Cinema e Psichiatria: Tossicodipendenza - Martin il "vampiro" malato
Martin/Wampyr, un film di G.A. Romero, per intenderci quello della trilogia dei morti viventi, del 1978. Un tema apparente, il vampirismo, con una trattazione decisamente nuova. C'è un giovane, con un passato misterioso e antico, mostrato per flashback in bianco e nero, in cui è inseguito da una folla nella notte per aver compiuto un atto vampiresco. Ai giorni nostri comunque vediamo un adolescente come altri, introverso e solo, accolto da un cugino che vorrebbe fargli da istitutore, ma soprattutto farsi carico di una presunta "mostruosità" che alberga in lui, cioè il suo essere vampiro. Vampiro particolare, poiché anziché mordere e succhiare il sangue delle vittime, le narcotizza, mancandogli il "gusto" di aggredirle e di tramortirle, ma avendo invece impellente bisogno del sangue. Niente canini, deve ferire la vittima addormentata e berlo, non senza difficoltà, e spargendone ben di più di un vampiro classico.
Lui si giustifica dicendo che è una specie di malattia, da cui non può sfuggire. Il cugino tenta di esorcizzarlo, ma alla fine la morte di una donna con cui aveva una relazione sembra inchiodarlo. In verità, lei si è suicidata, lui in questo caso non c'entra niente.
Anche per il richiamo diretto agli strumenti medici (la siringa con il narcotico) l'associazione con la tossicodipendenza non è difficile. Brillante è la caratterizzazione del vampiro come chi "suo malgrado" è costretto a far danno agli altri, al punto che la parte più sgradevole, cioè l'aggressione, finché possibile è organizzata in maniera indolore per le vittime. Il tossicomane insomma non ha come scopo il danno, ma la consumazione della sua "droga", che cerca come fosse una linfa vitale di cui rifornirsi. Il problema non sta nella sopravvivenza quanto in una specie di istinto a nutrirsi di un "nettare" che accenda la vita, o non la lasci spengere, il che è esattamente il tipo di rapporto che lega un tossicomane con la sua sostanza. L'altro aspetto del rapporto è il desiderio che si interrompa, ben rappresentato nella tragicità del protagonista, che darebbe tutto pur di esser liberato da questa maledizione, ma non può negare di esserne assorbito e posseduto quando compie i suoi delitti. Metaforicamente, le vittime possono essere viste come il vampiro/tossicomane stesso, che si sacrifica ogni volta, si spenge e si succhia sangue per poterne trarre una soddisfazione sempre più evanescente, e sempre più costosa. Così il vampiro dissangua se stesso, senza che nessuno possa comprendere il suo dramma e che nessuno gli offra una soluzione. Morirà vittima del pregiudizio.
I flashback in bianco e nero, ambientati in un passato remoto di altri secoli, riproducono bene il senso di derealizzazione di una vita passata a ripetere un comportamento di consumo, distruzione e della disperazione che ne segue, con il tossicomane che non sa più se è in quelle condizioni di dieci minuti o da chissà quanti secoli.
La tossicodipendenza è una malattia, del cervello e poi dell'anima, come tutte le malattie "mentali". Malattia che uno si ritrova ad avere, non ci nasce. Martin è trattato come un "vampiro nato" quando invece è probabilmente uno che ha sviluppato una malattia che prima non aveva. Ma le malattie comportamentali sono poco comprese, per cui chi le ha è trattato come se avesse un problema di carattere, di conformazione mentale, di scelta morale insomma: la dipendenza sarebbe una delle possibili fini di chi sceglie la via del rischio e della dissoluzione. La ricerca non indica niente del genere, se mai dice come una persona comune, al limite chiunque, se esposto a lungo agli effetti di una sostanza possa poi apparire agli altri come un "vampiro di se stesso" e indirettamente degli altri che depreda, sfrutta o inganna.