La calcolosi renale e il dilemma dell’acqua. Quanta, quando e quale bisogna bere?

La più comune prescrizione che l'urologo fa al portatore di calcoli renali è quella di bere più acqua. Ma spesso lo stesso medico non è in grado di dettagliare ulteriormente il suo consiglio.
Introduzione
Che l’acqua da bere sia in qualche modo legata alla formazione, al passaggio e alla prevenzione dei calcoli delle vie urinarie è una nozione universalmente diffusa, tanto a livello sanitario, quanto nella cultura popolare.
Ma se dal buon senso comune di più non si può certo pretendere, stupisce quanto la comunità medica oggi non sia ancora in grado di formulare delle risposte chiare e condivise alle domande poste nel titolo di questo articolo. In particolare, al di là del generico “beneficio” portato dall’aumentare la quantità dei liquidi introdotti, buona parte non solo dei medici, ma anche degli specialisti urologi e nefrologi raramente ha le idee sufficientemente chiare su cosa si debba veramente consigliare ai pazienti.
La letteratura scientifica a riguardo non è vastissima, ma qualche elemento di una certa affidabilità si sta progressivamente delineando, talora con risultati tali da minare molte consuetudini e convinzioni.
Curiosamente, anche per quanto riguarda gli alimenti da sconsigliare ai produttori di calcoli, nel tempo si sono andate (peraltro con molta fatica) smantellando le più proverbiali certezze. Ma di questo si parlerà eventualmente altrove.
Quanta acqua bere?
Questa è la domanda cui è relativamente più facile rispondere. E’ infatti intuitivo che la semplice diluizione delle urine, se purtroppo non può sciogliere i calcoli già formati, certamente può invece influire beneficamente almeno a tre livelli:
1) Riducendo la precipitazione in cristalli dei sali che costituiscono i calcoli;
2) Rendendo più difficile l’aggregazione dei cristalli stessi;
3) Tramite l’aumento del flusso dell’urina, facendo sì che eventuali piccoli aggregati vengano espulsi quando sono ancora di dimensioni tali da non dare disturbi al loro passaggio.
Si stima che una produzione di urina pari a un millilitro l’ora per kilogrammo di peso corporeo (quindi circa 1,7 litri per un soggetto di 70 Kg) sia in grado di impedire efficacemente la precipitazione dei sali nella gran parte dei soggetti. E’ ovvio che per produrre una simile quantità di urine, si dovrà introdurre un volume di liquidi significativamente maggiore e variabile in base alle perdite che avvengono nell’organismo per varie ragioni. La più comune di queste ultime è la sudorazione, che impone un aumento del’introduzione di liquidi in ambienti caldi, ma anche nei soggetti che sudano molto nell’esplicare un’attività fisica, lavorativa o sportiva.
In particolare, gli sportivi spesso tendono a sottovalutare la necessità di reintegrare velocemente i liquidi, andando incontro a periodi di relativa disidratazione anche piuttosto lunghi. Praticamente, si deve ricordare a questi soggetti che, alla fine dell’attività, dovranno bere in modo da andare ad urinare dopo non oltre un’ora.
A parte questi casi particolari, il consiglio empirico da dare a tutti i produttori di calcoli sarà quello di bere in modo da eliminare urine incolori o tenuemente paglierine, con l’unica parziale scusante per le prime del mattino. Questo si concretizza nell’assumere mediamente in una quantità di liquidi tra 1,5 e 2,5 litri al giorno. E’ stato dimostrato che l’effetto è più favorevole quando almeno la metà di questi liquidi è costituita da acqua pura. Quantità ancora maggiori sono consigliate solo in casi molto particolari (es. calcoli di cistina), ma in tutte le altre situazioni non hanno alcuna reale giustificazione, anzi possono essere talora potenzialmente rischiose per l’equilibrio globale dei sali nell’organismo.
A margine di queste considerazioni, pare opportuno rimarcare che, se bere molta acqua è auspicabile e necessario nelle persone che formano calcoli od hanno altri problemi alle vie urinarie, non è invece affatto dimostrato che assumere elevate quantità di liquidi sia così universalmente utile per tutti. Questo mette in dubbio la reale efficacia di un modello di comportamento oggi abbastanza diffuso in alcuni ambienti e fasce d’età, stimolato più da condizionamenti pubblicitari che da reali necessità fisiologiche.
Quando bere acqua?
L’assunzione dei liquidi deve essere costante durante tutta la giornata. Ovviamente l’acqua a digiuno è destinata a “passare” più velocemente, ma se si ha la costanza di bere uno - due bicchieri all’ora, la quantità totale, sommata ai liquidi assunti con i cibi, raggiunge facilmente il risultato consigliabile.
Vi sono invece situazioni particolari in cui bere e assumere liquidi è di fatto controproducente. E’ oggi accertato che il dolore renale acuto, la cosiddetta “colica”, sia causato dalla brusca interruzione del flusso dell’urina dal rene alla vescica lungo l’uretere, il più delle volte a causa dell’impegno e passaggio di calcoli. L’ostruzione causa un brusco aumento della pressione all’interno del rene, che viene percepito come molto doloroso: in questi momenti, la cosa più opportuna è cercare di ridurre la pressione all’interno del rene. Questo risultato può essere ottenuto somministrando farmaci specifici con azione antidolorifica, in particolare gli anti-infiammatori non-steroidei (F.A.N.S.), ma ovviamente anche riducendo il carico di filtrazione del rene, diminuendo e addirittura sospendendo l’assunzione di liquidi.
Questo contrasta evidentemente con l’abitudine terapeutica tanto profondamente radicata quanto ingiustificata di affrontare il dolore da colica renale somministrando sì degli antidolorifici, ma quasi sempre accompagnati da abbondanti liquidi per via endovenosa, quindi destinati ad arrivare quasi istantaneamente al rene. La pressa di coscienza di un concetto “idraulico” tanto banale si dimostra invece essere estremamente lenta dalla comunità medica: c’è da augurarsi che questo avvenga almeno con il subentrare delle nuove generazioni di sanitari.
Ma, anche al di fuori dell’episodio acuto, un elevato apporto di liquido è francamente sconsigliabile finché non sia stata chiaramente diagnosticata la causa dell’ostruzione, ad esempio la posizione e le dimensioni del calcolo, oltre alla eventuale presenza di dilatazione renale a monte. Ed ancora, è ormai dimostrato quanto nella progressione verso la vescica dei piccoli calcoli, non sia tanto la spinta posteriore dovuta al flusso di urina, quanto piuttosto la compiacenza stessa delle pareti dell’uretere. Su quest’ultima si agisce somministrando cortisonici e rilassanti specifici delle fibre muscolari, associazione nota come “terapia espulsiva”.
In pratica, se bere molta acqua è da considerarsi una eccellente misura preventiva, in presenza di calcolosi sintomatica, le indicazioni devono essere valutate con molta attenzione, caso per caso, evidentemente da uno specialista con competenza specifica nel trattamento della calcolosi urinaria.
Quale acqua bere?
La terza delle tre domande è certamente la più difficile, poiché su quale tipo di acqua sia meglio bere non vi sono di fatto ancora evidenze scientifiche in grado di guidare con certezza assoluta le indicazioni dei sanitari. Inoltre, tali e tanti sono in questo campo i condizionamenti culturali e pubblicitari, che nel tempo si sono costituite delle convinzioni apparentemente tanto inossidabili da essere generalmente condivise in modo acritico anche dalla classe medica.
E’ indispensabile premettere che condurre degli esaurienti studi scientifici su questo argomento è veramente molto difficile. In particolare, non potrà mai essere affermato con certezza che un tipo di acqua piuttosto che un altro possa efficacemente “prevenire” la ripetizione della formazione di calcoli in chi ne è già stato affetto. Infatti, in un simile tipo di studio le variabili in gioco sono praticamente infinite, se si considera di valutare gli effetti su degli uomini liberi, al di fuori da episodi acuti di malattia, con alimentazione e stili di vita perlopiù assai diversi fra loro, compresa la possibilità di mentire sulla reale introduzione di liquidi! Pertanto, più che sul numero di “nuovi calcoli” formati, molti studi si basano sulle variazioni indotte sulla composizione in sali delle urine. Questo costituisce un indice indiretto del rischio di formazione di calcoli ed è a sua volta condizionato da altre variabili, come le tecniche di laboratorio adottate o le modalità di raccolta dei campioni di urine. Per inciso, gli stessi problemi metodologici si incontrano comunque ogni volta che si voglia valutare l’efficacia di qualsiasi sostanza che si presume possa avere un’azione di inibizione sulla formazione dei calcoli.
Pertanto, gli studi maggiormente affidabili sono al momento quelli epidemiologici, eseguiti su campioni molto numerosi, dove si va a correlare il numero di casi di calcolosi con il tipo di acqua potabile disponibile nella zona di residenza, confrontando poi zone con acque di caratteristiche diverse. Alcuni studi del genere sono stati compiuti a partire dagli anni ’50 dello scorso secolo. In un primo tempo pareva confermarsi l’ipotesi del tutto intuitiva che la calcolosi fosse più frequente dove si beve acqua “dura”, ad elevato residuo fisso, ovvero ricca in sali di calcio e magnesio. Ma in studi successivi queste conclusioni erano destinate a non essere confermate, anzi ad essere affermato quasi l’esatto opposto.
Uno studio statunitense effettuato nel 1982 su più di 2000 pazienti con calcoli concluse che non vi era alcuna correlazione fra il tipo di acqua consumato e l’incidenza di calcolosi. Allo stesso risultato sono giunti anche altri studi simili, mentre altri hanno di fatto addirittura ipotizzato un’azione protettiva dell’acqua “dura”, che con il suo contenuto in calcio tende a legare il “pericoloso” ossalato di origine alimentare all’interno dell’intestino, impedendone l’assorbimento e la successiva filtrazione da parte dei reni.
Il più recente studio eseguito in Iran e pubblicato nel 2011, anche questo su migliaia di pazienti affetti da calcolosi provenienti da zone diverse, ha evidenziato un possibile modesto effetto protettivo esercitato dal contenuto in magnesio dell’acqua potabile. In particolare, quello che parrebbe relativamente più importante sarebbe il rapporto esistente tra il contenuto in magnesio e quello complessivo di calcio e bicarbonati.
E’ comunque da notare che, anche in questo caso, queste conclusioni non possono essere direttamente estese al rischio di recidiva di calcoli in chi ne sia già stato affetto, poiché si tratta di gruppi di pazienti con caratteristiche del tutto diverse. In pratica, i più recenti risultati degli studi scientifici parrebbero negare la reale utilità di consumare acque a residuo fisso particolarmente basso, fattore su cui invece la pubblicità ha quotidianamente buon gioco nel consolidare una convinzione che invece perde progressivamente di attualità e fondamento.
Per quanto riguarda il contenuto di sodio, è invece opportuno che questo sia comunque basso. C’è da dire che acque ad elevato contenuto sodico risultano naturalmente salate e già di per loro assai poco gradevoli per essere assunte in grande quantità.
Conclusioni
In base a quanto sinteticamente riferito, pare evidente che oggi non vi siano elementi sufficienti per considerare con certezza alcune acque sedicenti “oligominerali” in commercio, piuttosto che altre, come protettive nei confronti della calcolosi renale. Pertanto, salvo rarissime eccezioni, tutte le acque di cui si almeno si conosca la composizione sono idonee ad essere assunte nelle quantità prescritte per la prevenzione delle recidive.
A questo punto, solo la gradevolezza al palato e la digeribilità (oltre al prezzo!) possono costituire un elemento discriminante e di scelta. In effetti, l’introduzione di elevate quantità (2 litri e più al giorno)rende piuttosto vano l’andare troppo per il sottile sulla composizione chimica. Non vi è inoltre ragione per negare un’acqua lievemente frizzante, se ritenuta più piacevole.
In quest’ottica, anche l’acqua del rubinetto di casa può essere certamente presa in considerazione. L’acqua di molti acquedotti contiene quantità di sali non così dissimili da quelle imbottigliate, quindi solo la sua gradevolezza ed eventuali sospetti di contaminazione batterica o presenza di elementi tossici possono influire sulla scelta. La campagna di opinione contraria allo smodato uso di acque imbottigliate, soprattutto in Italia, non fa che ulteriormente sostenere il valore di questa posizione.
Desiderando chiudere con una nota di colore, ricordiamo che anche il ruolo dell’assunzione di alcoolici nella calcolosi urinaria non è oggi altrettanto chiaro, come quello dell’acqua. Alcuni studi evidenzierebbero addirittura una certa protezione esercitata dall’assunzione di modiche quantità di birra e vino, ma si tratta di conclusioni ancora piuttosto controverse. Auspichiamo che presto anche questo possa essere chiarito definitivamente e che quindi i pazienti affetti da calcoli che non disdegnano un bicchiere di buon vino possano continuare a gustarlo senza eccessivi patemi d’animo!