Testosterone e prostata. Dal mito alla realtà

Nella conoscenza comune sia di pazienti che anche di qualche medico, il testosterone, è ancora considerato un nemico della prostata ed addirittura un possibile responsabile del cancro della stessa.

Nella conoscenza comune sia di pazienti che anche di qualche medico, il testosterone, ormone prodotto soprattutto dai testicoli e fondamento della sessualità maschile, è ancora considerato un nemico della prostata ed addirittura un possibile responsabile del cancro della stessa.

 

Premessa storica

Questa idea è la figlia del famosissimo e per anni ultra citato lavoro sperimentale di Huggins del 1941 che per questo gli fruttò il premio Nobel.

Huggins per primo dimostrò che la castrazione chirurgica di animali affetti da cancro della prostata, riduceva il volume del tumore, faceva regredire la presenza di eventuali metastasi e pertanto allungava l'aspettativa di vita. Pertanto la conclusione a cui arrivò fu che il testosterone stimolava la crescita del cancro della prostata (CAp) e per traslato che poteva anche causarlo. Da queste iniziali osservazioni sperimentali, al passare al trattamento sull'uomo il passo fu breve.

Effettivamente nei pazienti affetti da CAp si ottenne e si ottiene tuttora per mezzo della castrazione (allora chirurgica e attualmente chimica), l'abbattimento della concentrazione ematica del testosterone con un successivo efficace controllo sulla neoplasia. Al giorno d’oggi infatti uno dei possibili pilastri terapeutici del tumore prostatico è rappresentato da farmaci che in una maniera o in un altra (antiandrogeni puri o antagonisti o gli analoghi del GNRH) portano la concentrazione del testosterone ematico a valori prossimi allo zero.

 

I nuovi studi che confutano l'ipotesi androgenica

Date però queste premesse, è chiaro come sia stato ovvio per decine di anni associare erratamente il testosterone all’incremento del rischio di ammalarsi di cancro della prostata (la cosidetta ipotesi androgenica).

Ma con il passare dei decenni, questo asserto ha dapprima cominciato a perdere consistenza venendo messo in dubbio per primo da Eaton nel 1999 e poi da Pearson nel 2005. Ma la pubblicazione fondamentale che ha cantato il "de profundis" a questa errata conoscenza è quello di Roddam (2008), che con uno studio prospettico molto vasto (pubblicato sul Journal of National Cancer Institute) ha potuto chiaramente dimostrare che non esiste nessuna associazione fra la concentrazione di testosterone ematico ed il rischio di cancro della prostata.

Addirittura altri studi, come quello di Morgentaler del 2009, demolendo del tutto l'ipotesi androgenica, hanno potuto documentare come ci sia al contrario un'alta prevalenza di cancro prostatico nei soggetti con bassa concentrazione androgenica.
E inoltre altre ricerche hanno evidenziato che in soggetti affetti da cancro della prostata, un basso livello di testosterone preoperatorio fosse associato ad un più alto grado di malignità della neoplasia (Lane 2008 e Salonia 2011), ad un maggior coinvolgimento neoplastico dei linfonodi (Kratzik 2011) e delle vescicole seminali (Salonia 2011) e ad una peggiore efficacia di una eventuale terapia antiandrogena postoperatoria(Chen 2002).

Pertanto come chiaramente emerge da un attualissimo articolo pubblicato da Roberto Muller su European Urology (Novembre 2012), le odierne ricerche fanno addirittura ipotizzare che una bassa concentrazione di testosterone possa non diminuire ma aumentare il rischio di cancro della prostata e soprattutto di selezionarne le tipologie più aggressive.

 

I tempi della medicina

Ma ci si potrebbe chiedere perchè la comunità medica ha impiegato quasi 50 anni a ribaltare le conclusioni a cui era arrivato Huggins nel 1941.

Le cause di questa “cecità” sono molteplici: la prima è per esempio l’interazione fra testosterone e PSA (antigene prostatico specifico), che è da molti anni il più comune marcatore di rischio per il cancro della prostata.

Il testosterone infatti, anche in assenza di cancro, può produrre un aumento del PSA. Pertanto, poichè le biopsie prostatiche (che sono il metodo ultimo per diagnosticare un CAp) vengo eseguite specialmente in soggetti che presentano alti valori di PSA, sarà statisticamente più facile trovare neoplasie prostatiche (altrimenti silenti) in pazienti con testosterone alto. In questi casi l'aumento del testosterone, sia naturale che indotto da terapie contro l’ipogonadismo, non ha però aumentato il rischio di cancro prostatico ma ne ha al contrario facilitato la diagnosi!

In questa visione infatti un livello androgenico maggiore può equivalere a maggiori livelli di PSA che a loro volta spingono ad eseguire un maggior numero di biopsie e pertanto a diagnosticare un maggior numero di neoplasie prostatiche.

Un'altra errata asserzione circa i rapporti fra testosterone e prostata, è quella che alti livelli di testosterone stimolino la crescita delle cellule prostatiche e pertanto predispongano più facilmente alla ipertrofia prostatica benigna (IPB).

Wright nel 1999 ha invece potuto dimostrare che la crescita prostatica è stimolata solo dalle basse concentrazioni di testosterone, che non ha invece alcun effetto ad alte concentrazioni. Questa costatazione è poi stata confermata da Mercks (JAMA 2006). Nel suo studio effettuato su 44 pazienti anziani con bassi valori di testosterone, la somministrazione dell’ormone, ha sì provocato (come per altro atteso), il significativo incremento dei livelli di testosterone ematico, ma senza aumentarne la concentrazione a livello prostatico e soprattutto senza aumentare l’incidenza di cancro.

Nel 2009 un libro edito dalla Harvard Medical School di Cambridge (Boston) e poi tradotto nel 2010 a cura della Società Italiana di Urologia (Titolo: Testosterone per la vita) ha finalmente cancellato definitivamente l’ipotesi che il testosterone sia “cibo per il cancro” o addirittura sia “benzina versata sul fuoco”.

 

Ma quale può essere per “l’uomo della strada” l’utilità di questa minforma?

Da tutto quello che abbiamo detto finora ne possono derivare importantissime scelte terapeutiche per una larga platea di uomini con bassi livelli di testosterone (ipogonadismo), sia giovanile (da cause testicolari), sia dell’età matura (andropausa).
Il testosterone infatti non deve essere solo visto come l’ormone della sessualità e pertanto legato tout court all’erezione e al desiderio sessuale maschile (ma in piccola parte anche femminile).Infatti questo ormone agisce anche sulla composizione dei muscoli e per questo motivo è considerato un dopante.

Nel paziente con carenza dell’ormone, la sua somministrazione produrrà un benefico aumento del peso corporeo legato all’aumento della massa muscolare con conseguente incremento della forza fisica come solo si può avere con un intenso esercizio. L’effetto sul tessuto adiposo è invece contrario, con riduzione del grasso muscolare ma non a livello sottocutaneo e addominale. Inoltre la terapia con testosterone aumenta la densità ossea a livello delle anche e della colonna vertebrale, con minor rischio di possibili fratture da osteoporosi. Ricerche recenti documentano inoltre l’effetto del testosterone sulla riduzione di accidenti cardiovascolari (infarto e ictus) per una possibile funzione sia sulla riduzione della glicemia che del colesterolo.

Il testosterone è l’ormone che con un giro di parole “fa di un uomo, un uomo”.
Come diceva un famoso endocrinologo degli anni ’60 “L'America l’hanno scoperta gli uomini e non le donne, perché avevano il testosterone”.
Naturalmente con questa affermazione non voglio assolutamente stimolare diatribe maschiliste (ricordiamoci come nel 1400 la condizione della donna fosse assolutamente e violentemente subalterna al maschio!) ma voglio solamente accendere una luce sulla sequela di sintomi che spesso affliggono il maschio nella post andropausa (depressione, affaticamento fisico e psichico, mancanza di attenzione e di concentrazione, diminuita voglia di vivere, ecc.) e di come questi sintomi possano essere attenuati o guariti con una idonea terapia di rimpiazzamento androgenico.

Data pubblicazione: 28 novembre 2012
Prostata

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