C'è ancora speranza per me?

Salve a tutti, sono un ragazzo di 24 anni (ne compio 25 quest'anno) e non ho mai vissuto un giorno della mia vita.
Non sono mai riuscito ad avere relazioni sociali, sin dalle elementari/medie, pur desiderandole sempre.
In particolare non ho mai avuto una comitiva di amici, nessuna ragazza.
Questo mi ha portato ad essere vergine, non solo sessualmente, ma vergine di ogni esperienza di vita che un giovane ha piacere di fare e che gli permette di crescere: nessun viaggio, estate, discoteca, sport, o semplici ritrovi.
A 15 anni, quando il mio malessere si era acuito, ho deciso di andare da uno psicologo (cognitivo comportamentale) , ma le sue parole non fecero presa e non riuscivo a svolgere i piccoli esercizi che mi assegnava.
Così, al suo "ma allora che ci vieni a fare?
" abbandonai la terapia.
Tornai però da lui a 17 anni, quando oltre al malessere psicologico cominciai ad avere pesanti ed imbarazzanti episodi di somatizzazione, e ci affiancai una cura farmacologica a base di xanax e antidepressivi.
Andò così fino alla maturità, quando mi trasferii per iniziare l'Università.
Non era ancora tempo di sedute online, così il mio psicologo mi trovò quello che é stato il mio secondo psicologo.
Scelsi di andare in casa con altre 3 persone per spronarmi e mettermi in gioco.
Andò male.
Non solo non si formò un gruppo (nemmeno tra di loro) ma uno dei coinquilini era particolarmente molesto cosí dopo 3 mesi andai a vivere da solo.
In tutto ciò mi innamorai di una ragazza, ma diventai solo il suo amichetto gay confessore.
Dopo un pó mi proposi, ma fui rifiutato ("sarebbe stato bello se mi fossi innamorata di te, mi avresti dato tante attenzioni").
Dopo il primo anno lascio la terapia col secondo psicologo e mi rassegno al mio stato, studio, do gli esami e basta.
Cambio anche città per la magistrale ma nulla cambia, e nel mio caso il covid non é c'entrato nulla.
Poi l'estate scorsa, tramite amici di famiglia, conosco una ragazza di 17 anni, me ne innamoro (naturalmente senza alcun seguito) e ritorna tutto ciò che avevo seppellito.
Decido questa volta di andare in psicoanalisi, percorso che sto seguendo tuttora.


Perché ho deciso di scrivere su questo sito allora?
Un pò per sfogo, un pò per chiedere se, secondo voi, dall'esterno esisterá qualcuno in grado di investirmi della sua amicizia/amore.
Ho paura che il mio "profilo" non lasci spazio ad un interesse, ho paura di essere ormai vecchio per fare le cose che vorrei fare, per vivermi una gioventù.
Dal percorso analitico é emersa (tra le varie cose) una mia confusione sull'identità, tendo a vedermi come un bambino/adolescente.
D'altra parte non ho mai iniziato ad essere tale.


Per il momento nutro ancora speranza, ma credo che questa morirà (ed io con lei) quando mi ritroverò a fare casa-lavoro senza più possibilità di riscatto.


Chiedo scusa per la lunghezza del post.
Ringrazio chiunque avrá la pazienza di leggerlo.
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Dr.ssa Anna Potenza Psicologo 3.8k 186
Caro utente,
in genere intervenire su una persona che ha già un curante è una procedura inopportuna.
C'è un legame che è bene creare, la cosiddetta "alleanza terapeutica", che permette a terapeuta e paziente di lavorare insieme in vista del successo.
Mi chiedo cosa abbia impedito a lei di creare quest'alleanza in ben tre rapporti terapeutici, e francamente da questa postazione a distanza ritengo fuorviante ogni ipotesi.
Se rispondo lo stesso è perché avverto la carica di disperazione della frase: "non ho mai vissuto un giorno della mia vita".
Su questa frase, l'attuale terapeuta (ma anche gli altri avrebbero potuto) ricostruirà il suo sentire attuale e la sua sofferenza antica, l'aiuterà a raggiungere quel qualcosa che l'ha isolata dietro una parete di ghiaccio... sempre che lei gli riferisca le cose che ha detto a noi, compresa questa frase.
Certi pazienti fanno venire in mente una fiaba di Andersen, 'La regina delle nevi'.
Sembrano essersi congelati, chissà quanto precocemente, e non si accorgono che non sono gli altri a non volerli raggiungere, ma loro stessi a rimanere dietro una barriera di ghiaccio. Guardano gli altri ridere, sorridere, tenersi per mano e si sentono esclusi.
Non si accorgono che ad escluderli è qualcosa in loro stessi, forse una ferita dell'anima che è stata troppo dolorosa, che hanno costretto a non sanguinare circondandola di ghiaccio.
Raggiungere questo nucleo doloroso per curarlo può corrispondere a riaprire la piaga, per questo molti pazienti resistono alla terapia.
Lei dice che col primo terapeuta "non riuscivo a svolgere i piccoli esercizi che mi assegnava".
Ma cosa pensava, quando evitava di svolgerli? Che erano inutili oppure troppo difficili? Entrambe le definizioni sono solo il meccanismo di difesa che le impediva di trovarsi di fronte ad una difficoltà generata da altro e rimasta inconscia.
Adesso lei si è rivolto ad una terapia psicoanalitica: attraverso la parola, i ricordi, cerca di raggiungere ancora quel nucleo doloroso.
Due diverse modalità, ma la meta è la stessa.
Si affidi al suo terapeuta, specie se è esperto dell'ambito del trauma. Non abbia fretta, ma combatta il suo disfattismo. Ha realizzato tante cose e molte altre ne ha tentate, il che è già un successo. Sia certo, adesso, che vedrà la soluzione.
Auguri.

Prof.ssa Anna Potenza (RM) gairos1971@gmail.com