Come uscire dal paradosso

Parto dalla fine: ho appena avuto un colloquio di raccolta dati e prenotato la mia prima visita psichiatrica in un csm.

Sono un ragazzo di 27 anni e vivo da che ho memoria una situazione di grande disagio che è al tempo stesso un paradosso impossibile per me da abbattere.
Dall'età dell'adolescenza ho iniziato a convivere con un costante isolamento dalla società e da tutto ciò che è in sua relazione.
Ora mi trovo a 27 anni senza alcun contatto ad esclusione della sfera familiare, completamente isolato dal mondo, senza un lavoro e senza aver mai (o quasi mai) lavorato.
Ho sempre convissuto e lottato con una dicotomia: da una parte c'è un disagio nel vivere questa situazione e dall'altra la difficoltà nel vivere e nell'accettare la realtà, la società e le relazioni in quanto tali e così come sono ufficialmente programmate. Quando provo ad autosabotarmi e a nascondere una parte di questo conflitto, mi immergo completamente nell'altra parte e vivo in un contesto di temporaneo sollievo fino a che la mia identità e l'istinto di questo paradosso fanno capolino.
Per spiegarmi meglio: ci sono stati dei periodi più o meno lunghi in cui ho tentato di buttarmi completamente nel mondo in quanto tale, nei corretti e preimpostati canali della società contemporanea, trasferendomi anche all'estero e se da una parte inizialmente e sistematicamente credevo di "avercela fatta", qualcosa nella mia unità iniziava ad erodere questa apparente conquista. Tutto del vivere quotidiano inizia lentamente ad avvelenarmi. Gli schemi, le apparenze, i soprusi, il dover sottostare a regole incomprensibili, il malcostume, i falsi perbenismi, l'ipocrisia delle relazioni costruite sulla base di un tornaconto conscio o inconscio e l'impossibilità di trovare qualcosa di puro e incontaminato. Tutto questo mi crea una enorme ansia nel dover affrontare situazioni e persone inserite nella "macchina". Quello che dalla psichiatria viene marchiato come "fobia sociale". Questo disagio mi porta ad un costante rimuginio esistenziale e ad un livello di saturazione fisica e mentale insostenibili che, per sopportare, mi avvicinano a ricercare l'alterazione e l'assenza a me stesso attraverso altre gabbie ammalianti e insieme devastanti da cui fortunatamente non sono mai rimasto intrappolato.

Ecco che quindi mi ritrovo da capo sull'altra sponda di questo conflitto: l'isolamento.

Dopo anni di questi continui passaggi, la risalità diventa di volta in volta sempre più faticosa ed estenuante. Se fino a due anni fa credevo che le cose prima o poi si sarebbero sistemate e avrei trovato la chiave, l'ultimo anno è stato di forte disagio e depressione con talvolta pensieri molto "brutti". Gli ultimi mesi soprattuto li vivo in preda ad una depresione enorme e ad un continuo rimuginio di tipo "esistenziale", con pensieri che si accavallano e che mi tormentano, ma da cui non riesco a liberarmi, nè a trovare soluzioni.

Negli ultimi giorni decido di prenotare una visita psichiatrica, attratto dalla liberazione e dalla magnifica prospettiva di un futuro da inserito.Ma ecco che dopo pochi giorni lo stesso istinto di conservazione dell'unità che mi ha tenuto da sempre lontano dalla psichiatria fa capolino anche in questa scelta: entrare in questo meccanismo significherebbe eliminare parti di me. La psichiatria e tutto quello che gira intorno (psicofarmaci ecc.) identifica il disagio all'interno delle persone. Per la psichiatria il malato di mente è colui che non si adatta all'ambiente, cerca di cambiare questo stato e non riuscendoci impazzisce.
Le terapie psichiatriche sono infatti tutte incentrate all'accettazione della realtà così com'è, e so che iniziando un percorso di questo tipo mi verranno prescritti probabilmente dei farmaci e mi verrà fatto il più comune dei "lavaggi del cervello" per "aiutarmi" a non finire più sull'altro lato della sponda.
D'altronde il mio potrebbe essere un classico caso di resistenza identitaria trascinato per anni e per Loro, gli psichiatri, di facile risoluzione.
Credo che fondamentalmente i cosiddetti "pazzi" siano riconosciuti tali e magari "curati" in quanto non abbiano mai avuto per caso o per fortuna, incontrato altri "pazzi" con cui condividere e creare una vita comunitaria alternativa a quella che viene considerata normalità.
Ma cosa fare quando la sofferenza è insopportabile e non trovi alternative?
Come si può non stare male e allo stesso tempo accettare di perdere parti di sè, cioè perdere quello che fa soffrire?


Grazie per la pazienza.
Un ragazzo.
[#1]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 66
<<Ma cosa fare quando la sofferenza è insopportabile e non trovi alternative?<<

Gentile ragazzo (quasi uomo),
Lei è giunto a una (veneranda) età senza aver mai lavorato, macerandosi in questa situazione. Come hanno reagito i Suoi genitori?

Lei è padrone delle Sua vita, e dunque può disdire la visita dallo psichiatra. Ma cosa na guadagna? Quello che già conosce per averlo sperimentato da tempo.

Nessuno può curare, o obbligare a curarsi, chi non vuole.
Lei, attraverso l'intellettualizzazione, "fa e disfa" la propria realtà, il Suo presente e il suo futuro.
Come possiamo aiutarLa?
Quale è la domanda?



Dr. Carla Maria BRUNIALTI
Psicoterapeuta, Sessuologa clinica, Psicologa europea.
https://www.centrobrunialtipsy.it/

[#2]
dopo
Utente
Utente
I miei genitori hanno reagito probabilmente non capendo e non sforzandosi mai di capire.Forse coprendomi e magari aiutandomi in maniera non proficua.
Hanno reagito cercando di spronarmi con indicazioni dirette del tipo "trova un lavoro", "fatti un giro di amicizie" ecc. non comprendendo il disagio, e il dolore, il senso di ottundimento, lo stress e l'ansia anticipatoria che mi crea anche solo andare dal medico per parlargli di un problema fisico, figuriamoci un contesto sociale più complesso.
Mi sono aperto con mia madre solo di recente, per cercare aiuto, quando mi ha visto a pezzi piegato dalla depressione, con totale assenza di volontà e senza che avessi la forza nemmeno di alzarmi dal letto e con frequenti ideazioni suicide (fortunatamente superate).
Mio padre non sa niente del mio disagio e mia madre evita di parlargliene perchè "soffrirebbe e gli verrebbe l'ansia". Ha da sempre delegato qualsiasi cosa a mia madre che si occupa di qualsiasi aspetto e decisione grande o piccola della vita quotidiana. Se non ci fosse lei probabilmente sarebbe perso. E' una persona introversa che non parla molto e non ho mai avuto alcun dialogo con lui che esplorasse altri aspetti oltre al superficiale, al meteo e a brevi scambi sul più e sul meno.
E' probabilmente fragile ma non sembra soffrire per la sua condizione e per il suo delegare qualsiasi cosa a mia madre che si prende da sempre carico di tutto.
Lo odio per questo, per non avermi mai trasmesso alcun valore e lo odio perchè purtroppo rivedo in me parti del suo essere che non riesco ad accettare in me.
Credo di aver sempre dovuto cercare un senso e dei valori all'esterno di me, quando avrei sempre voluto trovarli in me.

Non saprei come poter essere aiutato.
E' davvero sempre possibile sintetizzare in una domanda diretta un vissuto che crea disagio?

Se chiedessi come riuscire a non provare ansia nel momento in cui vorrei entrare in un negozio, non entrandoci per evitare di provare quel sentimento di paura irrazionale parlando con un commesso e mi bastasse la risposta "basta che non provi ansia", probabilmente sarebbe tutto molto semplice.

Lei ha poi centrato in pieno un altro dei problemi. Il troppo intelletualizzare, l'essere esageratamente metapercettivo, analizzare e giudicare me stesso e gli altri a livelli estenuanti. Ma questo è un altro problema che non risolvo semplicemente dicendomi "basta che smetti di farlo".

Mi rendo conto che d'altronde mi contraddistingue, e questo scambio lo dimostra, la maniera in cui si instaurino in me delle forti difese che non so nè da dove arrivano, nè so come controllare. Potrebbe trattarsi di personalità evitante?
Una semplice frase mi ha aiutato a riflettere: "Ma cosa na guadagna? Quello che già conosce per averlo sperimentato da tempo."
Sicuramente ha ragione e avrei bisogno di un supporto farmacologico per almeno essere in grado di avere una maggiore rilassatezza di pensiero nell'affrontare un confronto vis à vis con un Suo collega e tentare di districare e analizzare molti nodi che mi trascino da tempo e che mi immobilizzano nell'impasse.
Grazie per la risposta

p.s. sembrerà assurdo ma provo una sensazione di ansia anche solo nell'inviare questo messaggio e nell'attendere una risposta.
[#3]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 66
Gentile utente,

Ho letto con attenzione la Sua risposta.
Noi online riusciamo a comprendere, a dare indicazioni, ma purtroppo non altro:
la guarigione - o miglioramento - passa attraverso un rapporto personale, che è quello che Le invito a ricercare.
Se posso esprimere un desiderio, mantenga l'appuntamento con lo Psichiatra. E' pur sempre un primo passo!

Ci faccia sapere, qualora lo desideri.





[#4]
dopo
Utente
Utente
Grazie Dottoressa.
Conoscevo sommariamente il significato del termine "intellettualizzazione", ho letto alcune cose riguardo quel processo psicologico, e mi si sono aperte diverse porte che non avevo mai esplorato.
Manterrò quell'appuntamento.
[#5]
Dr. Carla Maria Brunialti Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo 17.7k 579 66
Ne sono felice.

Se ritiene e Le fa piacere, ci tenga informati.


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