Clostridium difficile, diarrea e colite da antibiotici, colite pseudomembranosa: facciamo il punto

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Dr. Francesco Quatraro Gastroenterologo, Colonproctologo

Negli ultimi anni si è registrato un aumento della frequenza, oltre che della gravità, delle Infezioni da Clostridium Difficile (ICD o CDI, Clostridium Difficile Infections, o CDAD, Clostridium Difficile Associated Disease) sia in ambiente intra- che extra-ospedaliero, associate ad una elevata probabilità di recidiva dopo il trattamento. Il Clostridium Difficile rappresenta l'agente patogeno principale della “colite da antibiotici”, ma anche di molte infezioni comunitarie, nelle quali i fattori di rischio non sono sempre collegabili all’uso di antibiotici o ad una ospedalizzazione precedente, sicchè le infezioni gastrointestinali legate a questo germe hanno assunto un ruolo di rilievo nel dibattito medico e scientifico; pertanto esse rappresentano, oggi, un'importante entità nosologica, anche in termini di costi, economici e socio-assistenziali

Il Clostridium Difficile (CD)

Il Clostridium Difficile fu scoperto nel 1935 (Hall e O’Toole) e denominato, inizialmente, Bacillus Difficilis, in ragione della difficoltà nell’isolarlo e nel farlo crescere nel normale terreno di coltura; questo germe fu considerato non patogeno fino agli anni ’70, quando venne ridenominato Clostridium Difficile. Nel 1978 il CD fu finalmente identificato come causa di diarrea associata a terapia antibiotica (clindamicina), ed agente eziologico della Colite PseudoMembranosa (PMC, PseudoMembranous Colitis).

Si tratta di un batterio, gram-positivo, anaerobio e sporigeno (ovvero capace di sporulare, di generare spore). Le spore sono dotate di una membrana particolarmente resistente, sia alle escursioni termiche che all'attacco chimico dei comuni disinfettanti. Le spore, ingerite (la contaminazione può avvenire per via oro-fecale), sopravvivono alla barriera acida dello stomaco e germinano (germinazione) nel colon.

Questo batterio è un normale componente della flora saprofita intestinale; può essere isolato nell'80% delle feci di bambini e neonati, e nel 3% delle feci di adulti sani. Neonati e bambini sono portatori asintomatici di CD. Il germe è presente anche nell'apparato gastrointestinale (e quindi nelle feci) di molti animali domestici (cani, gatti) e di numerosi altri animali (cavalli, maiali, roditori), oltre che nell’ambiente (suolo, acqua). Recentemente, sono state indagate altre possibili fonti di contaminazione, quali gli alimenti, ma, ad oggi, non esiste un metodo standard che permetta la ricerca di questo germe negli alimenti.

I fattori di virulenza principale del CD sono la tossina A (TcdA), la tossina B (TcdB) e la tossina binaria (CDT). Le tossine hanno azione citotossica sulla mucosa del colon; la tossina B è circa 1000 volte più potente della A. Le tossine, dopo essere penetrate nelle cellule epiteliali intestinali tramite endocitosi, distruggono l’actina del citoscheletro, causando la morte cellulare; esse inducono, inoltre, la produzione di TNF-α e IL‐1.

  • La tossina B causa una necrosi delle cellule intestinali, aumenta la permeabilità intestinale, con secrezione di liquidi e reclutamento di neutrofili, portando alla formazione di pseudomembrane.
  • La tossina A è una citotossina che innesca l’apoptosi, non ha evidenti attività enterotossiche se non dopo che la parete intestinale è stata distrutta.
  • La terza tossina, chiamata tossina binaria (CDT), aumenta la virulenza del ceppo, ma il meccanismo di azione di questa tossina non è tuttora chiaro, pare che non sia relazionato con le tossine A e B.

Esistono diversi ceppi di CD, ma non tutti sono produttori di tossine; pertanto rivestono interesse clinico solo i ceppi che producono l’enterotossina A e/o la citotossina B. Per la tipizzazione di questo batterio esistono vari metodi, il più comunemente utilizzato è la PCR-Ribotyping che ha consentito di individuare numerosi ribotipi, tra cui:

  • Ribotipo 001, comune causa di CDI nel Regno Unito;
  • Ribotipo 027, (noto anche come CD NAP1/027 o CD BI/NAP1/027 ), associato a più alta mortalità, gravità e frequenza delle ricadute;
  • Ribotipo 078, ha una maggiore incidenza tra le CDI acquisite in comunità (CA-CDI );
  • Ribotipo 014, (A+B+CDT-), uno dei ribotipi più frequenti in Europa. L’origine e/o il serbatoio di questo ribotipo resta ancora sconosciuto.

 

Le Infezioni da Clostridium Difficile (CDI)

Oggi il 25% delle diarree associate all’uso di antibiotici è causato dal CD, il quale può determinare infezioni del tratto gastro-intestinale, denominate CDI (Clostridium Difficile Infections, ovvero Infezioni da Clostridium Difficile, o CDAD Clostridium Difficile Associated Disease).

La condizione predisponente principale, che permette lo sviluppo delle CDI, è legata alla distruzione della normale flora microbica del colon, a causa dell’assunzione di chemioterapici, antitumorali ed antimicrobici (antibiotici).

Per quanto concerne gli antibiotici, sebbene tutte le classi sarebbero virtualmente da considerare nell’ambito dei fattori predisponenti, in realtà sono considerati tali antibiotici come l’ampicillina, le cefalosporine e la clindamicina, mentre alcune classi (es. cotrimoxazolo) sono raramente all’origine del problema; i fluorochinoloni, invece, vengono indicati come un fattore di rischio predominante.

Antimicrobici responsabili della diarrea da C. difficile
ALTA FREQUENZA  FREQUENZA INTERMEDIA BASSA FREQUENZA
Fluorochinoloni:
NORFLOXACINA
PEFLOXACINA
OFLOXACINA
CIPROFLOXACINA
---
Cefalosporine II e III generazione
Ampicillina/Amoxicillina
Clindamicina
Trimetoprim
Tetracicline
Carbapenemi
Penicilline ad ampio spettro
Ticarcillina + Clavulanato
Chinoloni
Rifampicina
Sulfamidici
Aminoglicosidi
Macrolidi
Cloramfenicolo
Metronidazolo
Cotrimossazolo
Amfotericina B

I soggetti più comunemente colpiti sono:

  • pazienti anziani,
  • pazienti immunocompromessi,
  • pazienti che fanno uso prolungato di antibiotici,
  • pazienti che hanno subito operazioni chirurgiche del tratto gastrointestinale,
  • pazienti ospedalizzati, o degenti in case di cura.

Le CDI rappresentano una delle infezioni nosocomiali più comuni, ma negli ultimi tempi hanno fatto registrare un esponenziale aumento anche a livello comunitario, al di fuori dell’ambito ospedaliero, perfino in soggetti che non sono stati sottoposti, in precedenza, a terapie antibiotiche.

Le CDI si manifestano nei 4‐10 giorni successivi all’inizio dell'assunzione della terapia antibiotica, ma possono anche insorgere alcune settimane dopo la fine della terapia.

Di norma si manifestano come sindrome diarroica lieve (diarrea acquosa accompagnata o meno da dolori addominali), di carattere benigno, che si arresta terminando la cura antibiotica in corso.

Come molti altri batteri, anche il CD mostra delle resistenze verso degli antibiotici. Alcuni ceppi sono resistenti a tetraciclina, cloramfenicolo o eritromicina, mentre tutti i CD sono sensibili a metronidazolo e vancomicina.

Uno degli aspetti critici delle CDI è la frequenza di recidive, che compaiono in una elevata percentuale di casi nei pazienti ricoverati, seppure trattati correttamente. In genere la recidiva compare entro 4 settimane dal termine della terapia antibiotica.

 

La Colite PseudoMembranosa (PMC)

La Colite PseudoMembranosa (PMC, PseudoMembranous Colitis) è un processo infiammatorio acuto, una colite essudativa in genere causata dal Clostridium Difficile. La PMC raramente può essere causata da altri batteri, ad esempio lo Staphylococcus o germi enterotossigeni come Clostridium perfringens, Campylobacter, Listeria e Salmonella. La PMC, soprattutto negli ultimi anni, sta diventando un problema sanitario emergenziale.

Nel colon l’eccessiva proliferazione batterica del CD può innescare una intensa reazione infiammatoria, con sintomatologia severa (profusa diarrea acquosa, con 10-15 scariche alvine quotidiane, dolori addominali, febbre, perdita di appetito, nausea, disidratazione), determinando l’evoluzione verso una colite senza pseudomembrane, fino a giungere alla grave Colite PseudoMembranosa, con necrosi epiteliale, ulcerazioni della parete intestinale e formazione di pseudomembrane.

Il quadro, talora, evolve fino determinare una colite fulminante, con megacolon tossico e perforazione intestinale (1%-3% dei pazienti), mettendo a rischio la vita stessa del paziente. Queste forme gravi, da alcuni anni, si presentano con aumentata frequenza e possono richiedere un intervento di colectomia ed il ricovero in UTI (Unità di Terapia Intensiva).

COMPLICANZE

  • disidratazione
  • disturbi elettrolitici
  • enteropatia proteino-disperdente, ipoalbuminemia
  • megacolon tossico
  • perforazione intestinale
  • sepsi, ascessi splenici
  • insufficienza renale

Le complicanze gravi (quali disidratazione, ipokaliemia, perforazione intestinale, shock settico), che possono mettere in pericolo la vita del paziente, si presentano con una frequenza stimata intorno all’8%.

 

Fisiopatologia, Modalità di trasmissione ed epidemiologia

La sequenza di eventi che portano allo sviluppo delle patologie da CD sono:

  1. alterazione della flora microbica intestinale, prevalentemente a seguito di terapia antibiotica, recente o pregressa;
  2. esposizione a CD e colonizzazione (ad esempio, pazienti adulti dopo degenza ospedaliera e terapia antibiotica);
  3. produzione di tossine. In assenza di una efficace risposta immune compaiono i danni tissutali indotti; se la risposta immune è efficace il soggetto non sviluppa malattia, ma diviene portatore asintomatico.

L’infezione si verifica a seguito di trasmissione fecale-orale, per ingestione di spore che sopravvivono nell’ambiente acido dello stomaco e si trasformano nella forma vegetativa nel colon. Attraverso le mani portate alla bocca, dopo il contatto con superfici ambientali contaminate dalle spore, le quali possono sopravvivere per mesi su superfici inerti (ad es. strumentazione sanitaria). Anche i pazienti possono diventare portatori.

La degenza ospedaliera del paziente aumenta il rischio di contaminazione.

Il paziente colonizzato/infetto è la fonte primaria di CD:

  • nelle feci di adulti, asintomatici, immunocompetenti, il CD è riscontrabile in circa il 3% dei casi; in larga misura si tratta di ceppi non patogeni, circa lo 0,6% sono ceppi produttori di tossina. I portatori asintomatici rappresentano un serbatoio di CD, potendo contribuire alla sua disseminazione nell’ambiente;
  • nei soggetti ospedalizzati il numero di colonizzati raggiunge il 7-25 %, con una percentuale di ceppi produttori di tossina del 2-8%;
  • i neonati (sino al compimento del primo anno di età) spesso sono portatori asintomatici, anche di ceppi produttori di tossina. La colonizzazione pare venga favorita dall’immaturità della flora batterica intestinale; la mancata evoluzione verso la malattia è dovuta all’incapacità della tossina di legarsi ai recettori degli enterociti, anch’essi ancora immaturi.

Per via diretta o indiretta il CD contamina l’ambiente, che diviene la fonte secondaria di infezione.

Mentre le fonti di contaminazione ed i fattori predisponenti delle infezioni nosocomiali da CD sono ben conosciuti, al contrario, poco si sa sull’origine delle infezioni comunitarie, la cui prevalenza è in aumento.

Le cause dell’incremento di incidenza e di severità delle CDI non sono del tutto chiare e sono tuttora oggetto di analisi. Vengono formulate alcune ipotesi:

  • Uno studio ha dimostrato un’associazione fra l’infezione sostenuta dal ceppo ipervirulento NAP1/BI/027 e l’utilizzo di fluorochinolonici per il trattamento di polmoniti acquisite in comunità.
  • Alcuni autori suggeriscono che l’aumento dei casi di CDI sia legato alla maggior diffusione di CD nei reservoir animali (maiali e altro bestiame d’allevamento).
  • Altre ipotesi sottolineano che l’uso di sostanze non-sporicide, per l’igiene delle mani, avrebbe favorito il passaggio fra pazienti e fra operatori sanitari e pazienti nell’ambito delle strutture d’assistenza sanitaria. Molti ospedali, infatti, hanno introdotto l’uso di disinfettanti a base alcoolica per l'igiene delle mani, ma tali prodotti sono privi di azione sulle spore.

Secondo alcuni autori, i casi che si sviluppano in ambito assistenziale extraospedaliero hanno quasi sempre, all’origine, una problematica nosocomiale. Nell’ultimo decennio gli ospedali tendono a dimettere i pazienti a breve distanza dall’intervento chirurgico o dall’impostazione di un trattamento terapeutico; se il paziente sviluppa una CDI poco tempo dopo la dimissione, questa infezione è da considerare di origine ospedaliera.

L’infezione da CD oggi è un problema che riguarda non solo l’ospedale, ma anche tutte le strutture in cui si pratica assistenza sanitaria (es. reparti riabilitativi, lungodegenze, strutture per anziani) e, come già ricordato, la comunità.

La popolazione presente nelle strutture residenziali ha una prevalenza di colonizzazione da CD del 4-20%, superiore a quella che si riscontra negli adulti sani. Inoltre si tratta di soggetti portatori di numerosi fattori di rischio (età, frequente trattamento con antibiotici ed antiacidi, varie comorbilità, etc.).

 

Fattori di rischio

Tradizionalmente vengono annoverati:

  • L’età (senilità). Tutte le età sono potenzialmente a rischio, con eccezione dei bambini piccoli, che non presentano manifestazioni cliniche per immaturità recettoriale. L’età superiore a 60 anni è di per sè un fattore di rischio, che diviene più significativo oltre gli 80 anni.
  • La riduzione delle difese immunitarie, anche per terapie farmacologiche.
  • Le condizioni dell’ospite; ovvero la presenza di comorbidità severe quali insufficienza renale cronica, fibrosi cistica, chirurgia del tratto intestinale e biliare, neoplasie ematologiche, morbo di Crohn, Colite Ulcerosa, etc.
  • Aumentata esposizione alle spore di CD (ricoveri prolungati e/o dimora in strutture assistenziali, in ambiente ospedaliero, compagni di stanza infetti o personale sanitario portatore di germi).
  • Fattori che alterano la normale flora microbica intestinale (terapia antibiotica, soprattutto se combinata e/o protratta, massivo utilizzo di fluorochinolonici; utilizzo di antisecretivi, come i PPI, che, sopprimendo la secrezione acida gastrica, consentirebbero ai batteri di raggiungere l’intestino e di elaborare tossine a causa dell’indebolimento della barriera acida; altre procedure assistenziali come sonde endotracheali, alimentazione con sondino naso-gastrico,SNG, o per via gastrostomica, PEG).
  • Il rischio di recidive nella PMC sembra possa essere strettamente legata alla presenza, o meno, dell'appendice, che, con ogni probabilità, svolge un ruolo attivo nel ripristino della normale microflora intestinale dopo un ciclo di terapia con antibiotici. L'appendice fa parte del tessuto linfoide associato alla mucosa (M.A.L.T.) e la sua integrità è condizione necessaria per consentire una ottimale produzione del biofilm protettivo della mucosa colica. Uno studio del dicembre 2011 dimostra che la probabilità di infettarsi con il Clostridiun difficile, in pazienti appendicectomizzati, è del 48%, contro l'11% di chi conserva ancora l'appendice.

 

Prevenzione

Le infezioni da CD rivestono un ruolo molto importante nelle infezioni ospedaliere; infatti, sempre più spesso, sono riconosciute causare epidemie nosocomiali. Il clostridio produce delle spore che persistono per anni nell’ambiente, rappresentando per questo una delle contaminazioni più comuni in ambito sanitario.

Il miglior modo per prevenire l’infezione di questo batterio è di evitare l’assunzione di antibiotici, quando non è strettamente necessario.

Agli operatori sanitari si raccomanda di ridurre al minimo la possibile trasmissione tra un paziente e l’altro (che può avvenire attraverso materiale sanitario, superfici contaminate e manipolazioni), attenendosi al rispetto delle regole di asepsi. Le spore sono molto resistenti al calore ed all’alcol. In ambito ospedaliero le mani sono il veicolo principale, ad oggi conosciuto, dell’infezione da CD. E’ importante lavarle in modo accurato, con il sapone, ogni volta che si entra in contatto con un paziente, poiché la sola disinfezione con alcol non è sufficiente per eliminare le spore.

Se possibile, il paziente con CDI dev’essere isolato, ed il personale, medico ed infermieristico, deve indossare camice e guanti, cambiandoli anche frequentemente, quando interagisce con il paziente.

La trasmissione tra paziente e paziente è comune; spesso si riescono ad isolare le spore del batterio anche sulle mani, sui vestiti e sugli stetoscopi usati dal personale sanitario; per questo, oltre alla disinfezione delle mani, è importante evitare l’uso di termometri rettali, come pure la sterilizzazione delle padelle, la decontaminazione di endoscopi o altri strumenti, che possono trasportare spore, tramite disinfettanti sporicidi oppure in autoclave.

 

Diagnosi

Diagnosi endoscopica

La diagnosi di colite pseudomembranosa (PMC) è endoscopica. L’esame endoscopico consente di visualizzare le pseudomembrane in più del 50% dei pazienti.

La sigmoidoscopia flessibile è diagnostica nel 90% dei casi, vista la prevalente localizzazione nel colon sinistro; sono pochi  i casi (10%) in cui si rende necessario l'effettuazione di una pancolonscopia. Nei casi lievi, le pseudomembrane possono non essere presenti, la diagnosi dovrà essere confermata dai prelievi bioptici. L’aspetto macroscopico tipico della PMC è dato dalla presenza di pseudomembrane (patognomoniche) che si presentano come noduli e placche biancastre o giallastre, formate da fibrina e da globuli bianchi, talvolta più scure, spesso multiple, rilevate, delle dimensioni variabili da 2 a 10 mm, scarsamente aderenti alla mucosa sottostante, che appare a tratti normale ed a tratti sede di erosioni superficiali, o con eritemi puntiformi, e con tendenza a confluire nei casi più avanzati. Le pseudomembrane possono essere rimosse facilmente durante l’endoscopia, rivelando una sottostante mucosa infiammata ed eritematosa. Il distacco delle pseudomembrane può provocare sanguinamento, perchè la pseudomembrana è costituita non solo dalla fibrina, ma anche da lembi necrotici della mucosa, contenente vasi sanguigni. Occorre evitare di eseguire l'endoscopia in pazienti con colite fulminante, a causa del rischio di megacolon e perforazione.

Diagnosi di laboratorio

La diagnosi laboratoristica si basa sulla ricerca nelle feci del Clostridium Difficile e/o di suoi antigeni, tossine o acidi nucleici. La ricerca di indici di reazione infiammatoria nelle feci (leucociti, lattoferrina) è spesso positiva, ma non è patognomonica di CDI.

  • Ricerca delle tossine A e B (EIA/IC): mediamente sensibile (75%), dotato di buona specificità (90%-100%); è il test attualmente più diffuso nei laboratori. Rispetto al test antigenico, risente maggiormente delle modalità di conservazione del campione, perchè le tossine si degradano piuttosto rapidamente se il campione non viene conservato a 2°- 8°C.
  • Coltura per CD: prevede la semina del campione, previo arricchimento, su terreni selettivi/differenziali: l’identificazione di specie si avvale di semplici criteri morfologici e organolettici (aspetto delle colonie, odore caratteristico). È attualmente ritenuta il test più sensibile ed anche specifico a condizione che venga saggiata la capacità degli isolati di produrre tossine (coltura tossinogenica). A causa del tempo richiesto (coltura più identificazione) non è indicata quale test di screening. L’esecuzione della coltura può tuttavia permettere di fare diagnosi di CDI nei casi in cui i test immunologici o molecolari per la ricerca della tossina siano risultati negativi ed ha comunque una insostituibile valenza epidemiologica.
  • Altri metodi: Amplificazione di acidi nucleici (NAT), Ricerca della tossina B mediante coltura di tessuti (TCCA: tissue colture cytotoxin assay), Ricerca del cosiddetto antigene comune (glutammato deidrogenasi - GDH, che è indice di presenza di CD).

A causa delle limitazioni inerenti a ciascun metodo, sono state proposte numerose combinazioni di test diagnostici di laboratorio.

Alcuni Autori raccomandano pertanto l’impiego di routine di un test di screening ad elevata sensibilità quale la ricerca delle tossine con metodo immunoenzimatico (in alcuni sistemi in combinazione con la ricerca dell’antigene): un eventuale risultato positivo dovrebbe però essere confermato da un test di conferma (TCCA, coltura tossinogenica).

 

Terapia

Misure di carattere generale

Le strategie di trattamento dei casi accertati di CDI, contemplano:

  • misure comportamentali per gli operatori sanitari;
  • sospensione, quanto prima possibile, della terapia antibiotica; laddove ciò non fosse possibile occorrerà utilizzare, fra le varie classi di antibiotici, quelle meno implicate nei casi di CDI, come gli aminoglicosidi, le sulfonamidi, i macrolidi, le tetracicline, i glicopeptidi. Tale rimedio si è dimostrato sicuro ed efficace, infatti il 25% delle forme lievi di CDI regredisce spontaneamente nel giro di 72 ore dalla sospensione dell'antimicrobico;
  • reintegrazione delle perdite idriche (bere molto) ed elettrolitiche;
  • alimentazione idonea (ad es. sospensione di latte e derivati, degli alimenti a base di farina di grano e degli alimenti ad alto contenuto di fibre quali frutta, cereali, crusca);
  • non assumere farmaci antiperistaltici (come gli antidiarroici), se non in caso di un numero eccessivo di scariche.

Qualora questi provvedimenti e/o la semplice sospensione dell'antimicrobico non siano sufficienti, sarà necessario ricorrere alla terapia antibiotica specifica.

Terapia Antibiotica

1. Nelle forme non severe la terapia antibiotica standard fa riferimento essenzialmente a due principi attivi, metronidazolo e vancomicina, dimostratisi, in più trials clinici, egualmente efficaci.

 Metronidazolo
Antibiotico, appartenente alla classe dei nitro-imidazoli, utilizzato nel trattamento di infezioni sostenute da batteri anaerobi. Agisce come battericida, in quanto interrompe la sintesi proteica, con conseguente morte del batterio.
E’ considerato il trattamento di prima linea per le patologie associate al CD, verso le quali ha dimostrato un alto tasso di successo ed una bassa incidenza di recidive, anche se confrontato con vancomicina per via orale.
I vantaggi del metronidazolo sono rappresentati dal basso costo della terapia, evita l’emergenza di ceppi di Enterococcus faecium resistenti alla vancomicina, inoltre raggiunge velocemente una concentrazione efficace con somministrazioni per via endovenosa, evitando effetti collaterali gastrointestinali.
Attualmente però, sia nel trattamento di prime infezioni che di recidive, il trattamento a base di questo antibiotico registra un aumento dei tassi di fallimento del trattamento, con una media attorno al 25%, con picchi del 50%.
Effetti avversi: epatotossicità e neurotossicità (che si manifesta principalmente sotto forma di parestesie, più comuni con la somministrazione prolungata).
 Vancomicina
La vancomicina viene estratta da un actinomicete: lo Streptococcus orientalis. Si tratta di un antibiotico, appartenente, insieme alla teicoplanina, alla classe degli antibiotici glicopeptidici, così denominati per la presenza nella loro struttura di vari aminoacidi e di una porzione zuccherina.
Questa classe di antibiotici riveste una particolare importanza nel trattamento di infezioni gravi sostenute da batteri gram-positivi resistenti ad altri farmaci antibatterici come, ad esempio, gli antibiotici beta-lattamici. Si tratta di molecole ad alto peso molecolare, che agiscono inibendo nei batteri gram-positivi la polimerizzazione della parete di peptidoglicano, inibendo quindi la costruzione della parete batterica ed uccidendo le cellule batteriche in crescita.
E’ stato il primo farmaco usato nel trattamento delle patologie associate al C. Difficile ed attualmente è l'unico agente approvato in U.S.A. dalla FDA (Food & Drug Administration) a questo scopo.
Viene considerato farmaco di prima scelta nei casi di CDI ricorrenti e quando è sconsigliabile l'impiego del metronidazolo, come nel trattamento di donne in gravidanza, o in fase di allattamento, e di quei pazienti refrattari alla terapia.
La risposta iniziale al trattamento è favorevole nel 95% dei casi, tuttavia più del 20% di essi presenta recidive a distanza di 1-2 settimane dalla fine del trattamento, tale rischio arriva al 65% dopo la seconda recidiva.
La vancomicina per via sistemica è un farmaco poco maneggevole, per tale motivo viene somministrata per infusione endovenosa (IV) lenta in ambiente ospedaliero, nel trattamento di infezioni sistemiche, oppure per via orale nel trattamento di infezioni enteriche.
La vancomicina ha una scarsissima biodisponibilità orale poiché non viene assorbita a livello della mucosa intestinale.
Gli effetti collaterali comprendono soprattutto nefrotossicità, ipotensione, ototossicità (raramente).
Quando viene somministrata per via orale la vancomicina è molto meglio tollerata. Gli effetti indesiderati, in tal caso, comprendono nausea, vomito, e diarrea.

Il trattamento standard, della durata di 10 giorni, prevede l’uso di metronidazolo orale (efficace ed a basso costo) con posologia di 250 mg ogni 6 ore oppure, in alternativa, di vancomicina orale (efficace, ma ad alto costo) in dosi di 125 mg ogni 6 ore. Nei pazienti affetti da patologia di grado moderato i due farmaci hanno dimostrato un'efficacia simile, con percentuali di successo rispettivamente del 97% e 98%.

2. Nelle forme severe, definite in base ad uno score basato su:

  • età (superiore od inferiore a 60 anni),
  • temperatura corporea (inferiore o superiore a 38,3°C),
  • livelli di albuminemia (superiore o inferiore a 2.5 mg/L),
  • conta dei globuli bianchi (superiore od inferiore a 11.500 /mmc)

vi sarebbe una superiorità di vancomicina, con percentuali di successo pari al 97% rispetto al 76% ottenuto con metronidazolo (p <0,02). Le infezioni gravi da Clostridium Difficile possono  essere intrattabili in una percentuale che va dal 15% al 26%, e non esiste oggi una terapia codificata ed efficace per trattare questa patologia.

In termini di incidenza di recidive (valutate mediante follow up a 21 giorni dal termine della terapia) i due farmaci sono risultati sovrapponibili, con una incidenza di circa il 15% dei casi.

Analogamente le differenze in termini di tollerabilità non sono state sostanziali.

Nei casi piu severi la vancomicina si e rivelata nettamente più efficace (97% contro il 76% del metronodazolo).

Oggi, quindi, è opinione condivisa che vancomicina debba rappresentare il farmaco di prima scelta, in virtù della sua maggiore efficacia e del minore impatto sulla flora intestinale rispetto a metronidazolo.

Tuttavia va rimarcato che per pazienti con forme particolarmente gravi (forme fulminanti, ileo paralitico o megacolon tossico), in cui sia controindicata o impossibile una terapia orale, metronidazolo endovena alla posologia di 500 mg ogni 6 ore è la terapia di scelta, eventualmente supportata da vancomicina per SNG (sondino nasogastrico) o per clistere.

3. Sebbene le forme particolarmente gravi possano rappresentare una vera e propria emergenza clinica, il problema gestionale più complesso è tuttavia rappresentato dal trattamento delle forme ricorrenti, che possono essere espressione sia di reinfezione da ceppi differenti che di mancata eradicazione dello stipite originario.

Nei casi di recidive plurime, le opzioni terapeutiche dimostratesi più valide sono:

  1. tapered therapy, ovvero una terapia prolungata a dosaggi decrescenti: dopo un regime standard, vancomicina 125 mg PO, QID per 2 settimane, proseguire con tapered therapy, ovvero dosi decrescenti di terapia nelle settimane successive (es. 125 mg QID per 7 giorni, poi 125 mg BID per ulteriori 7 giorni);
  2. pulsed therapy, ovvero una terapia ripetuta ad intervalli utilizzando le dosi convenzionali: dopo un regime standard, vancomicina 125 mg PO, QID per 2 settimane, proseguire con pulsed therapy, ovvero 3 gg di terapia standard ogni 3 settimane. 
 

Infectious Diseases Society of America (IDSA) Guidelines
"Cohen SH et al. IDSA guidelines 2010"

Quadro clinico di CDI

Dati clinici di supporto

Trattamento indicato

Primo episodio,
di grado lieve
o moderato
Leucocitosi (<15.000),
aumento della creatinina
(< x 1,5 volte il valore normale)
Metronidazolo 500 mg PO, TID x 10-14 giorni
Primo episodio,
di grado severo
Leucocitosi (>15.000),
aumento della creatinina
(> x 1,5 volte il valore normale)
Vancomicina 125 mg PO, QID x 10-14 giorni
Primo episodio,
complicato
Ipotensione o shock,
ileo,
megacolon
Vancomicina 500 mg PO, QID
insieme a
Metronidazolo 500 mg IV QID
+/- Vancomicina 500 mg attraverso clistere
Prima recidiva / Stessa terapia valevole per un episodio iniziale
Seconda recidiva / Vancomicina secondo il trattamento "tapered" o "pulsed"

 

NUOVE PROSPETTIVE TERAPEUTICHE

Nuovi antibiotici

 

 Fidaxomicina
Si tratta di un antibiotico macrolide, otto volte più potente, in vitro, rispetto alla vancomicina; è stato studiato in casi isolati di C. Difficile NAP1/B1/027.
Ha un minimo assorbimento sistemico, determina alte concentrazioni fecali, un lungo effetto post-antibiotico ed una minima interazione contro la normale flora intestinale, fornendo così una terapia selettiva nelle CDI, inibendo l’enzima batterico RNA Polimerasi e causando la morte del batterio.
La fidaxomicina è stata approvata per il trattamento delle CDI negli USA nel maggio del 2011 ed in Europa nel dicembre dello stesso anno.
Dose: 200 mg PO BID x 10 giorni
Effetti avversi: nausea, vomito
Rifaximina
Si tratta di un antibiotico battericida non assorbibile del gruppo delle rifamicine; viene scarsamente assorbito a livello intestinale, è attivo contro germi gram-positivi e gram-negativi, sia aerobi che anaerobi, attraverso l’inibizione della sintesi dell’RNA batterico. Attualmente il farmaco viene impiegato essenzialmente nella diarrea del viaggiatore e, soprattutto in Italia, per la gestione delle complicanze della cirrosi epatica. Recentemente, sono emersi incoraggianti dati in vivo sulla potenza dell’attività antibatterica della rifaximina contro il CD. Purtroppo, però, si sono evidenziati anche ceppi che hanno sviluppato resistenza, il che solleva dei dubbi sull’effettiva possibilità d’impiego, dato il rischio di diffusione di tale resistenza. Una nota positiva su questo farmaco riguarda proprio i ceppi NAP1/B1/027 che presenterebbero le MIC piu basse nei confronti della rifaximina, che potrebbe quindi essere impiegata specificamente per le severe infezioni sostenute da questo particolare ceppo.
L’associazione di rifamicina a vancomicina è un’ipotesi da prendere in considerazione, sebbene manchino evidenze decisive.
Dose: 200-400 mg PO BID/TID x 14 giorni
Nitazoxanide
Si tratta di un antibiotico approvato per il trattamento della diarrea da parassiti (giardiasi e criptosporidiosi) ed ha dimostrato, in vitro, di possedere una buona attività contro il CD. Agisce interferendo con il meccanismo della reazione di trasferimento di elettroni catalizzato della piruvato-ferredoxinossireduttasi, indispensabile per il metabolismo anaerobio. L’inibizione di CD si osserva già con basse dosi di nitazoxanide. E’ stato inizialmente confrontato con il metronidazolo in uno studio prospettico, randomizzato e in doppio cieco, ma la risposta antimicrobica sostenuta a 31 giorni non mostrava differenze fra i due trattamenti.
Dose: 500 mg PO al dì (compresse da 500 mg o 25 ml. di sospensione orale, 100 mg/5 ml.) x 10 giorni
Ramoplanina
La ramoplanina è un antibiotico lipoglicopeptidico che si è dimostrato attivo verso i batteri gram-positivi, sia aerobi che anaerobi, quali Enterococcus e CD; esplica la propria attività antibatterica con un meccanismo d'azione molto simile a quello della vancomicina, perchè inibisce la biosintesi del peptidoglicano batterico (la parete batterica), senza interferire con l'attività della vancomicina. E’ stata sviluppata per la terapia delle infezioni intestinali poichè raggiunge concentrazioni molto elevate a livello fecale.
Il farmaco sarebbe utile in caso di resistenza alla vancomicina, poiché, secondo i ricercatori, utilizzando una sequenza di 8 aminoacidi per riconoscere il peptidoglicano, renderebbe più difficile l'insorgenza di resistenze.
I dati sinora emersi hanno evidenziato un’accettabile efficacia con una scarsa tossicità, ma non vi sono ancora studi sufficienti per poter stabilire una “non-inferiorità” rispetto alla vancomicina.
Tigeciclina
Si tratta di un antibiotico glicilciclinico, derivato semisintetico della minociclina, approvato dalla FDA nel 2005. È stato sviluppato in seguito al verificarsi di episodi di resistenza agli antibiotici da parte di alcuni batteri, quali Staphylococcus aureus e Acinetobacter Baumannii.
La tigeciclina è strutturalmente simile alle tetracicline e può causare effetti indesiderati simili, comprendenti fotosensibilità, pancreatite e pseudotumor cerebri; come le tetracicline, è controindicata nei bambini con meno di 8 anni e nelle donne in gravidanza.
Analogamente alle esperienze preliminari riferite a ramoplanina mancano dati sufficienti per poter proporre tali composti come presidi terapeutici consolidati.
Teicoplanina
Strutturalmente simile alla vancomicina, è un glicopeptide non assorbibile che ha dimostrato attività contro il CD, con delle MIC inferiori a quelle della vancomicina stessa.
I dati sono promettenti, si è registrato un tasso di successo del 96% ed un tasso di recidive del 7%.

 

Altri trattamenti

 

Immunoterapia (IVIG, IntraVenous Immune Globulin) 
Anche il ricorso alla immunoterapia, nella gestione delle CDI, è stato valutato tramite l’utilizzo di anticorpi monoclonali, totalmente umani e neutralizzanti, contro le tossine A ( CDA1 ) e B ( CDB1 ) di CD, dimostrando una buona tolleranza ed una valida risposta immunitaria in giovani volontari sani.
Secondo alcuni studi il trattamento con anticorpi antitossina (Dose: 150 – 400 mg/kg) potrebbe avere un ruolo importante nei pazienti critici, con grave colite che non risponde alla terapia standard; potrebbe essere utilizzata anche in combinazione con l'antibioticoterapia. Occorrono però ulteriori studi di conferma.
Vaccinoterapia
Poichè alti livelli di IgG anti-tossina A si associano a protezione verso le CDI, è stato sviluppato un vaccino con tossine A, inattivate, del CD, per verificare se sia possibile indurre una risposta immunitaria in pazienti con episodi ricorrenti di CDI. I risultati di un trial clinico hanno dimostrato che il vaccino, a differenti dosi, è stato ben tollerato, inducendo una buona risposta immunitaria.
Trapianto di feci (FMT, Fecal Microbiota Transplantation)
detto anche trapianto fecale, o batterioterapia fecale, o trasfusione fecale o infusione di probiotici umani (HPI, Human Probiotic Infusion); ARGF (Autologous Restoration of Gastrointestinal Flora)
L’infusione per via orale di una sospensione fecale, per il trattamento della diarrea cronica, è una pratica della antica medicina cinese (Ge Hong, IV sec. D.C.), largamente descritta nel XVI secolo da Li Shizhen. Nonostante una logica diffidenza degli ambienti scientifici, nel 1958 Eiseman ha recuperato questa pratica arcaica, considerata poco civile, somministrando la soluzione fecale tramite clistere, proprio nella cura della PMC.
Il trapianto di feci dev’essere realizzato in corso di ricovero, e limitato ai casi severi di CDI, refrattari alla terapia convenzionale.
Lo scopo del FMT è di ripristinare il microbiota del paziente.
Possono essere utilizate feci di donatori sani (auspicabilmente un congiunto oppure un donatore), quindi dopo aver indagato ed escluso la presenza di batteri o virus o parassiti contagiosi tipo: Salmonella, HIV, virus dell'epatite ecc.
Dopo la raccolta, il campione di feci, adeguatamente preparato in un laboratorio clinico sotto forma di sospensione liquida, viene successivamente introdotto nel tratto digestivo superiore attraverso un sondino nasogastrico, oppure nel colon attraverso un clistere. I due metodi possono essere combinati per ottenere il miglior risultato. La procedura comporta a volte 5-10 giorni di trattamento con clisteri, ma la maggior parte dei pazienti guarisce dopo un solo trattamento. Regolari controlli vanno fatti fino ad un anno dopo la procedura.
Una forma modificata di batterioterapia fecale, attualmente in fase di sviluppo, è una omotrasfusione, da feci "donate" precedentemente dallo stesso soggetto, denominata ARGF (Autologous Restoration of Gastrointestinal Flora, ripristino autologo della flora gastrointestinale).
Questa metodica, più sicura e più efficace, prevede che il campione fecale autologo (proprio) venga fornito dal paziente prima del trattamento medico, e, successivamente, conservato in frigorifero. Se il paziente svilupperà successivamente una CDI il campione verrà estratto con soluzione salina e filtrata; successivamente verrà liofilizzato e racchiuso in capsule gastroresistenti, da assumere per via orale.
Questa procedura permette di evitare i rischi della classica batterioterapia fecale, dove un eventuale infezione potrebbe essere trasmessa al paziente dal donatore e, inoltre, si eviterebbe la necessità di somministrare il campione di feci nel duodeno attraverso sonda.
L'efficacia, nel prevenire le recidive della PMC, è stimata essere del 90% nei soggetti trattati con questa metodica.
Un limite della procedura può essere rappresentato anche dalla non accettazione di tale approccio terapeutico da parte del paziente.
Tolevamer e Colestiramina
Sono state studiate anche molecole come la colestiramina e il tolevamer per la loro capacità di chelare le tossine presenti nel lume intestinale.
Il Tolevamer è un polimero di stilene sulfonato che ha dimostrato la capacità di legare le tossine A e B, riducendo di oltre 80 volte l’accumulo di fluidi intraluminali e diminuendo di circa 16 volte la permeabilità; tuttavia, non avendo dimostrato un’efficacia superiore agli altri farmaci, gli studi volti ad una sua commercializzazione sono stati sospesi.
Anche l’associazione colestiramina/colestipolo ha mostrato la capacità di legare in vitro le tossine A e B.
Probiotici
L’utilizzo di probiotici è da sempre molto controverso: essi agiscono restaurando la normale flora microbica intestinale e in tal modo, teoricamente, possono prevenire le CDI. Vengono utilizzati ceppi di batteri Lactobacillus e Bifidobacterium e del lievito Saccharomyces Boulardis, ma la loro efficacia è discutibile.
Esistono diversi studi sulla valutazione dell'efficacia dei lattobacilli nel trattamento delle CDI, ma i risultati non sono definitivi.
Vi è altresì molto interesse riguardo l’uso dei probiotici, in associazione o meno alla terapia antibiotica.
Nonostante il razionale teorico, di fatto non vi sono ancora livelli di evidenza decisivi riguardo il valore di tale approccio, che resta ancora largamente empirico.

 

Terapia chirurgica

Non tutti i pazienti con CDI possono essere trattati con successo con la terapia medica e in alcuni casi si deve ricorrere all'intervento chirurgico. Ovviamente nell’ambito del management delle forme gravi, nei rari casi di refrattarietà alla terapia, deve essere preso in considerazione il ricorso alla colectomia.

La colectomia è l'intervento di prima scelta nei casi di coliti fulminanti refrattarie, perforazione dell'intestino, megacolon tossico, in generale nei casi particolarmente severi con mancata risposta alla terapia nelle 48 ore o nel caso di conclamato danno multi-organo. Alcuni studi hanno dimostrato una maggiore probabilità di sopravvivenza se i pazienti vengono sottoposti ad intervento chirurgico prima di sviluppare sepsi.

Nei casi di sepsi e perforazione intestinale, sottoposti a colectomia d'urgenza, la mortalità, nel periodo post-operatorio, raggiunge comunque il 37-57%, soprattutto in caso di ceppi particolarmente virulenti di C. Difficile.

ACRONIMI

PMC, PseudoMembranous Colitis
CDI, Clostridium Difficile Infections
CDAD, Clostridium Difficile Associated Disease
CDT, Clostridium Difficile Toxin
PCR, Polymerase Chain Reaction
TcdA, Toxin Clostridium difficile A
TcdB, Toxin Clostridium difficile B
FMT, Fecal Microbiota Transplantation
HPI, Human Probiotic Infusion
ARGF, Autologous Restoration of Gastrointestinal Flora
IVIG, IntraVenous Immune Globulin
PO, Per Os, per bocca
IV, IntraVenoso
QD o SID, quaque die o semel in die, una volta al dì
BID, bis in die, due volte al dì
TID, ter in die, tre volte al dì
QID, quater in die, quattro volte al dì
QxH, ogni "x" ore al dì


Approfondimenti

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  • Spectrum of Clostridium difficile infections outside health care facilities
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  • Disbiosi, flora batterica intestinale, microbiota intestinale, F. Quatraro, Medicitalia 
Data pubblicazione: 26 dicembre 2013

Autore

francescoquatraro
Dr. Francesco Quatraro Gastroenterologo, Colonproctologo

Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1986 presso Università degli Studi di Bari.
Iscritto all'Ordine dei Medici di Bari tesserino n° 8211.

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