo disturbo non esista. Che sia una specie di bidone della raccolta indifferenziata dove buttare tutti i casi clinici che non si riescono bene a inquadrare in patologie ben definite. Come è possibile tanta confusione? La verità può essere solo una. Ma quale? Per me che ho bisogno che le cose siano assolute e certe, questo fatto è inaccettabile. Mi manda quasi più in crisi della diagnosi stessa.