Miei mostri adorati - Il mostro come alleato, il controllo come nemico nella gestione del doc

matteopacini
Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Qual'è la radice psicologica dei mostri del cinema? Sicuramente, dei diversi esempi che mi vengono in mente, la maggioranza dei mostri si muove secondo le leggi delle ossessioni.

I mostri si possono evocare. Ovviamente non sarebbe di alcuna utilità invocare un mostro, il fatto è che le persone non resistono, e puntualmente li evocano, scatenando l'inferno. Candyman, per esempio, deve essere invocato tre volte, dopo di che esce dallo specchio e ti perseguita. L'ossessione non ti consente di tenere la paura dietro lo specchio, ti costringe a farla ritornar fuori ogni volta, quasi che uno si infilasse da solo nell'imbuto del pensiero. Per questo l'ossessivo, che poi si mostra terrorizzato dalle paure che si è fatto crescer dentro, si lamenta anche perché a volte se l'è andata quasi a cercare, stuzzicando le proprie paure con domande, richieste, ricerche. Magari il fatto di ripetere tre volte il nome Candyman, in origine, poteva essere un rituale per farlo sparire, una specie di scongiuro. Ma poi, come vuole la regola delle ossessioni, diviene solo una via per entrar dentro la ruota ossessiva: più ne parli, più ci ti avvicini.

Anche tutti i casi in cui il mostro si “sveglia” perché qualcuno ha dimenticato le regole per tenerlo buono, o perché ha sbagliato rituali, hanno un significato analogo. Tutti i rituali ideati per tener buono un fenomeno, o sono giusti (ma allora siamo nella magia), oppure sono semplicemente l'illusione del controllo, che è già un sintomo del fatto che l'ossessione sta prendendo piede. Prima o poi le regole diventeranno talmente difficili, complicate o odiose che a un certo punto la persona arriverà a scordarsele e a lasciar via libera al mostro. Come dire che più ci si infogna con i rituali, più si è vicini al cuore del problema. I Gremlins, ad esempio, sono animali che, se non tenuti in condizioni praticamente impossibili, si trasformano in mostri fuori controllo. Il venditore infatti è titubante a cederli, perché è quasi scontato che chi cercherà di gestirli ne perderà il controllo. La cosa buffa dei Gremlins è che saranno loro stessi a far precipitare gli eventi, a indurre chi li possiede nell'errore che poi li farà trasformare. I Gremlins non dovrebbero bagnarsi, altrimenti...si moltiplicano...niente di grave apparentemente, se non che le ossessioni moltiplicate cominciano ad essere “malefiche”, e tagliando il filo alla radiosveglia del protagonista, che così compie il terzo errore, ovvero nutrirli dopo la mezzanotte. Le ossessioni sono bagnate con la rassicurazione, e si moltiplicano, ma soprattutto a questo punto fanno perdere alla persona il giusto punto di vista: lo spingono a cercare il rituale migliore, anziché averne timore. E così facendo divengono gigantesche, tentacolari. Anche il mostro, come il disturbo, ha degli stadi di gravità, che portano dalla semplice intensificazione alla perdita della capacità di correre ai ripari.

 

Una versione paradossale di questa regola sta nel film L'armata delle tenebre, in cui il Protagonista è istruito a pronunciare la formula “contro” le forze del male, che egli dovrà usare per mettervi sopra un sigillo, per ricacciarle nell'inferno e riportare il mondo al sicuro. Il nostro eroe comicamente si scorda la formula e la dice sbagliata, con l'atteggiamento di chi crede anche poco nella validità di una stupida formula. Chiaramente, così facendo, i mostri invadono la terra, ma il punto non è questo: il punto è che noi rimaniamo convinti che, se la formula fosse stata corretta, avremmo avuto “il controllo” dei mostri. Invece, sostanzialmente, la formula possiamo anche sbagliarla, o sarà destinata a essere sbagliata prima o poi, e ciò che deve capitare capiterà. Se si è ridotti a dover confidare su una formula magica per tener lontano il male, vuol dire che il male è vicino.

 

Per proteggersi dalle ossessioni val la pena fare come il protagonista del film: fregarsene del pensiero magico, ed essere piuttosto pronti a fronteggiare i pericoli reali, quando si presentano. Quando infatti lui riesce, con le proprie mani, la propria intelligenza e un bel po' di fortuna, a vincere la battaglia con il Male, il Mago gli insegna ancora una volta la formula per chiudere il Male definitivamente all'Inferno. E lui la sbaglia di nuovo, facendolo ritornare. Come dire che nella vita non si può essere preoccupati di non far tornare il Male, se mai l'unica è aver imparato a combatterlo.

 

Gli zombi: già ne abbiamo parlato come metafora del pensiero che non muore mai, del pensiero morto che però ritorna, quindi dell'ossessione come pensiero “non morto”. La cosa curiosa di come l'epidemia di zombi si sviluppa, più o meno sempre, è che per fermarla basterebbe, nella prima fase, ucciderli tutti con un colpo alla testa. Eppure le persone non lo fanno, le persone non riescono a uccidere le proprie ossessioni, perché devono tenerle in vita per interrogarle. Così facendo il disturbo si accresce, fino a dimensioni in cui poi non si riuscirebbe più a chiudere uno a uno i punti di ingresso nelle ossessioni.

La soluzione anti-zombie? Un film ne ha inventata una, World War Z, che consiste nell'introdurre una variabile ossessione-repellente, che impedisca all'ossessione di attecchire. Questa variabile nel film è rappresentata come fosse una malattia, che rende l'uomo non desiderabile per gli altri zombi, indigesto. Nella realtà le ossessioni non attecchiscono quando il dubbio è “clonato”, cioè quando la persona si esercita nel dubbio, e crea quindi un terreno che non è affamato di controllo, su cui il tentativo di controllo non attecchisce. Senza illusione di controllo, l'ossessione rimane contenuta, e spesso “muore di fame”.

Passiamo ad un altro celebre esempio, il Nightmare con protagonista Freddy Krueger, il mostro uccisore di bambini dal maglione a righe, dal cappellaccio fuligginoso, orribilmente sfigurato dalle ustioni, e armato di un artigianale guanto dalle dita a coltello. Freddy lo conosciamo nel mondo dei sogni, anche se era stato un personaggio reale nella storia. Gli abitanti del paese fecero giustizia e lo uccisero con il fuoco, eppure non si liberarono mai dell'ossessione, non si liberarono mai del pensiero di “come poteva essere esistito” un uomo così. Per questo Freddy continua a vivere, in una dimensione che inizialmente pare onirica, poi chiaramente non lo è. Questo andirivieni tra sonno e veglia, che nel film va avanti a scatole cinesi, può significare semplicemente che non siamo né nella realtà vissuta, né nel sogno, ma nella realtà mentale dei protagonisti, dove le ossessioni vivono e si potenziano. Potenziandosi, è come se divenissero reali, come se passassero a invadere la realtà, anziché rimanere “dentro”. Un modo di dire che diventano “invasive”. Qual'è il rimedio a Freddy? Voltargli le spalle, voltar le spalle alla minaccia, un comportamento suicida per chi ha paura, perché toglie la possibilità di controllare chi incombe su di te. Eppure è così che lui svanisce, che perde forza, quando non cerchi di controllarlo, di calcolarlo. Lo estrometti dal sistema.

Lo stesso meccanismo che usa Dario Argento quando in Suspiria immagina che la strega sia sconfitta da chi osa voltare le spalle alle sue minacce. Voltando le spalle all'ossessione si riesce finalmente a vedere dove è che siede, che si nutre, che prospera. Non dietro le cose che ci fanno paura, ma dietro quelle che dovrebbero rassicurarci. A quelle è legata, in maniera talmente spaventata da partorire poi le ossessioni ogniqualvolta le cose non sembrano completamente sotto controllo.

 

Le soluzioni non derivano mai dagli “incantatori” di mostri, da coloro che cercano di esorcizzarli. L'esorcista stesso, nell'omonimo film, muore per controllare il demone Pazuzu, ma la partita rimane aperta. Le soluzioni derivano dai mostri stessi, che ti insegnano come sconfiggerli: guardandoli in faccia, o voltandogli le spalle, che poi è la stessa cosa: in entrambi i casi, non cercando di venire a patti, di vendersi alla paura per una temporanea rassicurazione.

Sarà per questo che un celebre regista horror, Lucio Fulci, odiava le sue paure ma era innamorato dei mostri che ne derivavano, che chiamava simpaticamente "miei mostri adorati".

 

 

Data pubblicazione: 11 giugno 2018

36 commenti

#1
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Il problema per noi ossessivi è la mancanza di certezze. Io per esempio che ho paura di ammalarmi di depressione, con tutte le conseguenze del caso, sono terrorizzato quando leggo di suicidi che si stavano (presumibilmente) curando. La scritrice Alessandra Appiano era ricoverata in clinica eppure si è ammazzata. Paradossalmente son più "contento" quando si legge di suicidi che non erano in terapia, perché mi dico : "almeno avrebbero potuto provare a curarsi". Vorrei avere la certezza matematica che la depressione sia sempre guaribile...

#2
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Il sintomo è la mancanza di certezze, cioè il problema sì, è quello, non nel senso che la soluzione dovrebbe essere avere delle certezze. Il contrario, la soluzione è navigare l'incertezza. Non perché debba essere uno sforzo da fare per gli ossessivi, ma perché la certezza non sussiste, è un modo di dire, un'ipotesi operativa.
Uno cerca sempre di spiegarsi le cose in maniera da tranquillizarsi: chi si suicida non era in terapia, oppure se l'è cercata, oppure ha sbagliato qualcosa. Invece non è così. C'è l'incertezza, e da lì si parte.
Se qualcuno le dicesse che qualcosa è sempre guaribile lo guarderebbe come dire "ma che dici ?", perché chiaramente come risposta letterale è esagerata. Poi, se la si intende come risposta "salvo eccezioni", allora va bene, ma non è certezza.
La via d'uscita è attraverso l'incertezza, non risolvendo l'incertezza.

#3
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Buongiorno,
i suoi interessanti esempi cinematografici mi paiono indicare che, da parte del paziente, c'è la possibilità di giocare una parte attiva nel combattere questo disturbo: le cure rimangono indispensabili secondo me, ma accettando e lasciando scorrere i pensieri (magari con l'aiuto di tecniche di meditazione) e sforzandosi di non compulsare (come faccio io che giro sempre su internet a cercare storie di depressione) si può migliorare. la volontà non è del tutto spenta nel DOC, si può accettare che la vita non dà risposte certe.

#4
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

La parte attiva fondamentalmente è curarsi. Una parte attiva di gestione significa però che le ossessioni lasciano questo spazio, il che significa che non sono molto forti, o non continue. Più che altro lo scopo degli articoli è chiarire che la direzione della cura non è quella che poi il disturbo potrebbe far pensare, quando è in piena attività, perché in quei momenti spinge a cercare risposte, controllo, rassicurazione e anche la cura è gestita come se dovesse essere un aiuto a questo. Se il terapeuta, farmaci compresi, diventano un modo per avere "il controllo" delle ossessioni, allora si entra in un vicolo cieco. Le cure non cercano il controllo, cercano di eliminare il problema alla radice. Quando si cerca il controllo si rischia invece di cerca un compromesso, di trattare con la malattia secondo le regole della malattia, il che significa avere l'idea di tenerla buona, ma non debellarla.

#5
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Certo, parlavo di DOC in terapia, quindi tenuto a bada. E' ovvio che i farmaci sono fondamentali, ma non voglio pensare che le persone non possano fare nulla per contribuire a vincere le proprie paure.

#6
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Le tecniche che funzionano devono essere indipendenti dal meccanismo dell'ossessione. I farmaci sono tipicamente indipendenti, e anche alcune tecniche comportamentali. Se però le ossessioni sono forti, la tendenza generale è a dedicargli tempo, energie e a sperare di venirne fuori controllandole. In questo modo, la persona può non riuscire neanche a iniziare le cure, o lo fa ma in ritardo, perché quando deve prendere decisioni in realtà temporeggia, dubita, come se fosse tentato di non curarsi e di continuare a provare da solo a controllare l'ossessione. Soltanto che questo controllare significa appunto capire, svogere ,spiegarsi etc, ovvero tutt'altro che controllare, ma alimentare.

#7
Ex utente
Ex utente

Ma se Vettel ,fosse senza mani ,prendendo il termine nel senso più ampio,sarà l'eccezione o la regola?
L'eccezione non credo sia così rara,lo sono forse le "mani' di cui egli ha bisogno x aspettare il momento giusto ,ovvero x afferrare la sua vita per i capelli.

Buon lavoro .:)

#8
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Sinceramente, non ho capito nulla.

#9
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Sono dovuto andare a vedere chi è Vettel.
No, è fuori strada. Vettel guida la macchina, che è un sistema esterno. Non guida il proprio cervello, il cervello non è staccato, contiene in sé anche il guidatore. Non c'è un secondo guidatore che guida il cervello.

--

All'altro utente. Era un tentativo di rispondere al suo commento, che in realtà finisce per dire l'opposto, cioè che non le piace pensare che non c'è possibilità di controllare il cervello. Chi lo controllerebbe ? Noi ? In che senso, visto che il cervello determina noi ? Con una parte che entra in gioco per controllare il resto ? Quale ?

#10
Utente 378XXX
Utente 378XXX

La discussione che pone secondo me scivola dal piano medico, sul quale le do pienamente ragione, al piano filosofico, andando a toccare i concetti di volontà e coscienza.
In ogni caso le faccio un esempio per chiarire quello che intendiamo, credo:
io soffro di DOC , e mi sono accorto che la mia ansia migliora se faccio una corsa la sera. Arrivato a casa, potrei decidere di stendermi sul divano o andare a correre. E' vero che se avessi un doc gravissimo non avrei probabilmente la possibilità di scegliere, ma nelle mille altre sfumature di disturbo si,ed è questo che intendevo. E' vero che sceglie il cervello, ma è pur sempre una scelta, che può andare ad influenzare, anche in minima parte, il mio disturbo. La stessa scelta di curarsi, in fin dei conti, è una scelta.
Ma è una discussione su una proposizione indecidibile, non si può dimostrare se l'uomo è completamente libero o è determinato nelle sue scelte.

#11
Ex utente
Ex utente

Provo con esempio del rally ,pilota e navigatore.
Il navigatore conosce il percorso ed è lui che lo indica al pilota ,il quale si affida ciecamente ,se il navigatore sbaglia a dare indicazioni,finiscono si,fuori strada facendosi pure male.

#12
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Infatti anche la scelta di curarsi è influenzata dal disturbo in casi estremi. Chi è gravemente depresso tende a non curarsi, per esempio. Chi è gravemente ossessivo ritarda, dubita, ostacola con proprie proposte, si pone mille dubbi su dettagli, riporta mille volte al medico delle osservazioni sostanzialmente inutili, con il rischio di arrivare a cure complicate, sempre diverse, etc.

Il navigatore e il pilota. Li abbiamo tutti e due, e sono tutti e due nello stesso cervello. Siamo noi. Il navigatore decide una cosa, e il pilota non lo ascolta, per esempio. Oppure: il pilota ascolta, ma il navigatore dà sempre informazioni diverse, o le dà lentamente.

La filosofia, senza la conoscenza dei fenomeni, è inutile teorizzazione. Si può teorizzare qualcunque cosa. La scelta è un concetto di elasticità, non assoluto. In senso assoluto c'è una consequenzialità che fa una tendenza, una regola statistica, e diventa la normalità. Basta che si alterino dei pezzi, e ci si accorge che non era una realtà assoluta esterna alla macchina, è interna. Quindi se non ci sono più i meccanismi che funzionano in un certo modo, ciò che era scontato non lo è più. E più è alterato e meno c'è spazio perché ritorni a posto da solo.

#13
Utente 378XXX
Utente 378XXX

"Chi è gravemente depresso tende a non curarsi, per esempio". Mi è venuto in mente che la scrittrice Appiano, morta ad inizio mese, era ammalata da un mese e mezzo. E' terribile pensare che magari la cura non ha avuto il tempo di fare effetto, visto il tempo di latenza dei farmaci... Povera donna

#14
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

"E' terribile pensare che magari la cura non ha avuto il tempo di fare effetto, visto il tempo di latenza dei farmaci... "

Non solo, ma c'è chi non si cura. Viene, prende la ricetta, compra il farmaco, non lo assume mai.

Oppure viene ma perché i familiari lo portano, e praticamente si occupano di somministrargli le cure, che spontaneamente tende a rifiutare in preda a sfiducia o terrore.

#15
Ex utente
Ex utente

Anche La conoscenza dei fenomeni senza filosofia risulta essere inutile pratica:)

Se una persona è sfiduciata o in preda dal terrore che si fa ?
La si aiuta nei modi che più ci convengono.no?

#16
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

la filosofia è falsamente intesa come le teoria dell'esistente, senza spesso l'esistente. Se è la sistemazione dell'esistente, certo, può aiutare anche la ricerca. Ma la teoria su entità prive di corrispondenza, per cui ipotizzare un cervello sulla base di concetti biologicamente inesistenti è una falsa partenza.

Se una persona non si vuole curare si deve talvolta ricorrere alla forzatura. Non si tratta di aiutare, le malattie mentali fanno "opporre" la persona all'ipotesi della cura, non è questione di non arrivarci come forze ma avere in mente l'intenzione. Il problema è che invece l'intenzione è alterata, perché la visione del problema è dettata dalle regole interne della malattia, e questo significa che piu' sintomi ci sono, meno la persona vede l'alternativa.

#17
Ex utente
Ex utente

Non vedere alternativa ? Caspita sarebbe come avere una pena di morte pendere sempre sulla propria testa .


il nostro occhio è più furbo rimane sempre in una posizione comoda nel riprodurre in una data occasione,un' immagine prodotta già molte volte perché ritenere che in sé vi è qualcosa di diverso e di nuovo esige confermare più forza e moralità.


Quindi facendola semplice ,non vi è possibilità per loro di vedere un albero nella sua completezza: foglie , rami , colore , forma...ma vanno fantasicando un 'immagine approssimativa di un albero?

#18
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

No, significa che la persona vede una prospettiva, e non concepisce il fatto che possa esservi, per sé, una prospettiva diversa.
Il nostro occhio non è furbo o non furbo, ha un funzionamento, e così il cervello nelle sue parti. Non c'è alcuna funzione in cui il cervello "scelga" come porsi.

Non stiamo parlando di visione, stiamo parlando di concepire una realtà. Se dico ad una persona che vivrà senza un sintomo, non è detto che lo ritenga verosimile, e che abbia una sua concezione del mondo e di sé senza quel sintomo. Quindi il mio "starà meglio" non è percepito in maniera realistica.

Lei mi pare stia parlando del meccanismo di formazione del pensiero in generale. In tal caso, se uno non ha mai visto se stesso guarito, se lo può immaginare, ma lo considera "non esistente" fino a prova contraria.

#19
Ex utente
Ex utente

Buongiorno,
Il cervello lo vedo più come una sinfonia di orchestra che un computer, perché all'interno Vi sono risonanze su scale molto diverse, organizzate in modo gerarchico, piuttosto simili a quanto vediamo in un’orchestra che esegue una sinfonia.
In medicina da un lato c’è l’urgenza terapeutica che procede su binari molto spesso solo empirici, dall’altro c’è l’esigenza della sistemazione e comprensione teorica generale e particolare, relativa ai vari settori delle neuroscienze.

Tutto sta nel capire :)
Buona giornata

#20
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Scelga la metafora della sinfonia, ma è tutt'altro che un flusso non programmato, quindi non ci vedo differenze dai flussi di informazioni in generale.

#21
Ex utente
Ex utente

Ricalcando le sue parole " fino a prova contraria".

#22
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Va bene, vabe, chiudiamo con questa polemica. Il cervello è diverso, controlla se stesso e non è fatto di sola materia. Così magari è più contento. ha diritto di esserlo.

#23
Ex utente
Ex utente

:)
Buona serata.

#25
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Tornando al discorso sulla volontà , abbia pazienza dr. Pacini, però volevo capire una cosa : la TCC, che è scientificamente efficace nel doc, prevede ben dei compiti, che si basano sull impegno del paziente a eseguire o non eseguire determinati comportamenti. Quindi posso capire che il disturbo si curi e anche bene anche solo con un farmaco, ma, almeno nella tcc, l impegno del paziente ci vuole. E non credo sia un impegno da poco, visto che bisogna contrastare ciò che il Doc vuole farci fare.

#26
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

I compiti dovrebbero riguardare aspetti non inerenti l'ossessione, altrimenti è evidente che più la persona è ossessionata, meno li può mettere in atto.
Il comportamento rispetto ad un rituale non può essere "non faccia il rituale" o "pensi ad altro", perché questo sarebbe prescrivere l'assenza del sintomo, è assurdo. Se uno riesce a farlo, può farlo allora anche da solo.

#27
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Allora sono male informato. Credevo che i compiti consistessero nel resistere il più possibile ad agire la compulsione in modo da spegnere pian piano l ossessione. Ma io non ho mai fatto Tcc

#28
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

La resistenza, se si leggono i manuali, è citata come tecnica. Ma si intenderebbe non poter eseguire i rituali, materialmente.
Ad esempio, alcune persone che si mangiavano le unghie o che si grattavano o che comunque eseguivano rituali con le mani, di solito lesionanti sul corpo, erano tenuti con guanti che bloccavano loro le mani, in maniera che non potessero metterli in atto. Questo obbligava a resistere, e poteva anche funzionare. Ma dire alla stessa persona "resisti" non ha molto senso.

#29
Utente 378XXX
Utente 378XXX

Ma allora in che consistono i " comportamenti " nella terapia comportamentale ?

#30
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Per esempio i rituali sui rituali, l'iperritualità terapeutica, o la ritualizzazione del rituale. Oppure comportamenti che agiscono indirettamente distraendo il cervello dall'ossessione, o ancora esposizioni a ciò che non è l'oggetto della paura o del pensiero ma è legato comunque alla stessa radice di terrore di non avere il controllo.

#31
Ex utente
Ex utente

Tratto da una ricerca pubblicata su lancet psichiatry


" tutte le malattie psichiatriche hanno a che fare con la chimica del cervello? Domanda retorica: non c’è dubbio. Altrimenti i farmaci, ma pure le psicoterapie, che modificano le la biochimica cerebrale non avrebbero alcun senso. Se questo è vero, la domanda immediatamente successiva è: una depressione maggiore non curata, nel corso degli anni, modifica la biochimica cerebrale? Secondo una nuova ricerca pubblicata da “The Lancet Psychiatry” che indaga le funzione della microglia, la risposta pare essere affermativa. Dopo anni il cervello dei depressi non curati si modifica. Già, potrebbe commentare qualcuno. Ma pure il cervello di un soggetto non sofferente di depressione dopo dieci anni si modifica. Allora qual è il discrimine della ricerca?

Il discrimine è l’attivazione della microglia. La microglia è stata definita la “difesa” del cervello. In sostanza, le cellule microgliali rappresentano il sistema di difesa immunitaria del cervello. Le cellule microgliali si attivano ogni volta che c’è qualche tipo di sofferenza nervosa. Anche perché le cellule microgliali non si trovano soltanto nel cervello, ma sono pure distribuite nel midollo spinale. E le cellule microgliali sono pure “dinamiche”: si muovono alla ricerca di cellule nervose danneggiate da proteggere e riparare. Sono anche state definite cellule “spazzine” del sistema nervoso. Le loro funzioni, un tempo ignorate, sono sempre più studiate. Anche grazie alle moderne tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale.

E proprio grazie a una tecnica di imaging cerebrale, la PET (tomografia a emissione di positroni) un nuovo studio che ha preso in esame per anni un gruppo di soggetti sofferenti di depressione clinica, mostra che la depressione non trattata si associa a una costante attivazione della microglia. Attivazione microgliale che è ormai consuetudine definire come marker, segno distintivo, della neuroinfiammazione. E siccome la neuroinfiammazione, a sua volta, si associa a tutta una serie di malattie neurodegenerative, una sua presenza nel tempo nei pazienti depressi non curati, comporta un significato clinico non trascurabile.

«L’attivazione microgliale – scrivono gli autori – è più alta in pazienti con disturbo depressivo maggiore cronologicamente avanzato con lunghi periodi senza trattamento antidepressivo rispetto ai pazienti con disturbo depressivo maggiore con brevi periodi di trattamento antidepressivo, che è fortemente indicativo di una diversa fase della malattia. Coerentemente con questo, l’aumento annuale dell’attivazione microgliale non è più evidente quando viene somministrato un trattamento antidepressivo».

In buona sostanza, siccome l’infiammazione in generale è indice di qualche forma di sofferenza, ma pure di meccanismo biologico protettivo, non curare una depressione è un po’ come gettare della benzina sul fuoco della neuroinfiammazione. Viceversa, curare la depressione, corrisponderebbe a “spegnere”, o quantomeno a limitare i danni, prodotti da questo tipo di neuroinfiammazione.

La neuroinfiammazione del resto, come qualsiasi tipo di infiammazione presente nel corpo, se protratta, se addirittura cronica, porta ad alterazioni biochimiche ed anche funzionali. Ecco perché nel caso di questa ricerca del Campbell Family Mental Health Research Institute (CAMH, centro per le dipendenze e la salute mentale di Toronto, Canada) si commenta dicendo che la depressione maggiore non curata per più di dieci anni “cambia il cervello”. Come lo cambi, oltre all’attivazione della microglia, è una questione ancora aperta e da indagare. Si può già da ora iniziare a sostenere, tuttavia, che la depressione maggiore, in base a questi marker, può essere una malattia progressiva e, come tale, necessiti, per essere efficaci, di approcci e cure differenti negli anni.

L’autore senior di questo lavoro è Jeffrey Meyer (nella foto) che al CAMH è a capo del programma di imaging neurochimico nei disturbi dell’umore e dell’ansia, nonché professore ordinario di neurochimica della depressione maggiore all’università di Toronto, dipartimento di psichiatria.

«Una maggiore infiammazione nel cervello – commenta Jeffrey Meyer – è una risposta comune nelle malattie degenerative del cervello mentre progrediscono, come nel caso del morbo di Alzheimer e del morbo di Parkinson». In base ai risultati di questa ricerca di Meyer e collaboratori, ora l’attivazione microgliale, spesso considerata un marker di malattia neurodegenerativa e di neuroprogressione nel più ampio campo della malattia neuropsichiatrica, lo è anche nei riguardi della depressione maggiore.

A quanto se ne sappia, aggiungono gli autori, «questo è il primo studio a indagare un marker di attivazione microgliale in relazione alla durata della malattia e al trattamento in pazienti con disturbo depressivo maggiore». Va infine tenuta in considerazione la possibilità se questa sia la conseguenza o il terreno sui cui si sostiene la depressione maggiore non trattata. E, come sottolinea Hugh Perry, professore di neuropatologia sperimentale all’università di Southampton (Regno Unito), va valutato se tutto ciò sia «una risposta protettiva nel cervello piuttosto che l’evidenza di un fenotipo proinfiammatorio e dannoso per il tessuto». In ogni caso, come rilevato sia dagli autori che dai commentatori di questo lavoro, si riconferma il «crescente interesse per il ruolo dell’infiammazione, in particolare della microglia, nei disturbi psichiatrici».

Elaine Setiawan, Sophia Attwells, Alan A Wilson, Romina Mizrahi, Pablo M Rusjan, Laura Miler, Cynthia Xu, Sarita Sharma, Stephen Kish, Sylvain Houle, Jeffrey H Meyer
Association of translocator protein total distribution volume with duration of untreated major depressive disorder: a cross-sectional study. The Lancet Psychiatry (Available online 26 February 2018, In Press, Corrected Proof)

#32
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Ecco un esempio di commento che non c'entra niente con l'articolo. E tolto questo, la invito a farla finita di mettersi a fare il provocatore a vuoto.
Siamo compiaciuti che si studi la biologia del cervello, e quindi ?
Cosa vuol fare vedere, che prende il primo articolo e è capace di fare copia incolla ?
La smetta.

#33
Ex utente
Ex utente


Perché è sempre così arrabbiato?


Si sbaglia,non studio ma leggo ciò che più mi aggrada.


Certo è una ricerca pubblicata da altri autori ,che dovrei fare riproporlo con mie parole e farlo mio ,questo sarebbe disonesto.

Non vorrei far polemica ,ma mi connota sempre come se fossi maschio ,questo è sicuro ,non lo sono.

Basta metterla sul personale che nn ne trae vantaggio nessuno,alla fine che ne pensa di questo studio ?

#34
Dr. Matteo Pacini
Dr. Matteo Pacini

Non sono sempre arrabbiato, come può vedere dalle risposte. Non amo i provocatori, le cose fuori tema, tutte cose che ha introdotto Lei. I prossimi commenti saranno oscurati.

#35
Ex utente
Ex utente

Miei mostri adorati quindi cervello quindi malattie psichiatriche pensavo fosse consequenziale e quindi attinente.
Comunque saluto e ringrazio buon proseguo.

#36
Dr. Otello Poli
Dr. Otello Poli

Ciao Matteo, veramente ben scritto l'articolo "Miei mostri adorati - Il mostro come alleato...". Suggestivo ed esaustivo al medesimo tempo. Forse, no: sicuramente, evocativo.
E sempre un piacere intellettuale leggerti.

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